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Posto (Il) -

Regia:Ermanno Olmi
Vietato:No
Video:Mondadori Video (Il Grande Cinema)
DVD:
Genere:Sociale
Tipologia:Il lavoro
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Ettore Lombardo, Ermanno Olmi
Sceneggiatura:Ettore Lombardo, Ermanno Olmi
Fotografia:Roberto Barbieri, Lamberto Caimi
Musiche:Pier Emilio Bassi
Montaggio:Carla Colombo
Scenografia:Ettore Lombardi
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Sandro Panzeri (Domenico Cantoni), Loredana Detto (Antonietta), Tullio Kezich (esaminatore), Mara Revel (collega di Domenico)
Produzione:Titanus - The 24 Horses
Distribuzione:Cineteca Nazionale
Origine:Italia
Anno:1961
Durata:

98'

Trama:

Domenico Cantoni, un giovane della provincia di Milano, si reca in città per partecipare ad un concorso indetto da una grande azienda per alcuni posti di impiegato. Domenico supera le prove e viene assunto; ma in un primo momento si dovrà accontentare di essere aiuto-usciere. Durante gli esami, ha conosciuto Antonietta, una giovanissima ragazza di Milano, anche lei alla ricerca di un posto. Domenico è felice di apprendere che anche Antonietta è stata assunta; ma i diversi turni e le diverse mansioni impediranno ai due ragazzi di incontrarsi ancora. Si avvicina il Capodanno e Domenico, inaspettatamente, incontra Antonietta che lo invita a prendere parte alla festa che sarà organizzata dal CRAL aziendale. Domenico partecipa al ballo, ma Antonietta non c'è. Il dolore per quella delusione, viene lenito il giorno dopo dalla notizia che, per la morte di uno degli impiegati, Domenico lascerà la divisa da usciere per avere una scrivania tutta sua ed iniziare la sua carriera di impiegato.

