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Tempo dei gitani (Il) - Dom za vesante

Regia:Emir Kusturica
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video (Effetto Cinema)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Minoranze etniche
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Emir Kusturica, Gordan Mihic
Sceneggiatura:Emir Kusturica, Gordan Mihic
Fotografia:Vilko Filac
Musiche:Goran Bregovic
Montaggio:Andrija Zafranovic
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Bora Todorovic (Ahmed Dzida), Ljubica Adzovic (Perhan), Husnija Hasimovic (Zio Merdzan), Sinolicka Trpkova (Azra), Zabit Memedov (Il Vicino Zabit) Davor Dujmovic (Ruza)
Produzione:Forum Film, Sarajevo
Distribuzione:Columbia
Origine:Jugoslavia
Anno:1989
Durata:

141'

Trama:

Perhan, un ragazzo nomade molto timido ed ingenuo, vive in Yugoslavia con la vecchia nonna Atiza, guaritrice, che lo tiene con sé dalla nascita e lo ama più di un figlio. Vivono nella misera casetta anche la sorellina del ragazzo, Daza, zoppa ad una gamba per una malattia congenita, e il figlio della donna, reduce da un viaggio in Germania, con la mania del gioco e un po' spostato. Il giovane Perhan si innamora della giovane Asra ma la madre di lei, Luza, non vuole saperne del ragazzo povero e senza prospettive di lavoro. In seguito ad un intervento quasi miracoloso di Atiza sul figlioletto del ricco Amed, detto 'Sceicco", la donna prega l'uomo di prendersi cura di Daza, di farla operare in un ospedale di Lubiana per guarirla. Amed promette di fare tutto il possibile e con lui va anche Perhan: quest'ultimo è convinto dal boss a lasciare la piccola in ospedale e a seguirlo in Italia dove si possono fare affari d'oro. Perhan lo segue ma ben presto si accorge che Amed è un delinquente a capo di un'organizzazione per la compravendita di bambini, sfruttamento della prostituzione, avviamento al furto e alla mendicità. Perhan è sconvolto, non vuole diventare disonesto, ma Amed con mezzi poco ortodossi lo persuade a darsi da fare per il bene della sorellina. Subito Perhan si fa notare per le sue capacità e quando Amed si sente male, è proprio lui a prendere in mano le redini dell'organizzazione criminale. Successivamente, per ordine di Amed, torna in Yugoslavia, nel suo paese, dalla nonna, ricco ed importante e trova Asra incinta: è convinto che la ragazza l'abbia tradito. Ciononostante la sposa con la determinazione di vendere quel bambino di dubbia paternità e di continuare a seguire le orme di Amed. Si rende purtroppo conto che questi l'ha ingannato raccontandogli un mucchio di bugie. Comunque ritorna dal boss: Asra dà alla luce un maschietto e poi muore. Passano quattro anni: Amed sparisce con una nuova donna lasciando dietro di sé tanti problemi. Perhan si reca a Roma per cercare la sorellina Daza che Amed aveva fatto uscire dall'ospedale per metterla sulla strada a mendicare. Finalmente la trova e decide quindi di riportare la ragazza ed anche suo figlio, il piccolo Perhan, dalla nonna. Li mette sul treno e lui si avvia all'accampamento dove Amed sta per sposarsi. Lì, aiutato da un amico, uccide Amed con le sue capacità telecinetiche, e i suoi fratelli ma viene poi colpito a morte da uno di loro e dalla stessa sposa. Al suo funerale al paese partecipano tutti: la nonna può finalmente averlo tutto per sé lontano da ogni male.

Critica 1:Si pensi pure a François Truffaut per quel processo di maturazione tra sorriso e malinconia del giovane Perhan o per la bravura di regia con cui Kusturica sa far recitare i suoi attori (bravissimi tutti. Con un voto in più per il protagonista Davor Dujmovic). O si pensi a Milos Forman per quel disegno pungente a piccoli schizzi ora lievi ora chiassosi. Ma è tutto di Kusturica.
Autore critica:Alberto Pesce
Fonte criticaLa rivista del cinematografo
Data critica:



