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Califfa (La) -

Regia:Alberto Bevilacqua
Vietato:No
Video:General Video, Cecchi Gori Home Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Il lavoro
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo "La califfa" di Alberto Bevilacqua
Sceneggiatura:Alberto Bevilacqua
Fotografia:Roberto Gerardi
Musiche:Ennio Morricone
Montaggio:Sergio Montanari
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Romy Schneider, Ugo Tognazzi, Guido Alberti, Gigi Ballista, Marina Berti, Roberto Bisacco, Eva Brun, Luigi Casellato, Ugo De Carellis, Massimo Farinelli, Enzo Fiermonte
Produzione:Fair Film (Roma) - Les Films Corona (Nanterre)
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Italia
Anno:1971
Durata:

99'

Trama:

La "Califfa" (nomignolo che in Emilia viene attribuito alla donna autoritaria e spregiudicata) è la giovane vedova di un operaio ucciso a Parma durante uno scontro con le forze dell'ordine. Nemica acerrima dell'industriale Doberdò, proprietario della fabbrica presso la quale lavorava il marito, la "Califfa" muta il suo atteggiamento nei confronti dell'uomo il giorno in cui lo vede tener testa spavaldamente agli operai e ai propri colleghi imprenditori che, con il loro atteggiamento, hanno costretto un industriale fallito ad uccidersi. Entrata in contatto con Doberdò, la "Califfa", attraverso una serie di burrascose discussioni, comincia ad apprezzare la buona fede dell'uomo e l'aspirazione a cambiare lo stato delle cose. Doberdò, da parte sua, per ricambiare la simpatia della donna, che finisce col diventare la sua amante, rileva la fabbrica dell'industriale suicidatosi e la affida in gestione agli stessi operai. Il suo atteggiamento suscita però l'immediata reazione degli altri industriali; un giorno, mentre ritorna con la sua donna da un convegno, egli viene ucciso da alcuni sconosciuti.

