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Cinque pezzi facili - Five Easy Pieces

Regia:Bob Rafelson
Vietato:14
Video:Columbia Tristar Home Video (Columbia Classics)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Adrien Joyce, Bob Rafelson
Sceneggiatura:Adrien Joyce
Fotografia:Laszlo Kovacs
Musiche:
Montaggio:Christopher Holmer, Gerald Shepard
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Susan Anspach, Toni Basil, Karen Black (Rayette), Irene Dalley, Billy Green Bush, Helena Kallianiotes, Jack Nicholson (Robert Eroica Dupea), Lois Smith, Richard Stahl, Lorna Thayer, Ralph Waite
Produzione:Bbs
Distribuzione:Cineteca Lucana – Cineteca Palatina – Cineteca Antoniana - Zari
Origine:Gran Bretagna - Usa
Anno:1970
Durata:

97'

Trama:

Abbandonate la carriera di pianista e le origini borghesi, Robert Eroica Dupea, detto Bobby, si dedica ad un vagabondaggio senza meta, di città in città, in compagnia di Rayette, una ragazza un po' svampita che si innamora di lui. Lavora in un pozzo petrolifero in California ma, quando apprende che il padre è gravemente ammalato, si licenzia e, accompagnato da Reyette, fa ritorno a casa. Qui seduce Catherine, la fidanzata del fratello, una donna raffinata che lo pone di fronte alla scelta fra due stili di vita completamente opposti. Il brillante ma tormentato Dupea sarà così costretto ad affrontare una serie di situazioni che cambieranno per sempre la sua vita...

