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Sweetie - Sweetie

Regia:Jane Campion
Vietato:14
Video:Empire Video, General Video, San Paolo Audiovisivi
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Disagio giovanile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Jane Campion
Sceneggiatura:Jane Campion, Gerald Lee
Fotografia:Sally Bongers
Musiche:Martin Armiger
Montaggio:Veronika Haussler
Scenografia:Peter Harris
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Dorothy Barry, Sean Fennel, Emma Fowler, Louise Fox, Robin Frank, Jean Hadgraft, Michael Lake, Genevieve Lemon
Produzione:John Maynard per Arena Film/Ugc
Distribuzione:Mikado
Origine:Australia
Anno:1989
Durata:

95'

Trama:

Kay, una ragazza australiana di famiglia modesta, è condizionata fin dall'infanzia dalla prepotente e viziata sorella maggiore, Sweetie, che sopra a un albero del giardino aveva fatto il suo "castello", luogo magico, pieno di lampadine colorate, dove regnava come principessa, vietando però a lei di salirvi. Ora Kay, divenuta adulta, lavora e ha una vita ordinata, in cui non c'è amore, ma solo sesso, però ha mille paure segrete perché soffre di gravi turbe psichiche, delle quali gli altri non si accorgono. Quando una chiromante le descrive l'uomo che amerà seriamente, Kay lo identifica subito con Louis (fidanzato di una collega), si unisce a lui e il loro amore sembra felice. Ma, dopo un anno, viene ripresa dalle sue angosce, rifiuta di fare l'amore con Louis, e si chiude in se stessa. Quando il giovane pianta in cortile un alberello per festeggiare il loro primo anniversario, lei, terrorizzata dalla possibile morte della pianticella, di notte la strappa, ma la conserva ormai secca in un armadio. Improvvisamente le piomba in casa Sweetie, col suo attuale compagno, Bop, un ex drogato, col quale vuol darsi al teatro: il padre, infatti, l'ha persuasa fin da piccola di avere talento. E ora Sweetie, grassa, sciatta, delirante e vitalissima, si istalla con Bop nel piccolo alloggio in cui vivono Kay e Louis, mettendolo a soqquadro.