Critica 2:Figlio naturale di una zingara, il giovane Penhan (D. Dujmovic) è costretto a seguire il capo in Italia, a rubare e trafficare in bambini, nani, infermi. Perde l'innocenza, le illusioni, la vita. Opus n. 3 del bosniaco E. Kusturica (1955), scritto con Gordan Mihic, è un film d'amore, di avventure e un romanzo di formazione che nell'edizione originale, destinata alla TV, durava 5 ore. La sua tumultuosa vicenda procede per accumulazione su un arco di quindici anni attraverso peripezie ora buffe, ora sanguinose in altalena tra tenerezza e ignominia. Il regista s'è immerso nel mondo e nelle cultura dei Rom con passione senza benevolenza, con una partecipazione che non esclude la lucidità, con una simpatia che non diventa idealizzazione. Sconnesso, ridondante, visionario. L'organizzazione del materiale è discutibile, ma le invenzioni strepitose abbondano. Mai vista al cinema una Milano così onirica e stralunata.
Autore critica:
Fonte critica:Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 3:Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) e Papà é in viaggio d'affari (1985), i primi due film di Emir Kusturica, sposavano la dimensione della storia e della memoria, in un viaggio a ritroso, dagli anni sessanta ai cinquanta, che, se non proprio all'autobiografia (non foss'altro che per questioni anagrafiche, essendo il regista nato nel 1955), tendeva alla ricostruzione fantastica di un vissuto “nazionale” (con tutte le cautele che tale aggettivo deve necessariamente comportare ogni volta che si parla dell'arcipelago jugoslavo). Con Il tempo dei gitani, il giovane, dotatissimo regista bosniaco affronta un tema e un ambiente a lui estranei, che quindi gli richiedono uno sforzo di penetrazione e comprensione, prima che di reinvenzione. Se infatti l'avventurarsi nel “paese straniero” del passato, con quanto di “fantascientifico” l'operazione comporta, mette comunque in gioco esperienze personali, il confrontarsi con un altro da sé quasi paradigmatico implica un coinvolgimento in ogni caso traumatico, una necessità di documentazione che, pur senza voler invocare scorciatoie sociologistiche, risulta talvolta salutare anche per i poeti. Questo spiega probabilmente la minore compattezza stilistica del film rispetto a quelli che lo hanno preceduto, nel rischio che Kusturica assume coscientemente di fronte ad un materiale primigenio.
Immergendosi nell'universo Rom, una cultura mille-naria, refrattaria ad ogni influenza esterna, conser-vatasi miracolosamente nonostante la mancanza di una letteratura, di una religione, di un territorio, non poteva non fare i conti con due precedenti illustri, Ho incontrato anche zingari felici (1967), di Aleksandar Petrovic, e L'angelo custode (1987), di Goran Paskal-jevic. Dal primo, pur apprezzandolo, Kusturica pren-de le distanze, in quanto “basato su idee dostoevskijane e non sulla mitologia tzigana”, mentre confessa di non aver visto il secondo, pur avendolo citato (“Su queste cose ci hanno fatto anche un film”, recita Ahmed, il boss dello sfruttamento dei bambini). Noi che abbiamo amato il bellissimo, commovente film di Paskaljevic, possiamo tranquillamente affermare che si tratta di una scelta agli antipodi, che parte dall'inchiesta, dal dato sociologico, per poi decollare verso la tragedia classica, della.quale sposa alcuni archetipi. Kusturica, viceversa, come abbiamo anticipato, parte da altri presupposti. “Non utilizziamo la povertà per fare del miserabilismo o per dire che bisognerebbe aiutare questa gente... Vogliamo mostrare che c'è una cultura della povertà, che la loro vita è strutturata culturalmente”. Niente moralismi manichei, dunque, ciascun personaggio si porta appresso il proprio fardello di ambiguità, in una sorta di realismo magico che presuppone una scommessa audace: fare proprio il magma, ribollente di vitali e irrinunciabili contraddizioni, dell'anima Rom.
L'incipit, come del resto anche negli altri film di Kusturica, è letteralmente strepitoso. Gli schizzi, affettuosi e picareschi, struggenti e francamente comici, della vita di villaggio, hanno una loro precisa radice antropologica eppure rimandano a tanta letteratura sudamericana, in particolare al Gabriel Garcia Marquez di Cent'anni di solitudine. Ma le fantasmagorie del regista si organizzano secondo una serie di coordinate linguistiche e culturali estremamente variegate: Ivan Cancar e Carl Barks (la straordinaria sequenza della “casa da appendere” a cui fa riferimento il titolo originale, imparentata sia con il finale visionario di Il servo Jernej e iI suo diritto che ai momenti più poeticamente strampalati dell'autore delle grandi storie di Paperino, nostro premio Nobel per la letteratura in pectore per omnia saecula), Hieronymus Bosch e Tod Browning (la “mostruosità” degli abitanti, che non ha bisogno del confronto con il “normale” per un maupassantiano capovolgimento di valori), Marc Chagall e Andrej Tarkovskij (il primo per la “sospensione” magica dell'autorappresentazione di una cultura, il secondo per l'uso simbolico della telecinesi e per l'idea di sopravvivenza sotterranea - il magnifico tableau dei riti di San Giorgio - di una tradizione: insieme Stalker e Andrej Rubliov). Le figure che il regista mette in scena sono