Critica 1:Un ragazzo di Meda (MI), figlio di operai, s'accinge a trovare un posto di avventizio in una grande azienda milanese. Un'ora e mezzo per una storia così esile? Eppure non si hanno né divagazioni né indugi. Tutto si tiene. Dopo i capitoli leggeri e lirici della prima parte (l'idillio del protagonista con una coetanea: è L. Detto che diventerà moglie di Olmi e madre dei suoi figli) si affronta il tema centrale: la presa di contatto di Domenico (un S. Panseri paragonato a Keaton giovane), ancora integro nella sua freschezza di adolescente, col desolato e triste mondo impiegatizio. Che prezzo dovrà pagare per il posto, per il lavoro? Secondo in ordine cronologico, è il primo vero film lungo di Olmi a livello produttivo, e gli diede notorietà internazionale.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Il posto, film n. 2 di Ermanno Olmi, è la conferma del film d'esordio, Il tempo si è fermato. Senza staccarsi da quella forma strutturale di racconto che vive dello studio psicologico alla ricerca di una stabilità interiore, al di là della solitudine e della noia, nella solidarietà di un'amicizia, di una simpatia, o nell'impegno di un lavoro, qualunque esso sia purché sia gratificante e dia fiducia all'uomo, Olmi rievoca le esperienze di un ragazzo che, con acerbezza e impaccio, deve integrarsi nella realtà sociale del lavoro organizzato, teso a guadagnarsi quel tavolo, quel «posto» che è l'ancora concreta nell'incertezza quotidiana, ma forse anche la condanna di tutta una vita di sogni.
Questo duplice aspetto del «posto», che esteriormente sembra coagularsi da una parte nell'ambiente familiare del protagonista, figlio di operai della provincia milanese, e dall'altra nel mondo impiegatizio della ditta da cui viene assunto, in realtà è forse la stessa cosa; non c'è differenza tra i due ambienti, sono il diritto e il rovescio di una stessa realtà storica e sociale, che fa del « posto » un'esigenza ossessiva, di cui soltanto alla fine il protagonista sembra accorgersi quando sul modo quasi passivo di vivere i fatti si innesta la consapevolezza amara di un limite, e la presunta conquista del «sogno» viene a fondersi con la valutazione affettuosa e patetica che su quel sogno distende il regista.
Il posto, quindi, è la storia di Domenico Cantoni, il quale, dopo qualche approccio con gli studi superiori, è costretto, forse un po' controvoglia, ad iniziare anzitempo il difficile contatto con la vita, nella ricerca di uno stipendio non lauto per un lavoro non disdicevole. Per questo, entrando negli uffici, percorrendo i lunghi e lucidi corridoi, di fronte a uscieri in divisa o a impiegati silenziosi o indaffarrati, Domenico si sente quanto mai solo, spaesato, con la gola secca, quasi senza un filo di voce. «Il posto», la sistemazione professionale, gli sembrano qualcosa di lontano, di irraggiungibile, come l'aula dell'esame in cui i concorrenti vengono condotti per la prima prova scritta.
Ma il mondo esterno non è poi un mostro. Basta sapersi sgelare, spietrarsi, tentare la comunicazione e la comprensione delle ragioni altrui. Ecco allora che le prove psicotecniche si rivelano facili, quasi stupide, e che la tristezza del pranzo solitario consumato in latteria a contatto di tanta gente sconosciuta e diversa può colorarsi per un sorriso, per un incontro fortunato con una coetanea, e che il dinamismo frastornato e allucinante della città, messa sossopra dai lavori della metropolitana, può diventare una specie di stimolo musicale che spinge l'uno ad afferrare la mano dell'altra e a camminare insieme, ad ammirare le vetrine e a chiacchierare di tante futili cose. Domenico ha l'improvvisa sensazione di aver rovesciato di colpo la sua esistenza solo perché si trova accanto Antonietta, una ragazzina che egli ha intravisto all'esame e ha incontrato poi in latteria e cui, facendo forza sulla congenita sua timidezza, riesce ad offrire una tazza di caffè.