Critica 1:Pianista vagabondo e sradicato torna a casa dopo una lunga assenza per l'ultimo saluto al padre, ma l'atmosfera lo soffoca come una ragnatela. Guidato dall'istinto di vita, si rimette in strada senza bagagli. Uno dei migliori film americani degli anni '70. Racconto di scontento, non di contestazione. Analisi di un'inquietudine, non di un dubbio. Film della coscienza infelice, è ricco di finezze psicologiche e paesaggistiche. Scritto da Adrien Joyce, pseudonimo di Carole Eastman.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(…) Sebbene sia sostanzialmente la storia di un viaggio, il film non ha una storia vera e propria. Anche qui è il caso di osservare che il viaggio rappresenta in genere per i cineasti un'occasione per conferire un taglio dinamico al racconto senza dover sottostare alla costruzione della trama con le varie situazioni ordinatamente e cronologicamente disposte. Rafelson, se adopera un linguaggio realistico che sconfina abbondantemente nel naturalismo, procede in questo senso con estrema decisione. Il film è un insieme di blocchi che non sono concatenati da una logica stringente e non sono uniti da uno svolgimento narrativo preoccupato di tener desta, come si dice, l'attenzione. Questi blocchi sono le tradizionali tranches de vie presentate un po' alla brava, a colpi di cazzuola e di martello perchè s'incastrino le une nelle altre come mattoni. La cosa importante è rilevare come le singole situazioni non vanno alla ricerca del sensazionale, cioè della cosa che lascia a bocca aperta lo spettatore (come è cattivo uso nel cattivo cinema di consumo), e non sono organizzate secondo i criteri di una regìa puntigliosamente vincolata alle soluzioni scenografiche o ai benemeriti movimenti di macchina. Questa volta è la sceneggiatura che aiuta a far marciare il racconto. Come se uno parlasse, s'interrompesse e riprendesse a parlare senza ricordarsi nemmeno tanto bene di dove è rimasto ma riuscendo comunque a esprimere di continuo frasi interessanti, riferimenti, spunti, idee. Un collage, insomma, di momenti verbali serviti da immagini poco curate, anzi tirate proprio via. Naturalmente, un calcolo c'è in questo.
Ed è appunto legato a quella ricerca della autenticità cui Rafelson tiene assai. L'autenticità come fotografia penetrante degli stati d'animo. E tanti pezzi di film quanti sono questi stati d'animo. E siccome si tratta di un film su un personaggio, su un individuo, la struttura è costituita da vari tasselli che riproducono le reazioni interiori e il loro riflesso, appena accennando al contorno e agli altri personaggi, i quali sono delle pennellate venute giù con tenera rabbia e disposte per far luce sul «lui» centro del film. (…)
Robert è un fottuto borghese. Lo interpreta Jack Nicholson, l'avvocato di Easy Rider (e velleitario regista). Robert un certo giorno si è domandato perchè continuare con la musica «seria» ed essendosi risposto negativamente, ha deciso di abbandonare baracca e burattini, cioè la casa e i familiari, e di fare mille mestieri, fra i quali quello di operaio. II film, come si è detto, lo coglie nei panni d'operaio. E' un borghese con abiti da operaio, non è soggettivamente colpevolizzato, non è il missionario di una ideologia o di una religione, non cerca di condurre una esperienza. II petrolio non cancella le macchie che il nascere borghese stampa dentro. Inutile frizionare. Robert si stanca presto, quel che vuole è cambiare di continuo. La sua vita manca di futuro e lui continua comunque ad inseguirlo facendo finta di nulla. Ogni sua scelta segue questa «ispirazione». Quel che non vede, e che pure cerca, gli impedisce di guardare bene in faccia chi ha intorno. Si accorge appena della sua donna perchè ha un seno così e il compagno di lavoro gli serve per giocare al bowling oppure per non lasciarlo solo a bere lattine di birra o bottigliette di whisky.
Ma ciò che è importante marcare riguarda la sua caratteristica principale di personaggio rispetto agli eroi di tanti film americani recenti. Robert non è uno studente rivoluzionario o uno hippie. E' un esponente della classe agiata che si sente mordere da un disagio cui non riesce a dare un nome preciso. Rafelson qui fa leva per conferire originalità al suo film. Abbiamo di fronte un giovane che rinuncia perchè si porta appresso un male, una sorta di cancro che gli è cresciuto nel petto a causa di una lenta sedimentazione provocata, non spontanea. Come una spugna, Robert ha assorbito i germi in un'atmosfera che scoraggia i ribelli romantici e manda al manicomio i soggetti troppo esposti al senso di colpa, organizza delle «riserve indiane» per gli indesiderabili, dilata la repressione permissiva, eccetera. E' infetto, lo sa, si illude di guarire in un territorio (in un domani?) pulito.
Partito con la sua bella, Robert incontra le due lesbiche. Sono donne assai diverse, una è una virago che non smette mai di parlare, l'altra è un tipo succube e si azzarda ogni tanto a infilare una timida frase di scoraggiamento. E' un incontro che non scopre soltanto dei «personaggi» con delle ossessioni (il fetore della società dei consumi) ma serve a dimostrare in qualche modo che sulle autostrade c'è qualcuno che, come il protagonista del film (il prototipo), si mette in cammino verso una direzione miticamente agognata. Costui, o costei, può essere spinto dal fatto che sente una metaforica puzza: tutti quei supermarket in perfetto ordine, con tanta plastica lucida, le confezioni e lo scatolame infiocchettati e colorati. Una vernice che copre ben altra realtà di fame qui e altrove (secondo il nuovo internazionalismo). Oppure può andare ramingo a cercare una avventura, una sorpresa lungo un fiume qual'è l'autostrada. L'illusione di fuggire o di raggiungere qualcosa, o soltanto di cambiare. Robert scarica le lesbiche, la sua bella e arriva nell'isola. La casa non è una casa. E' una cassa armonica, piena di suoni e di gente che sta al piano o al violino. Basta spalancare una porta per cogliere il rito segreto e solenne dell'artista che si esercita, si fabbrica un mondo non importa se con suoni vecchi, con emozioni cristallizzate, buone da mettere sotto una campana di vetro, di quelle di una volta. Il fratello che non ce la fa più ad infilare il violino sotto il mento, appare agli occhi di Robert come una specie di buffo mostro. La cognata è un'altra illusione, un altro miraggio. E' fine e sa la musica. Accetta di vivere in quel covo di matti e non pensa neppure di lasciarlo, anzi si pente di essersi abbandonata (non fare tante storie!) a Robert. Apri un'altra porta e puoi vedere il padre che sta seduto in poltrona e guarda perdutamente lontano e se vede non riconosce. (…)
Robert non soltanto non supera la crisi della classe agiata, ne è il personaggio in fondo più emblematico situando la sua angosciosa fuga verso una alternativa o una sostituzione in una direzione che risulta assurda. Andare nell'Alaska, dov'è pulito, come la lesbica, non costituisce alcuna prospettiva. La terra promessa biblica che pure dev'essere presente nel quadro di riferimento cui appartengono Robert e la sua famiglia, svanisce in una landa di ghiaccio dove - magari - ci si può ibernare in attesa di tempi migliori. La classe agiata, dice Rafelson, non rinuncia a se stessa, caso mai incarica un suo figlio - nel caso, Robert - di incarnarne il senso di colpa. Mentre però in diversi film del genere il rifarsi al senso di colpa è frutto di un autocompiacimento spesso portato all'estremo e quindi non in grado di comunicare altro che una sorta di autarchica esaltazione cui tutti debbono almeno rispetto, in Cinque pezzi facili lo si presenta con un brusco lirismo che non crea complicità vergognose. Anzi, la rappresentazione diventa più convincente nella misura in cui nella polemica contro la classe agiata viene a mancare il ricorrente moralismo dei registi della stessa classe che si sforzano di cancellarsi, e restano alla fine paralizzati, in una polemica non adeguatamente filtrata. Rafelson non ha fatto il solito bell'oggetto ma ha colto la contraddizione fra tenace attaccamento ai valori della borghesia agiata (…), Rafelson, dicevo, ha colto la contraddizione fra questi valori-disvalori e il senso di colpa, denunciando entrambi, e concedendo soltanto una calda ma interrogativa simpatia alla rivolta istintiva, al malessere che non può conoscere un riscatto di classe se prima non sono intervenute nuove crisi e nuove promesse di rovesciamento, alla vana speranza di una terra «pulita» di Robert.
Si potrebbe chiedere: qual'è la tua Alaska? Forse il pubblico, vedendo Cinque pezzi facili, cercherà di dare un nome e una localizzazione geografica a mete che finora ha chiamato in altro modo. (…) L'ambiente puzza, la classe agiata scappa o si rintana in un'isola; per cambiare bisogna cominciare lasciandola da parte.
Autore critica:Italo Moscati
Fonte critica:Cineforum n. 104
Data critica:

6/1971

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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