diversamente conno-tate in base alla comune matrice di un írrefrenabile vitalismo: dallo zio germanofilo ed erotomane allo sta-gionato amante della nonna, tutti “afferrano il tempo” con voracità inesausta, che è fame di cibo e di ses-so, ma non di sicurezza. È un universo dominato da una sorta di fantastica follia, innervato di fatalismo (le considerazioni della vecchia sul comportamento deilla figlia, quelle, simmetriche, della madre di Azira), scandito dai riti più eterogenei (l'infrazione dei quali è considerata una colpa imperdonabile: “Hai rovina-to le mie nozze”, grida la nana al marito ubriaco nel-la sequenza d'apertura - ripete la vedova di Ahmed inseguendo Perhan), solennizzato dall'elegante maestà dei gesto, che un generoso retaggio ha di-stribuito con larghezza, ad illuminare di astorica no-biltà stracci e miseria. In questo contesto, centrale risulta il personaggio di Baba, la nonna che non è solo saggia (di una saggezza fondata sugli archetipi più assoluti, legati ad una cosmogonia dell'altro ieri, che è ancora possibile toccare con un dito) e insieme at-taccata ad una carnalità che sopravvive agli anni, ma anche depositaria di un potere magico che, saltando una generazione - la madre era “solo” bellissima - si è trasmesso direttamente a Perhan. Questi è a tutti gli effetti “figlio della nonna”, e come tale rimane
un “casto folle” fino a quando esigenze materiali (la necessità di sposarsi, iIlusoria possibilità di guarire la sorella paralitica) lo costringono a fare i conti con una realtà che non gli appartiene. Non a caso fino a questo momento egli intrattiene un rapporto privile-giato con un tacchino che lo seguirebbe ovunque e che è a sua volta dotato di capacità intuitive straor-dinarie. Come ha dichiarato lo stesso Kusturica, il tacchino gioca un ruolo importante nel folklore dei gitani, per i quali è dotato di capacità straordinarie, come quella di sentire fino a trecento chilometri di distanza. “Ho voluto dargli una dimensione mitica facendolo volare. L come l'eco di un'epoca in cui questo animale era capace di servirsi delle ali. Quando lo zio del ragazzo mangia il tacchino, la sua vita cambia radicalmente, il suo rapporto con la vita eterna passava attraverso il tacchino”. Da questo momento il film muta registro, tempi e movenze. La sequenza-cerniera è rappresentata dal lungo addio al villaggio, frammentato da un montaggio che sembra voler accumulare brandelli di ricordo per l'emigrante Perhan, accompagnato da una canzone di straziante bellezza, che attribuisce spessore emotivo al “trauma del distacco” e insieme sembra presagire un futuro di tragedia.
Varcando clandestinamente il confine italiano, Kusturica si avventura in una dimensione onirico-melodrammatica che forse gli risulta meno congeniale, ma che comunque riesce a padroneggiare con sicurezza, organizzandola secondo una logica che scardina l'accumulo di stereotipi interni al genere. A Milano, luogo dell'alterità così come il villaggio lo era della tradizione, il talento dello zingaro diventa tecnica truffaldina, la fantasia, marginalità organizzata per delinquere. La struggle for Iife piega gradualmente le resistenze di Perhan, fondate sull'abitudine alla sopravvivenza “sotterranea” (la scatola di cartone) e sul gruzzolo di ricordi che lo tiene legato al paese (la bellissima sequenza dei sogno della nonna in piazza del Duomo, nella quale viene letteralmente “bruciato” il cordone ombelicale con il passato). Eppure, la sua purezza primigenia risulta refrattaria ad ogni inquinamento etico, l'ispirazione è ancora l'elemento prevalente, da assecondare in ogni circostanza (si veda la magnifica idea dei pianoforte nella villa svaligiata). Fotografato in variegate tonalità di giallo e arancio, come i colori di cui amano circondarsi i gitani, il suo calvario assume quasi li senso di un percorso di perdita di innocenza, le cui stazioni sono fatalisticamente predeterminate, e appunto per questo prevedibili. Come prevedibile, ma perciò non meno affascinante dal punto di vista figurativo, risulta la vendetta telecinetica di Perhan, anch'egli poi fermato da un colpo d'arma da fuoco nell'ultimo, illusorio volo, quando il tacchino, bianco come il velo della madre e della sposa, bianco come un angelo del Paradiso, lo recupera a quella dimensione di metafisica purezza dalla quale lo aveva strappato Ahmed. La stessa che presumibilmente praticherà il figlio, rubate le monete d'oro che coprono gli occhi del suo cadavere e fuggito dentro a una scatola di cartone, a perpetuare la sopravvivenza sotterranea della cultura e dell'anima Rom. Le ascendenze tarkovskijane, trasferite in un contesto che oscilla tra la commedia picaresca e il melodramma, si colorano della tipicità di una situazione assolutamente peculiare, eppure portatrice di significati universali. Rischiando un percorso che un fantasioso critico francese assimila alle montagne russe, Kusturica ci offre con Il tempo dei gitani l'esempio - tanto più intenso quanto più raro - di come sia ancora possibile oggi la pratica di un cinema epico.
Autore critica:Paolo Vecchi
Fonte critica:Cineforum n. 300
Data critica:

12/1990

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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