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Quattrocento colpi (I) - Quatre cents coups (Les)

Regia:François Truffaut
Vietato:No
Video:Creazioni Home Video, L'Unità Video
DVD:Ciak, Bim
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti dei minori, Disagio giovanile, Diventare grandi, I bambini ci guardano, Il mondo della scuola - Bambini, Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole elementari; Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Marcel Moussy, François Truffaut
Sceneggiatura:Marcel Moussy, François Truffaut
Fotografia:Henri Decae
Musiche:Jean Constantin
Montaggio:Marie Josephe Yoyotte
Scenografia:Bernard Evein
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Luc Andrieux, Patrick Aufferay, Robert Beauvais, Bouchon, Jean-Pierre Leaud, Jeanne Moreau, François Truffaut
Produzione:Les Films du Carrosse Cocinor - Sedif/François Truffaut
Distribuzione:Cineteca Nazionale - Cineteca del Friuli
Origine:Francia
Anno:1959
Durata:

93'

Trama:

Antoine, un ragazzo parigino di dodici anni, svogliato ed irrequieto, preoccupa seriamente i genitori: spinto dalla sua indole insofferente e ribelle, egli combina infatti ogni sorta di guai. D'altra parte l'ambiente della famiglia e il comportamento dei genitori non possono esercitare un'influenza favorevole sullo sviluppo del fanciullo. Antoine è nato da una relazione prematrimoniale della madre, la quale, anche dopo sposata, non ha rinunciato ad allacciare relazioni irregolari. Il patrigno è un uomo debole, sciocco e presuntuoso, sempre pronto ad attaccare lite con la moglie ed a rinfacciarle quanto ha fatto per lei e per Antoine, dando un nome ed una casa ad un figlio non suo. Il ragazzo, che si trova a disagio in famiglia ed è incompreso a scuola, comincia a marinare le lezioni ed a vagabondare per Parigi in compagnia dell'amico Renè, spendendo senza risparmio i soldi che è riuscito a racimolare. Sorpreso a rubare una macchina da scrivere nell'ufficio del patrigno, Antoine viene messo in una casa di correzione: i genitori sono lieti di potersi liberare di lui e della responsabilità che loro spetta per il suo comportamento. Nell'istituto il ragazzo è costretto a umilianti esperienze, finchè un giorno decide di evadere. Approfittando di un rallentamento della sorveglianza, egli riesce a fuggire, ma non torna a casa. Prima di affrontare l'ignoto, egli vuole soddisfare un desiderio che da molto tempo nutre nel segreto dell'animo: vedere il mare. Si dirige così verso la spiaggia, non lontana dalla casa di correzione, finalmente libero e forse, per la prima volta, felice.