Critica 1:Ricorderete La califfa, il romanzo che anni fa schiuse ad Alberto Bevilacqua la gran via del successo. L’edizione cinematografica offertane ora dall’autore, all’esordio nella regia (un altro caso di sfiducia nella parola scritta?), ne raccoglie fedelmente il senso, ma in una cornice aggiornata che consente a Bevilacqua di esprimere un accorato rifiuto dei nostri tempi, fatti ancor più calamitosi dalla ferocia delle lotte sindacali. La califfa, infatti, non attesta soltanto il rischio di certi connubi socio-politici: a un livello più segreto, dichiara che oggi l’essere umano, a qualsiasi ceto appartenga, è destinato alla sconfitta, perché non sa più ascoltare la voce dell’anima. Viviamo nel caos, e ogni tentativo di raddrizzarlo predicando la pace ha come sbocco la morte o il vuoto dell’anima, per l’ottima ragione che siamo tutti abitati dall’equivoco, e anche nel sottofondo dei nostri gesti più spontanei c’è il tarlo dell’ambiguità, che ci rode e distrugge. Per salvarsi, bisogna intanto rendersi conto che viviamo in un inferno. Ne dà conferma la storia di Doberdò, un industriale di provincia fattosi dal nulla, e di una sua giovane operaia alla quale, durante uno scontro con la polizia, hanno ucciso il marito. All’inizio, quando la fabbrica di Doberdò è in sciopero, la donna è in prima fila nella protesta contro il padrone: fanatica e spavalda, non esita a sputargli addosso e a compiere atti di sabotaggio contro i macchinari. Di fronte all’atteggiamento del boss, il quale tiene testa agli operai e ai propri colleghi imprenditori che hanno indotto un industriale fallito a impiegarsi, la rivale però si ricrede. Accade addirittura che fra i due nasca una robusta passione, e che l’uomo, ringiovanito dalla Califfa (in certe zone della Padania così chiamano le donne intraprendenti e spregiudicate), sembri ritrovare le proprie schiette radici proletarie, giungendo perfino a proporre nuove forme di gestione aziendale. Poiché gli altri industriali della zona non gli perdonano la collusione coi sindacati, finisce che qualcuno manda due sicari ad ammazzarlo. Ciò non vuoi dire che Doberdò debba essere compianto come un padrone illuminato e umanitario fatto fuori dai concorrenti, alleati con gli agitatori più facinorosi nell’esaltare la violenza criminale. Infatti il senso del film sta per noi nel sospetto che sia l’uomo sia la donna, più che recuperare i dubbi di coscienza, abbiano giocato a nascondino con se stessi e col partner, per vincersi a vicenda e insieme per illudersi di superare con l’amore e la pienezza dei sensi la propria solitudine. Il tragico epilogo, allora, sigilla una lotta contro le ombre che stanno scendendo sul nostro marcio mondo e minacciano di soffocare il calore dei cuori. È difficile dire se Alberto Bevilacqua, per denunciare la crisi della società contemporanea (e con ciò proporre l’urgenza d’una bonifica) volesse proprio arrivare a questo sconfortante traguardo, ma è probabile che così il pubblico interpreti un film in cui i personaggi si muovono spesso sul filo di rasoio di un disperato ma sepolto sarcasmo, che nemmeno le scene più calde d’erotismo riescono a deviare. D’altronde la ragion d’essere d’un cinema come questo, dove la realtà è mediatrice di metafore morali, sta nella natura stimolante del suo prendere e lasciare, nel collocarsi ai limiti del paradosso. Sotto tale riguardo il film è una prova molto riuscita: basti pensare all’abilità con cui Bevilacqua, nella maggior parte delle scene, non tira le fila, ma lascia le cose in sospeso. È un procedimento di carattere letterario che qui è applicato con intelligenza, prima per creare uno stato di continua disponibilità all’imprevisto, poi per suggerire l’impossibilità di distinguere, nel magma in cui annaspiamo, il vero dal falso. La califfa ha difetti (non tutti i frammenti si compongono in mosaico, la musica di Morricone enfatizza e distorce molti momenti riflessivi), ma largamente compensati da una maturità espressiva non consueta in un regista esordiente: si badi all’evidenza con cui il simbolo prevale sul verosimile, all’efficacia dei caratteri di contorno, alla costanza del rapporto fra la sfida dei protagonisti e il coro della folla (operai e polizia), all’attenzione prestata agli intrighi dei potenti. Il linguaggio di Bevilacqua è rapido e asciutto. Probabilmente l’esperienza cinematografica gioverà al narratore, abbreviando la distanza dalle cose. Né gli attori lasciano a desiderare: l’interpretazione seria e composta di Ugo Tognazzi è eccellente, anche considerata la difficoltà della parte, e Romy Schneider è molto brava nel disegnare il carattere d’una «califfa» dolente e appassionata (semmai un po’ troppo elegante, e troppo incline a esibire il suo nudo). Ottima la fotografia a colori di Roberto Gerardi.
Autore critica:Giovanni Grazzini
Fonte criticaCorriere della Sera
Data critica:

29/1/1971

Critica 2:La Califfa è una giovane vedova che lavora come operaia in una grande fabbrica del Nord, di cui è padrone Doberdò. La donna è una accesa rappresentante della lotta operaia ed ha dei violenti scontri con il padrone. Questi (ex operaio che ha fatto la «gavetta») spinto dal suicidio di un amico industriale, ne rileva la fabbrica cogestendola con gli operai ed inizia ad interessarsi più da vicino ai loro problemi. Inevitabilmente, attratti uno all'altra dalla reciproca ruvida schiettezza, Doberdò e la Califfa finiscono col diventare amanti, nonostante i disperati tentativi della moglie dell'industriale di tenerlo a sè.
Frattanto la politica di avvicinamento di Doberdò verso i lavoratori gli procura prima l'irritazione e poi l'odio dell'Unione degli Industriali della Regione i quali ammoniscono l'ormai ex amico a desistere dalle sue iniziative. Doberdò non accetta imposizioni e in tal modo firma la sua condanna: viene preso a fucilate e trascinato a morire dinanzi alla sua fabbrica.
La Califfa, o dell'ambiguità, è l'opera prima cinematografica dello scrittore Alberto Bevilacqua. Girato appena
dopo l'autunno caldo con sorprendente tempestività (anche se l'omonimo romanzo dello stesso Bevilaqua è di alcuni anni fa) è il primo film a soggetto direttamente collegabile a quei mesi drammatici. Ed è il primo film all'apparenza politicamente «riformista» che mostra (o meglio inventa) un nuovo tipo di industriale, sganciato dagli schemi cinematografici usuali e che diventa la tesi del film. Dal titolo il posto d'onore è per la donna, la Califfa, ma il vero protagonista è Doberdò, l'industriale nuovo, «illuminato». (Questo tipo d industriale risale in letteratura addirittura agli Utopist dell'800, Owen, Saint-Simon Cabet, ecc. E Disraeli, ministro e scrittore inglese, politicizzò questa nuova figura ne suoi romanzi «Coningsby» e «Sybil or The Two Nations». Lo stesso Dickens esaltò l'in dustriale umanitario nella figura dei fratelli Cheerybee in «Nicholas Nickleby»). Ma è subito chiarito quante sia illuminato questo self made-man che ha conosciuto la miseria durante infanzia e giovinezza: egli accetti di rilevare la fabbrica in fallimento di un amico indu striale e di cogestirla con gli operai non tanto da una coscienza almeno vagamente storica sulla crisi inevitabile di una classe, quanto dal rimorso per il suicidio dell’ amico (che si rifiutò di aiutare) unito all'agile corpo guizzante di una dipendente intrepida. (Amore e Morte decadenti ma inaffondabili motori del Tutto, dovevano prima o poi giungere anche in fabbrica).
Doberdò è contrapposto agli altri industriali in posizion privilegiata: loro pescecani viscidi e senza scrupoli, fisicamente repellenti, lui uomo schietto, forte, di gusti semplici e robusti. (Tanto per fare un esempio: se va a letto con la Califfa, lo dice alla moglie senza mezzi termini e questa naturalmente si innamora di lui ancor più; non solo, ma riconosce «logicamente» la necessità di farsi in disparte e soffrire in solitudine. Per un uomo eccezionale ben due donne eccezionali: proporzione ottimale per solleticare l'identificazione virile di uno spettatore). Il particolare che anche Doberdò ha «fatto» miliardi in modo poco chiaro è abbastanza trascurabile secondo il film. Ciò che importa è che Doberdò sia simpatico allo spettatore, così alla mano, ex operaio lui stesso che non ha paura di affrontare i suoi dipendenti in sciopero, che li ammansisce con quattro parole ben dette, che passa dalla loro parte (!?), che si batte solo contro tutta l'Unione Industriali, come un Paladino con i Mori, e che come un Paladino appunto muore, solo e abbandonato nella polvere, ma esempio per i posteri (industriali): non sono ancora maturi i tempi, ma giorno verrà... ecc. ecc.
Di che si lamentano gli operai che vogliono continuare l'occupazione per solidarietà anche se hanno ottenuto la cogestione? Essi nel film sono mostrati connotativamente come una sparuta e odiosa minoranza di teppisti, violenti, pronti magari ad uccidere, ma il film si morde la coda da solo perché poi, vista la fine di Doberdò ucciso dagli industriali, sono allora proprio queste facce patibolari ad avere ragione, a non voler credere e accettare le «isole» di democrazia, a voler generalizzare la lotta, a voler continuare lo sciopero anche se per il momento hanno ottenuto dei risultati. Invece no: la classe operaia dovrebbe solo attendere che tutti i padroni, motu proprio, prendessero coscienza che la storia corre e che i rapporti di lavoro devono mutare dopodiché, su un piatto d’ argento, voilà il benessere per tutti. Questa in sostanza la tesi del film, assolutamente inverificabile se non dice che I’ industriale nuovo Doberdò è stato eliminato dagli industriali retrivi non perché questi non sono ancora matur al salto di qualità, ma perché egli ha condotto la sua lotta da solo, dall'alto, paternalisticamente, svincolato da una ideologia comune con gli operai, da una vera coscienza, non dico proletaria perché sarebbe troppo, né Bevilacqua la proclama, ma anche soltanto umanitaria (il che è sempre e comunque troppo poco e troppo vago). Al contrario l'unica ideologia proclamata è quella del «siamo tutti sulla stessa barca».