Critica 1:Storia di ordinaria follia in una famiglia australiana del Nuovo Galles del Sud. E tutta fuori di testa Sweetie (K. Colston), adolescente obesa un po' ritardata, di appetiti voraci e pulsioni elementari, ma per anormalità anche gli altri non scherzano, compresa sua sorella Kay (G. Lemon), sessuofoba dalle paure ossessive che la ospita. Il secondo film della neozelandese J. Campion (1955) il primo per il cinema, stroncato o sottovalutato da quattro critici su cinque colpisce per la qualità dello sguardo, la sensibilità dell'approccio, la scelta iperrealista di oggetti feticisticamente caricati di memorie, la capacità di rappresentare sentimenti deviati e idee confuse in immagini chiare e distinte che rimandano alla traslucida precisione di grandi fotografi americani come David Hockney. Sgradevole con premeditazione, ma senza gratuite provocazioni cerebrali. La parte finale con la morte di Sweetie illumina a ritroso il senso del discorso.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Pur lasciando perdere le polemiche su chi ha giudicato Sweetie un film di modesta caratura, per poi ricredersi a posteriori in occasione di An Angel at My Table, rimane tuttavia aperta la questione di un film che, come si suol dire, «fa problema», che lascia ammirati ma anche interdetti - come se la piena comprensione della pellicola richiedesse la conoscenza di un linguaggio cifrato, di una serie di elementi complessi che - in un modo o nell'altro - ci sfuggono. Questo spiega da un lato la reazione di una parte della critica, che non disapprova ma si arrabbia, come avviene appunto quando le cose non vengono capite, e dall'altro la cautela con cui anche coloro che hanno apprezzato Sweetie si sono accostati a questo «oggetto misterioso», che è senza dubbio meritevole di lodi quanto difficile da afferrare nella sua composita strategia figurativa e narrativa. Non a caso, la notorietà di Jane Campion coincide appunto con l'uscita di un film, An Angel, che si snoda attraverso percorsi espressivi più distesi e trasparenti, funzionali ad un prodotto pensato per un pubblico vasto come quello televisivo. Ma torniamo a Sweetie, e non certo nella pretesa - meglio dichiararlo sin dal principio - di giungere ad un'interpretazione esaustiva del film, quanto piuttosto nel tentativo di individuare alcuni suoi punti focali, grazie ai quali è possibile arrivare ai confini di quel respiro gelido e stranito, di quel tono rarefatto e stridente che costituisce il principale motivo di fascinazione del film.
Iniziamo da due dichiarazioni della stessa Jane Campion - dichiarazioni che non sembrano essere dettate da quel senso di compiaciuta sicurezza che caratterizza i discorsi di molti cineasti su di sé e sulla propria attività. Si tratta anzi di affermazioni in parte contraddittorie, che proprio in quanto tali possono però permettere di comprendere meglio una struttura multiforme e sfaccettata quale è quella di Sweetie, che tende ad estendersi in direzioni apparentemente opposte. Parlando nella propria esperienza formativa presso la scuola di cinema di Sidney, Jane Campion ha avuto modo di dire che in quel periodo si ritrovò «completamente ossessionata dal cinema», mentre altrove le sue parole sembrano prendere le distanze da quegli anni di apprendistato, che vengono definiti importanti solo in quanto le hanno permesso di acquisire «una tecnica, uno strumento per descrivere ciò che sentivo». Ebbene, appunto tra l'amore viscerale per l'arte cinematografica e il distacco di chi considera la m.d.p. un semplice espediente tecnico per esprimere i propri stati d'animo si colloca lo stile di Sweetie - quel modo peculiare di esaltare il mezzo filmico rinnegandolo contemporaneamente, di fare cinema a dispetto (o in virtù?) di uno sguardo che raggela le cose e gli uomini in statici quadri di intensa forza espressiva. Nel film le riprese nella casa della famiglia di Sweetie propongono un repertorio di interni inquadrati con la sapienza e l'accortezza di un'artista della fotografia, per la quale un manubrio di bicicletta o la sagoma di una porta abbandonano la loro più immediata referenzialità, trasformandosi in elementi di una composizione dove sono le componenti cromatiche e quelle formali a dettare l'ordine complessivo dell'immagine. Tuttavia, questa successione di inquadrature stilisticamente impeccabili non penalizza la progressione narrativa, non impedisce al film di porsi come racconto - asciutto e lucido - di uno squilibrio che non affligge una persona ma un intero ambiente, un universo attraversato da una follia placida, che solo in Sweetie assume la forma del gesto rabbioso e írreprimibíle, dell'urlo lancinante che scuote il torpore generale.
