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Bandito (Il) -

Regia:Alberto Lattuada
Vietato:16
Video:Ricordi Video - Vivivideo
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La guerra
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Alberto Lattuada
Sceneggiatura:Oreste Biancoli, Mino Caudana, Alberto Lattuada, Ettore Maria Margadonna, Tullio Pinelli, Piero Tellini
Fotografia:Aldo Tonti
Musiche:Felice Lattuada
Montaggio:Mario Bonotti
Scenografia:Guglielmo Borzone
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Amedeo Nazzari (Ernesto Bruneri), Carla Del Poggio (Maria), Carlo Campanini (Carlo Pandelli), Mino Doro (Mirko), Eliana Banducci (Rosetta Pandelli), Thea Ajmaretti (la tenutaria Tecla), Gianni Appelius (Calligaris), Amato Garbini (Faustino il tenutario), Folco Lulli (Andrea), Ruggero Madrigali (il Negriero), Anna Magnani (Lydia), Mario Perrone (il Gobbo)
Produzione:Dino De Laurentiis per La Lux Film - R.D.L.
Distribuzione:Cineteca Nazionale
Origine:Italia
Anno:1946
Durata:

87'

Trama:

Reduce dalla prigionia in Germania Ernesto si trova solo: la casa distrutta, la mamma morta, la sorella scomparsa. Ritrova inaspettatamente questa ultima in una casa equivoca, dove nasce una furibonda lotta con l'ingaggiatore della ragazza. Nella colluttazione la sorella rimane uccisa e il figuro viene spinto da Ernesto nella tromba delle scale. Ferito e inseguito dalla polizia, il giovane ripara in casa di una mondana che è a capo di una banda di rapinatori. Diventa amante della donna e capo della banda, ma il ricavato delle imprese egli lo elargisce in atti benefici che i compagni disapprovano. Un giorno, mentre con i complici effettua un colpo assalendo una macchina, egli viene denunciato alla polizia dalla stessa mondana che si vuol vendicare di una offesa subita, ma egli rinuncia a mettersi in salvo per riaccompagnare a casa la bimba di un suo ex compagno che si trovava nella macchina assalita. Non rispondendo all'alt intimatogli dagli agenti, questi sparano ed Ernesto cade ferito a morte.

Critica 1:Reduce dalla prigionia in Germania, Ernesto arriva a Torino, uccide lo sfruttatore della sorella, diventa capo di una banda e muore in uno scontro con la polizia. Film neorealista sui generis: il suo neorealismo è tutto nella prima, suggestiva sequenza, ma poi si trasforma in una gangster story di modello americano sulla quale il regista innesta la sua cultura cinematografica, ma anche una robustezza narrativa e una funzionalità espressiva che saranno costanti nei suoi film successivi. È, a modo suo, un film formalista, mentre appaiono incongruenti o approssimativi, nel loro romanticismo, i contenuti etici e sociali. A. Nazzari vinse il Nastro d'argento come miglior attore.
Autore critica:
Fonte criticaKataweb Cinema
Data critica:



Critica 2:(…)I titoli di testa del film compaiono sullo sfondo di un giornale; tutta la fase dell'arrivo del treno, la stazione, lo scarico dei prigionieri, ha il ritmo serrato e la ricchezza di informazioni di un improvviso impatto con l'attualità. Dalla rapida alternanza dell'immagine del treno che procede (dopo essere uscito dall'oscurità della galleria) e dei prigionieri ammassati nel vagone, si arriva alla sosta, all'apertura e alla discesa caotica dei prigionieri che si confondono con la folla in attesa. Adottando una segmentazione dell'incipit che gli ricordiamo in altre occasioni (pensiamo all'iniziale descrizione dell'ospedale in Anna o ai rituali del trucco delle signore nell'hotel de La spiaggia), Lattuada fonde la tensione di arrivo e attesa con un quantità di segni emblematici. Intanto c'è il treno del ritorno che è lo stesso della deportazione; riconduce a casa i prigionieri e tuttavia conserva una sua particolare cupezza: la macchina nel fumo, i suoi dettagli nella successione dinamica delle inquadrature, le scritte a gesso («cercasi moglie anche usata», «abbasso Hitler - evviva Usa», «evviva l'Italia») e quella ufficiale: «Prigionieri di guerra restituiti». Il treno, insomma, si presenta nella luce della speranza e nel senso del dolore ancor vivo. L'interno «carcerario» dei vagoni nei quali pur risuona qualche euforia tra i corpi accasciati per la stanchezza, è spezzato dalla violenza in primo piano della caldaia aperta: gli uomini restano a contatto col fuoco e col fumo della guerra e la bocca accesa del forno può alludere a qualcosa di ancor più tremendo.
La discesa nella stazione ripresenta, in altra chiave ambientale, la stessa oscillazione. All'inizio è un caos festoso: richiami, saluti, abbracci, le note del «Piave», una concitazione appena venata da piccole stonature di sfondo come quella del soldato che resta seduto indifferente ed estraneo; addirittura l'informazione che si fa gioco e parodia (o anche polemica) quando Carlo si presenta con cibo e giornali: «...ho preso l'Avanti!, anche Il Popolo…— avanti popolo...». Poi la festa subisce le prime insidie dell'incertezza: un prete che non sa o non vuole rispondere sulla sorte dei parenti, i dialetti che rivelano la differenza e non soltanto l'allegria, un MP che arriva a dividere e a mettere in fila. Di qui la precarietà delle speranze si fa chiara e il dialogo fra Ernesto e Carlo nel camioncino la approfondisce per contrasto: i due uomini magnificano l'aria speciale del suolo italiano e intanto l'esterno mostra interminabili schiere di macerie, Carlo, che per scommessa aveva intonato l'acuto dell'Aida: «...un trono vicino al sol..» mostrando il bottino bizzarro di una sedia antica, è costretto a rinunciarvi per pagare il passaggio. Lo scenario della devastazione, commentato dal ritmo allegro di A tisket, a tasket (questo contrasto, riferisce divertito lo stesso regista, ebbe un grosso apprezzamento dalla delegazione sovietica al Festival di Cannes del 1946), ha poi due contrappunti decisivi per il protagonista. Il primo all'arrivo di questi nel cortile della sua casa bombardata, il secondo all'Ufficio reduci. Ancora nel sottofondo della canzonetta americana Ernesto contempla la casa distrutta; la musica è sostenuta e il giro della mdp invece lento: parte dal reduce e torna su di lui dopo un accumulo di desolazione. La scena successiva con la portinaia è fra le più vere e strazianti che il neorealismo abbia offerto, esprime cioè il massimo sentimento del dolore in una altrettanto vasta impotenza, fissando con naturalezza il protagonismo delle persone comuni nell'immane tragedia. La scena dell'Ufficio Reduci riprende con asprezza ancor maggiore che nella parte iniziale del treno l'angoscia delle esperienze appena trascorse: i reduci sono ammassati in uno stanzone, pigiati da non potersi muovere e accanto a Ernesto c'è un uomo col lager in faccia, un uomo tormentato dalla tisi, malfermo, con lo sguardo vuoto da «mussulmano». Di nuovo è l'impotenza verso un dramma troppo grande e purtuttavia interamente subìto che ci balza davanti; la classica divisione tra affamati e affamatori (il maresciallo grasso che sta dietro la scrivania per dispensare le liquidazioni), si carica di significati contingenti e precisi anche se poi l'atto di ribellione di Ernesto rimane fatalmente solitario. Quasi un gettare all'aria le carte come nelle rivolte contadine che però sconta l'invincibile anonimato della città. Se si guarda alla riconquistata serenità di Carlo nella sua casa di montagna, non a caso evidenziata con una significativa parentesi, la città appare come un deserto affollato. La campagna ha per contro maggiori possibilità di ripresa, è più integra e lontana, politicamente, dalla logica di guerra e dalle sue conseguenze. (…)
Mutuando dagli esempi francesi e americani del nero, il regista stacca dalla prima parte neorealista una sorta di intermezzo poliziesco. Ed è, tutto sommato, un intermezzo giocoso anche se prende l'avvio dai bruschi cambi di inquadratura che descrivono la doppia morte di Maria e del suo protettore. Il passaggio è segnato dalle scarpe di Ernesto, riprese ancor sporche di fango durante la collutazione ma poi nuove e lucide nel sensualissimo movimento orizzontale che ci introduce alla tresca fra il novello fuorilegge e la cinica Lydia. Da questo momento fino alla spietata uccisione di un ostaggio da parte della banda, l'avventura di Ernesto è vissuta in una specie di alleggerimento musicale (anche se le ferite continuano a sanguinare), una festa illusoria che il reduce interpreta fra beffa e romantica ansia di giustizia. Quasi un sogno populista significativamente concluso, dopo che a passo di danza sono stati ripuliti i ricchi profittatori e che gli spari si sono accordati alla pirotecnica di Capodanno, con la distribuzione del bottino ai poveri di «ringhiera» nelle note del GuglielmoTell.