Ciò che invece del film è veramente interessante e de-mistifica definitivamente il pensiero ambiguo dell'autore è il significato più sotterraneo e sfuggente del rapporto tra Doberdò e la Califfa. Intanto la donna è collocata nel tipo di pasionaria operaia, vedova di un operaio sindacalista, all'inizio fiera avversatrice del padrone: è la prima nei cortei, non esita a sputare sull'auto di Doberdò, incita senza paura i compagni alla lotta, ecc. Però una simile donna non può essere «soltanto» un'operaia come tante. Ella ha un destino superiore. Nella psicologia di Bevilacqua è, come minimo, una donna degna d'un capo, e il capo può essere solo il padrone della fabbrica. Con gli operai i suoi rapporti sono solo viscerali e carnali (il suo amante è un giovane meccanico, emerito stallone, ma povero e dal cervello assai limitato), il suo spirito non potendo che essere di un potente in tutti i sensi: Dobedò appunto. E tra lei e Doberdò si stabilisce questa corrente «superiore» di odio, odio-amore, amore. C'è tutta una letteratura, da Cenerentola in poi, sul fascino irresistibile che il povero subisce dall'uomo ricco (e Bevilacqua non ne deflette anche se vorrebbe far credere il contrario) e sul volgersi benevolo del ricco verso il povero dotato di bellezza o di ingegno. In genere il povero (se donna) riscatterebbe la sua origine con una innata grazia e semplicità, se non con la finale scoperta addirittura di nobili ascendenze. Insomma: una zoticona mai con un Doberdò! (E invece qui sarebbe proprio da discuterne). Una volta scoperta la propria vocazione di compagno del capo il povero (la Califfa) si butta con tutta l'anima dalla sua parte, si mette contro i suoi vecchi compagni e usa la sua forza di persuasione per convincerli che il capo ha cambiato mentalità ed è dalla loro parte. Insomma è un capo buono che credevano cattivo.
Tralascio il discorso su certi tipi di eventualità e più ancora sulla simpatia che lo spettatore è abilmente costretto a provare per un personaggio femminile che in definitiva scopre solo la sua vocazione al servilismo, per quanto sia mascherato. Ma ogni particolare si illumina quando la Califfa in una scena ad alta tensione drammatica impone agli operai inferociti di ascoltare Doberdò e le sue proposte. Un compagno le chiede perché mai essi dovrebbero ascoltare il padrone. E la Califfa, con uno sguardo tra fremente e radioso, ricordando la precedente notte di ludi erotici con Doberdò, grida: «Perché è un vero uomo!». Istantaneamente, colpita dalla persuasività di tale dialettica, l'assemblea si placa. In questo involontario abissale tonfo ogni cosa viene ridotta suo malgrado per un verso a farsa uterina (Bevilacqua poveretto non se n'è evidentemente accorto) e per l'altro alla riconosciuta necessità taumaturgica delllo «Uomo forte» (e qui Bevilacqua non può non accorgersene). Perché in definitiva Doberdò è proprio questo: l'uomo forte che risolve le situazioni difficili, che prende in mano gli eventi e li raddrizza, che riporta l'ordine tanto in una fabbrica come in un paese intero e di cui «Quanto, quanto si sente la necessità!» ad ascoltare certuni. Il che la dice lunga sulle «profonde» convinzioni politiche dell'autore, che subisce il fascino del «potente illuminato» né più né meno che la sua eroina. Non vale nulla infatti che il film si avvalga di una narrazione abile, di un montaggio nervoso e di tutti quegli ingredienti formali (non esclusi gli attori, sempre bravi) che tengono desta l'attenzione di chi guarda ed ascolta. Confezionare prodotti di successo non è difficile se si estrapolano alcune regole fondamentali, abbastanza facilmente reperibili nella smisurata produzione cinematografica, se queste regole vengono calate in un contesto di per sè scottante e si condisce il tutto con le formidabili grazie di Romy Schneider.
Autore critica:Mario Abati
Fonte critica:Cineforum n. 101
Data critica:

3/1971

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Califfa (La)
Autore libro:Bevilacqua Alberto

A cura di: Redazione Internet
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