Critica 1:Piccolo parigino, trascurato dai genitori, scappa di casa due volte, ruba, è chiuso in un riformatorio da dove fugge per arrivare al mare che non aveva mai visto. Straordinario primo lungometraggio di F. Truffaut che, premiato per la regia a Cannes, contribuì al lancio della Nouvelle Vague francese. primo film della serie Antoine Doinel che caso unico nella storia del cinema segue un personaggio dall'adolescenza alla maturità. Uno dei film più teneri e lucidi sull'infanzia incompresa, tema che attraversa tutta l'opera del regista. Cinepresa mobilissima, fotografia in scope e bianconero di Henri Decae.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:L’odissea di Antoine Doinel è soprattutto segnata dal suo difficile rapporto con le istituzioni. Innanzi tutto c’è la famiglia, formata dalla madre e dal patrigno. Se quest’ultimo rappresenta un debole ed inefficace surrogato di una vera figura paterna, la donna, dal canto suo, è ancora troppo presa dalle proprie avventure sentimentali per badare davvero all’educazione del figlio. Per entrambi Antoine è innanzi tutto un peso, un problema da risolvere, qualcuno da sistemare in una colonia, almeno durante le vacanze estive. È proprio da questo sentirsi “non riconosciuto” che nascono molte delle “cattive azioni” di Antoine, che appaiono come delle vere e proprie vendette. Quando a scuola s’inventa la morte della madre, lo fa, con minor o maggior consapevolezza, perché per lui, dopo averla vista dare a uno sconosciuto l’affetto a lui negato, la madre è davvero morta. Allo stesso modo, fuggito di casa, cerca di colpire il patrigno rubando una macchina da scrivere dal suo ufficio (così come in precedenza gli aveva sottratto la guida Michelin). Ma ogni azione di Antoine non fa che generare una serie di reazioni che aggravano la sua situazione, spingendolo verso un’ineluttabile discesa agli inferi che accentua la sua emarginazione. Un’emarginazione evidente anche a livello spaziale: è recluso a casa, già a partire dalla stanza in cui dorme ricavata dall’ingresso dell’appartamento, a scuola, dove è messo dietro una lavagna, in questura, dove è tolto dalla cella comune all’arrivo delle prostitute, in riformatorio, quando all’amico Renée è impedito di entrare per andare a fargli visita. Come la famiglia, anche la scuola e il riformatorio assumono così il ruolo di istituzioni che non sono in grado di aiutare Antoine. Istituzioni che innanzi tutto scelgono di punire prima di comprendere; realtà dove la disciplina e il rispetto della regola contano più di ogni altra cosa. Come pretendere così che un insegnante possa apprezzare che uno studente legga per conto suo un romanzo di Balzac, quando poi ne copia il finale per un tema in classe? Le istituzioni, quindi, non solo sono assenti – come testimonia l’invisibilità della psicologa del riformatorio, collocata in un impietoso fuori campo – ma piuttosto che produrre integrazione, determinano emarginazione.
Un altro aspetto importante del film è quello della sessualità che passa ancora una volta attraverso il rapporto con la madre. Oltre alla citata scena dell’abbraccio a uno sconosciuto, il film raccorda, almeno in un paio di circostanze, lo sguardo del ragazzo alle gambe della signora Doinel e alle sue calze di nylon. Al di là della dimensione strettamente edipica, il tema della sessualità è sviluppato nell’incontro notturno con una donna che sta cercando un cane – ma da cui subito Antoine è allontanato da un improvviso rivale con qualche anno in più – e dalla scena con la psicologa, in cui il ragazzo racconterà il suo fallito tentativo di andare con una prostituta. Entrambe le situazioni sottolineano come anche la dimensione sessuale sia per Antoine mancanza, scacco ed emarginazione.
Dario tomasiParigi, fine anni Cinquanta. Il tredicenne Antoine Doinel ha un rapporto difficile con i suoi insegnanti, la madre e il patrigno. Una mattina marina la scuola e, per strada, vede la madre abbracciare un altro uomo. Il giorno dopo giustifica agli insegnanti la sua assenza adducendo come scusa la morte della madre. La menzogna è presto scoperta e Doinel viene schiaffeggiato davanti ai suoi compagni. La signora Doinel, sapendo di essere stata scoperta dal figlio, cerca la sua complicità. Antoine, accusato dall’insegnante di francese di aver copiato il suo tema da Balzac, è di nuovo punito. Decide così di fuggire di casa ed è ospitato dall’amico René. Senza soldi, tenta di rubare una macchina per scrivere, ma, sorpreso da un guardiano, è arrestato. Con l’assenso dei genitori finisce in un centro di osservazione minorile, da cui tenterà un’impossibile fuga.
Autore critica:Dario Tomasi
Fonte critica:Aiace Torino
Data critica:



Critica 3:“In una società come la nostra, una società di individui accettati e adeguatamente alimentati” ha scritto Northrop Frye in The Modern Century (1967) “il concetto di alienazione diventa psicologico. In altre parole, ridiventa il diavolo, perché di norma il diavolo va da quelli che hanno tutto e sono annoiati di tutto, come Faust. Alla radice di questo aspetto dell'alienazione sta la sensazione che l'uomo abbia perso il controllo, ammesso che l'abbia mai avuto, del proprio destino.” In una situazione come questa - che era la situazione dell'Europa in sviluppo all'ombra dell'America, sulla fine degli anni cinquanta - due tendenze si profilano nella cultura massificata: una rabbiosa volontà di indagare nei meccanismi dello sviluppo sociale (dentro la natura del diavolo) e un patetico ripiegamento dell'uomo su sé stesso. Da una parte si assiste, dunque, all'espandersi della “teoria critica” e dall'altra al fiorire di un tenero autobiografismo. Entrambe le tendenze, quantunque così diverse, si manifestano con i caratteri della aggressività terroristica, anche la seconda che parrebbe tanto indifesa: l'autobiografia è tutto (parlando di se stessi si può cambiare il mondo).
Da questa molla è stata sollecitata la “politica degli autori” nel cinema francese. Era, anzitutto, la condanna del cinema congegnato con sapienza professionale secondo le regole stabilite (quelle di un immutabile e perfetto ordine del mondo). Ed era, in secondo luogo, la puntigliosa celebrazione delle virtù creatrici dell'individuo: l'autore può, e deve, sostituirsi al regolare funzionamento del meccanismo (industriale, estetico, morale e sociale). François Truffaut (Parigi, 6 febbraio 1932) fu il profeta della ondata rivoluzionaria che avrebbe preso la qualificazione di nuova e avrebbe trovato molte, e contrastanti, vie per esprimersi (da Godard a Rivette, da Rohmer a Chabrol, ecc.). In lui, il rovello autobiografico era sostenuto da quelle “benefiche” carenze affettive dell'infanzia che l'avevano spinto a un precoce ribellismo. Era, inoltre, culturalmente giustificato dal ricordo ancora vivo del populismo degli anni trenta, dalle composte (e magari ironiche) passioni di intellettuali borghesi come Renoir e Clair. Meno, per contro, era debitore del sarcasmo surrealista e anarchico di un Jean Vigo, al quale pure l'esordiente regista si sarebbe ispirato per il mediometraggio Les Mistons (1957). Grazie all'amicizia di André Bazin che già svol-geva una “paterna” funzione di consigliere nei confronti dei futuri cineasti, Truffaut aveva eser-citato per qualche anno la critica cinematografi-ca, prima sui! "Cahiers du cinéma" e poi su "Arts Spectacles". Recensiva film e lanciava proclami: ucciso il cinema, si trattava di scopri-re la vita. Determinante, in questo. senso, fu la frequentazione assidua di Rossellini, fra il 1956 e il '57. Scoprire la vita significava girare dal ve-ro, in ambienti reali (quasi un trapianto del neo-realismo in terra francese). E significava, soprat-tutto (a differenza del neorealismo), parlare di se stessi. Lo fece Claude Chabrol, nel 1958, con quel Beau Serge che viene indicato come il primo film della nouvelle vague. E, nel '59, Truffaut con Les quatre-cent coups.
Il titolo stesso è rivelatore: fare “i quattrocento colpi” significa fare il diavolo a quattro, buttare all'aria l'ordine e le consuetudini. Chi lo fa è Antoine Doinel, figlio di genitori piccolo borghesi che lo trascurano. Vivono in tre in un appartamento minuscolo, l'uno addosso all'altro. Lui, Antoine, è costretto a dormire nello spazio ricavato da un sottoscala (il simbolismo è tanto connaturato alla autobiografia che il giovane Truffaut nemmeno si accorge di accumulare dettagli di senso ambivalente, in una progressione che va dalla “chiusura” soffocante all'apertura-liberazione dell'orizzonte infinito del mare). Anche a scuola, il ragazzo si sente a disagio. I gesti della rivolta latente sono osservati dal regista con un'attenzione affettuosa e metodica: tutto riesce così sgradevole (le lezioni, le interrogazioni, i dialoghi) che Antoine marina sempre più spesso la scuola. L'amico René gli tiene bordone. Una volta che i due vanno a spasso per la città, fanno una scoperta: vedono la madre di Antoine intrattenersi con un uomo. Fragile nonostante l'apparenza sfrontata (le memorie dell'infanzia non mancano mai di mettere in rilievo il contrasto canonico), il ragazzo subisce uno choc. E “fa morire” la madre. A scuola dirà che non è venuto alle lezioni perché è rimasto improvvisamente orfano. Naturalmente, il trucco è presto smascherato. Antoine, allora, scappa di casa. Questo piccolo dramma sembra tocchi i genitori che, grazie ad Antoine, si riconciliano e promettono di cambiare vita. Comincia un breve periodo felice, ma nulla in realtà è mutato. A scuola la situazione non migliora. Un giorno il professore accusa il ragazzo di aver copiato un tema. L'umiliazione induce Antoine a tentare una nuova più grave ribellione. Va da René. Insieme assistono a uno spettacolo di burattini e fanno progetti di indipendenza. Per essere liberi ci vogliono i soldi, che si possono ottenere rubando una macchina da scrivere nell'ufficio dove lavora il padre di Antoine. Ci riescono facilmente, ma sono poi troppo inesperti per vendere la macchina. Sicché, alla fine, dopo vani tentavi, decidono di riportarla dove l'hanno presa. Di notte ritornano nell'ufficio. Il guardiano li scopre. E Antoine finisce nel cellulare, in mezzo alla consueta fauna delle retate notturne, e guarda, attraverso spioncino, le luci “favolose” della città. Al riformatorio, dove il giudice lo invia, è sottoposto a un lungo interrogatorio da parte di una petulante (e, ovviamente, insensibile e teorica) psicologa. Dovrà rimanere lì, a rieducarsi. La madre lo va a trovare, combattuta fra la tenerezza un figlio così infelice e la soddisfazione per essersene in qualche modo liberata. Antoine sembra ormai insensibile, accetta la sorte. Ma più tardi, approfittando di una partita di pallone, elude la sorveglianza e scappa. I soldi della macchina da scrivere gli sarebbero serviti per andar al mare, che non ha mai visto. E ora, questa fuga (è la sequenza più emozionante del film, una serie di lunghi carrelli) lo conduce appunto al mare, verso l'illusione della libertà. La felicità dura un attimo. Antoine mette i piedi nell'acqua, si volta, torna verso la strada, e la reclusione. Un fermo di fotogramma immobilizza volto del ragazzo davanti al suo destino. Un destino condannato anch'esso all'immobilità: buttare all'aria l'ordine non è servito a nulla, né servirà. L'autobiografia ha toccato tutte le corde del patetico e della ribellione. Si conclude nella tristezza di una non-soluzione, che Truffaut esprime con garbo e pudore (perché in lui l'autocommiserazione e l'orgoglio dissimulato sono autentiche forze espressive, di grande eleganza).
Autore critica:Fernaldo Di Giammatteo
Fonte critica:100 film da salvare, Mondadori
Data critica:

1978

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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