In questa parte intermedia l'aggancio neorealista sembra del tutto abbandonato in favore di altri consolidati moduli di genere. Tuttavia, se vogliamo trovare un archetipo del carattere che Nazzari fisserà qualche anno più tardi con Matarazzo in quello che assai correttamente è stato definito neorealismo d'appendice, dobbiamo rifarci proprio al Bandito. Non è tanto la porta stretta che consente all'attore di cambiare pelle dopo la consacrazione del ventennio (casomai tale compito lo avrebbe assolto il precedente Un giorno nella vita di Blasetti), quanto la sfaccettatura di un nuovo tipo che va formandosi: l'uomo del dopoguerra sempre in bilico fra la rinascita individuale (che avviene perlopiù attraverso il lavoro in una società insidiata dalla disoccupazione) e il fallimento, fra la pace della famiglia (dopo lo sfascio della guerra) e l'illegalità, fra la disperazione e il riscatto (religioso) dei sentimenti. Con ciò non intendiamo dire che Il bandito va collocato, magari come antesignano, nel neorealismo d'appendice; piuttosto ci sembra il caso di sottolineare l'ampiezza delle costanti neorealiste e la loro possibile coniugazione con gli standard linguistici più collaudati.
(…) Viene da chiedersi, durante la visione de Il bandito, cosa spinga Ernesto all'attaccamento per la «nipotina» che non ha mai visto. La prima risposta è che la guerra porta come conseguenza fra le più gravi lo smembramento delle famiglie. Tutto il film è segnato dai lutti familiari e dai vuoti che lasciano: Ernesto ha perso tutti, la portinaia il figlio, il maestro elementare che viene assurdamente passato per le armi supplica i fuorilegge in nome della propria famiglia. Quando poco sopra dicevamo che lo scatto drammatico dovuto al ritrovamento della sorella da parte di Ernesto e alla morte di lei amplia la visuale rispetto alla semplice oggettività naturalistica, intendevamo riconoscere il valore della «forzatura» dal punto di vista dello scavo e dell'analisi. Attraversando l'intermezzo pìcaro il film congiunge naturalismo e melodramma nell'unica sintesi sentimentale del rimorso. Ernesto è attaccato alla nipotina sconosciuta perché rappresenta l'unico simbolo di resistenza e di autenticità in un disastro al quale egli stesso, magari poco convinto, ha contribuito. Quando lo sguardo di Ernesto compie il giro completo sulle rovine della propria casa è come se nella paradossale allegria di A tisket, a tasket risuonasse un'altra (colpevole) futilità: quella che poco prima lo aveva spinto a contemplare la città distrutta vagheggiando la speranza che la catastrofe avrebbe procurato lavoro per anni e anni. Dunque la bambina, proprio perché lontana e astratta, è vissuta come un sogno, come qualcosa di inviolato su cui anche la guerra non ha potuto infierire.
Ma c'è un altro fatto, assai più inquietante, che illumina il rimorso del giovane: l'incesto virtualmente consumato nel postribolo con Maria. Quando Ernesto si specchia nel ritratto della sorella la disperazione assume la crudezza divoratrice di un lampo, qualcosa di insospettato e terribile che si rivela a entrambi. Dopo non potrà esservi per Ernesto che la ricerca di un riscatto radicale, di una espiazione portata fino alle conseguenze più estreme. Ecco perché la scelta banditesca, nell'evidenziare l'impossibilità a rimuovere la guerra ed anzi prolungandola, porta ben presto i segni del suicidio riparatore. La parte finale del film ci riporta a un clima bellico, come se lo scenario appena liberato ripiombasse improvvisamente nella tragedia. Gli scontri a fuoco tra le colline, l'imboscata, le uniformi danno il senso aspro di una guerra rivisitata, rivissuta da una memoria recente. È qui, in un ambiente veritiero e improbabile insieme, che Ernesto si offre alla morte.
Mani in tasca guarda verso la parete della montagna, la mdp, cogliendolo di tre quarti, fa un movimento curvo in approssimazione finché la schiena viene ad occupare quasi interamente l'inquadratura. In tal modo si ha l'impressione di un doppio schiacciamento: del corpo contro la parete impenetrabile e della mdp contro il corpo. Così Ernesto va contro l'oscurità, contro la più completa mancanza di uscite dando la schiena al mondo intero. Un suicidio, il suo, che nel restituirgli un barlume di pura individualità, mantiene però il segno della guerra, ossia si svolge nei modi di un'esecuzione.
L'immagine patetica che scopre il giocattolo anziché la pistola nella sua mano riversa si carica allora di un senso che non può essere limitato al semplice effetto melodrammatico. Lungo il tortuoso percorso morale e drammaturgico che abbiamo tentato di esaminare la «verità» neorealista e le convenzioni della fiction si sono misurate con l'esigenza più profonda di interrogarsi sui perché della guerra. Il bandito è davvero il film del dopo, della disperazione e di un rimorso anche collettivo. In questo la materia prima dell'innovazione neorealista rimane anche sul piano drammaturgico egemone, informa in ultima istanza l'intera costruzione. E Lattuada dimostra, col talento e la verità della professione, di saper prendere sul serio la Storia.
Autore critica:Tullio Masoni
Fonte critica:Cineforum n. 267
Data critica:

7/1987

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
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A cura di: Redazione Internet
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