Alla vigilia della realizzazione di Sweetie, Jane Campion ha affermato che il film non avrebbe dovuto dare «l'impressione di essere completamente programmato, esplicito» - perché questo sarebbe stato in palese contrasto col suo pensiero e con la sua vita, definiti «un po' caotici». In realtà - e siamo qui alla terza per così dire «fertile» contraddizione - questa storia di ordinaria e quotidiana follia dà invece proprio la sensazione di essere stata realizzata secondo un preciso e preordinato schema compositivo che, non basandosi mai su principi di convenzionalità espressiva, non prevede nemmeno semplici e anonimi momenti di raccordo tra una scena cruciale e l'altra. È così che con Sweetie Jane Campion non ignora il cinema (e tantomeno la sua sintassi!) ma piuttosto il cinema tradizionale - ovvero la consuetudine secondo la quale forme e colori devono essere assoggettati, in fase di ripresa, alla scorrevolezza del racconto. Qui il percorso narrativo assume semmai la fisionomia sdrucciolevole e tormentata di una sintassi volutamente sregolata, che ci impedisce sistematicamente di avere presa sugli eventi, di osservarli con didascalica chiarezza. Oggetti e volti vengono proposti secondo angolazioni inconsuete, così da sottrarre sempre l'obiettivo della m.d.p. all'imperativo della centralità prospettica, del punto di vista che agevola una lettura complessiva di quanto avviene all'interno dell'inquadratura.
Questo modo di operare non deriva certo da un amore per la stravaganza fine a se stessa, bensì dalla determinazione a percorrere fino all'estremo la strada che coniuga due istanze all'apparenza incompatibili - una vicenda sgradevole e una messinscena ricercata, che non vuole addomesticare gli eventi né tantomeno sovraccaricarli di compartecipazione emotiva, ma semmai avvalersi fino in fondo delle potenzialità visive del cinema per arrivare alla soglia di un profondo malessere collettivo che stenta a dispiegarsi sullo schermo. In Cuore di tenebra Conrad ci dimostra come per guardare nel fondo dell'orrore occorra un certo distacco - sia necessario aggrapparsi con forza al sostegno del linguaggio e non mollare. Come ha scritto Giuseppe Sertoli, «Il silenzio appartiene al linguaggio, si genera nello stesso luogo e con lo stesso atto con cui e in cui si genera il linguaggio ( ... ). Solo parlando, cioè solo dentro il linguaggio, Marlow può dire, non dicendolo, ciò che resta fuori dal linguaggio: il silenzio, la verità».
In Sweetie la raffinata orchestrazione visiva del racconto si rivela un grimaldello grazie al quale è possibile accostarsi ad una desolazione straziante eppure sotterranea, ad una situazione familiare dove angosce e incomprensioni covano sotto la cenere di una paralisi dell'espressione - una sorta di catatonia estesa ad un nucleo familiare, che finisce per azzerare quasi tutte le peculiarità individuali. Cristallizzando i termini del conflitto, osservando attraverso il filtro della forma le scorie della «normalità», la Campion ci fa percepire gli aspetti patologici di una vita ripiegata su se stessa, dove le pulsioni più autentiche - a furia di venire represse a viva forza - hanno acquisito una spaventosa forza disgregatrice, che, fatta eccezione per la protagonista, si lascia soltanto indovinare, ma che proprio per questo assume una dimensione profondamente inquietante.
Complesso è il rapporto tra personaggi e paesaggio, che merita senz'altro una trattazione estesa e a parte. In questa sede, ci limiteremo ad osservare come gli scenari naturali vengano ripresi dalla Campion con maggiore parsimonia rispetto sia. ad altri cineasti australiani che al suo successivo An Angel. Immagini non numerose ma preziose - comunque determinanti nel rilevare l'orizzontalità del paesaggio e nel caricarlo di un senso di ostile indifferenza verso coloro che lo abitano. La conformazione dell'ambiente sembra quasi contribuire a sua volta ad appiattire i sentimenti, ad annichilirli in un contesto di implacabile uniformità. Sotto questo profilo, riveste una precisa e importante funzione simbolica l'albero sul quale Sweetie compie il suo estremo e testardo gesto di trasgressione. Nel momento in cui piattezza e desolazione si rincorrono a vicenda tra uomini e natura, la verticalità dell'albero diventa un significativo e orgoglioso emblema della lacerante sensibilità della protagonista - della sua disperazione che affiora alla superficie in modo dirompente, frantuma la crosta della monotonia e si erge come elemento caratterizzante e distintivo del proprio ambiente. Sweetie non vuole scendere, non vuole entrare nuovamente a far parte di quella impassibile e rassegnata condizione di vita che, là sotto, sbiadisce i personaggi e la vegetazione, soffocando in una paralizzante uniformità ogni slancio vitale.
Autore critica:Leonardo Gandini
Fonte critica:Cineforum n. 302
Data critica:

3/1991

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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