Domenico si afferra a questa presenza femminile, il cui ricordo grazioso l'accompagna sino a casa, eccitandogli l'anima di allegrezza cordiale; vi subordina incantamenti e desideri, persino l'acquisto di un impermeabile con tanti anelli e cinturini, senza accorgersi che la vita non si risolve in un solo incontro, e che ci sono anche gli altri, e ciascuno con un universo proprio. E appena appena, Domenico conosce, e dall'esterno, chi gli sta vicino. Dal suo posto di aiuto usciere, dove è stato provvisoriamente assegnato in attesa che si liberi una scrivania anche per lui, Domenico viene gradualmente a contatto con i personaggi del suo ufficio.
Tra essi c'è l'impiegata bellina, corteggiata da tutti, e l'impiegato che di notte scrive un romanzo, e quello che si fa tagliare i capelli dalla moglie, e l'altro che appare un po' sussiegoso come un nobile decaduto, e l'altro ancora che alla sera ama cantare all'osteria, e la vedova che talora piange per le malefatte del figlio. Antonietta a poco a poco si allontana nel ricordo. Domenico riesce ad avere con lei un incontro fuggevole proprio alla vigilia natalizia e un vago consenso per la festa di fine d'anno al ritrovo ricreativo della ditta. Domenico però non la incontra quella sera, forse non la incontrerà più, ma intanto egli ha imparato a conoscere il suo ambiente, ha ottenuto il suo posto, diventa un impiegato anche lui. Può sembrare ormai una rotella sperduta di un congegno più vasto: starà a lui averne socialmente coscienza o limitarsi passivamente all'automatismo.
Olmi non accentua il destino di Domenico in un senso piuttosto che in un altro. C'è nel regista bergamasco troppa predilezione per i personaggi umili e semplici, c'è nei suoi film troppa umanità perché i personaggi siano solo maschere di comodo o pretesti narrativi. Olmi si è messo vicino a Domenico, guardandolo forse con il distacco del fratello maggiore, ma con tanto affetto, con simpatia, con indulgente bonarietà. Talvolta egli lascia cadere sui gesti, sulle frasi, sugli incantamenti impacciati una leggera nota ironica, ma pulita, castigata, e tal'altra invece una dolcezza sentimentale e patetica venata di lirismo.
Le due prospettive, quella pateticolirica e quella pateticosociale, sembrano quasi convogliarsi rispettivamente nella prima e nella seconda parte del film. Siccome la componente pateticolirica è in Olmi la tendenza più spontanea, la prima parte è quella tematicamente più raccolta, stilisticamente più omogenea, più ricca di osservazioni puntuali su Domenico e le sue reazioni. Nella seconda parte invece, dove abbondano le scheggiature polemiche, anche se senza acredine e cattiveria, sul mondo impiegatizio e aziendale, il film appare più costruito, graduato con maggiore scaltrezza, anche se qualcosa sa talora di cose dette e di immagini viste. Ma anche qui Olmi conferma sicuro polso di regia, chiarezza di visione morale e una maturità di cultura che si traduce in un felice riscatto dal documentarismo delle esperienze precedenti.
Autore critica:Alberto Pesce
Fonte critica:Cine Proposte, Editrice La Scuola
Data critica:

1978

Critica 3:
      Prima di tutto va detto che Il posto è un film di estrema semplicità e linearità strutturale. È la breve storia di Domenico, un giovinetto di famiglia operaia lombarda (abita a Meda) ri-guardo al quale, primogenito (il fratellino continua a studiare), si decide in famiglia esser cosa opportuna che si trovi un impiego. Un « posto », appunto. Domenico affronta un esame selettivo presso una grande azienda milanese, conosce una ragazza, Antonietta, per la quale avverte una simpatia che potrebbe trasformarci (ma non ne avrà modo) in un amore prepotente d'adolescenza, supera gli esami, viene infine assunto.
      Ma, trasferito in un reparto lontano dalla Direzione Generale, è costretto, in un primo tempo, in attesa che si renda vacante un « posto » da impiegato, ad accetttarne uno da fattorino. Comincia così a conoscere l'ufficio, i colleghi, le piccole, tiranniche miserie della vita quotidiana dell'infimo burocrate. Cerca di ritrovare Antonietta, ma non gli riesce più di rivederla che casualmente e fugacemente. Un giorno uno degli impiegati muore. Per Domenico si libera finalmente una scrivania. È l'ultima della fila, perché le altre son rivendicate dai colleghi più anziani. Gli toccherà l'angolino buio del novizio, la lampadina traditrice, accesa tutto il giorno, maligna nello spegnersi. L'ultima sequenza del film si conclude con un primissimo piano immobile del volto di Domenico, che guarda fissamente in avanti, mentre la macchina per il ciclostile gli scandisce, sul viso attonito, un rumore di anni a venire, anni grigi, anni di lunga e spietata attesa, come una vite senza fine.
      Come si vede, poco più che un apologo introduttivo. L'urgenza dell'autobiografismo ha agito in modo prepotente nel decantare il mondo poetico di Olmi (soggettista e sceneggiatore del film, oltre che regista, si badi) e lo ha spinto qui ad una commossa e dolce-grottesca evocazione di una condizione umana, che è dei nostri giorni come mai lo fu nei secoli precedenti.
      Quella, cioè, del giovane che si avvia alla precoce alienazione di se stesso, attraverso quel meccanismo della «prestazione di lavoro subordinato» che, prima ancora che una disciplina giuridica ha ricevuto, proprio dal nostro tempo, le stigmate di una collettiva vocazione sociologica. Impiegato egli stesso, un tempo, poi «cresciuto» insieme con la sezione cinematografica di una Società milanese, fino a diventare documentarista industriale ed, ora addirittura regista di film a soggetto, Olmi ci ha dato, con Il posto, una,sorta di parallelo, personale equivalente di quel che fu, per François Truffaut, I 400 colpi.
      La stessa abbandonata, commossa vena lirico-ironica vi corre, raffinata e cerebrale e, ricca di antologici riferimenti cinematografici, nel francese; istintiva, popolaresca e furbissima nell'italiano. Il posto è, si diceva, un film estremamente semplice e lineare. Il suo stesso leggibilissimo andamento, la sua tendenza ad articolarsi in tanti episodietti argutamente e giovanilmente commossi, sono una garanzia di comprensibilità per il pubblico. Ma non è un film che conceda nulla gratuitamente, pur nella sua apparenza di candore divertito. È anzi, un film estremamente lucido: inquadratura per inquadratura costruisce un ritratto dell'«impiegato» (si pensi, tanto per indicare un equivalente cinematografico in chiave di sofisticazione hollywoodiana di altissimo livello tecnico, a L'appartamento di Billy Wilder) che non trova, a memoria nostra, somiglianza nella storia del cianema italiano.
      In più è «lombardo» fino alla radice, così come Olmi è lombardo. Vogliam dire che ne Il posto una vicenda, in sé applicabile teoricamente ad un qualsiasi paese d'un certo livello di sviluppo industriale, ha ricevuto un trattamento che la situa, con precisione millimetrica, nel cuore d'una certa civiltà padana, d'un certo costume civile e industriale, d'una certa classe di proletariato piccolo-borghese, che ha la sua capitale ideale in Milano, anche se i suoi confini ufficiali coincidono con il grande triangolo industriale del Nord-Italia. In questo senso le calibrature delle voci e dei dialoghi, le sfumature del dialetto, del lombardo italianizzato, e dell'italiano milanesizzante dei personaggi de Il posto, costituiscono una pagina di antologia.
      Importante, dunque, da un punto di vista «sociologico» (per un futuro archivio del costume italiano), il film resta, anche e soprattutto, un eccellente esempio di fusione, di aderenza istintiva di un linguaggio al mondo poetico del suo autore. Le trovate vi son sempre gioiose, leggere e di buona lega. La recitazione che Olmi ha ottenuto dai suoi attori improvvisati (quasi tutti «presi dalla strada» o dalle filodrammatiche milanesi. Qualcuno, come il critico cinematografico Tullio Kezich, che è il medico dell'esame psicotecnico, o il pittore genovese Guido Chiti, che è l'omino che porta gli stipendi, addirittura «presi dalla cultura») è straordinariamente calibrata. Sandro Panzeri, che è Domenico, è stato «inventato» da Olmi con una gamma di attonimenti, di timidezze, di goffaggini, con una intuizione della «buona mediocrità», che è uno dei risultati migliori del film. Così come Loredana Detto, che è Antonietta, ha disegnato una figura di milanesina furbetta, già assennata, già donna, un po' sciocchina e un po' intelligente, che entra a pieno diritto nella stessa galleria di tipi del cinema italiano in cui sta ad esempio Lia Franca, la protagonista di Gli uomini che mascalzoni di Camerini.
      Concludiamo, ricordando solo (di fronte ai pochissimi momenti di cedimento) i tanti momenti di felicità del film: la casa operaia di Meda, la «traversata di Milano» compiuta dai due ragazzi, l'esame psicotecnico, il fattorino baffuto, il ballo nella sede del «Cral», la conquista finale della scrivania. Tutti attimi di compiuta fusione fra forma e contenuto, in un racconto di quasi perfetto equilibrio e di vocazione crepuscolarmente sincera e abbandonata, a cui, non capiamo perché, molti rimproverano di essere «cattivo», quando è solo pietoso e parteciipante.
      (2 dicembre 1961)
Autore critica:Claudio G. Fava
Fonte critica:Le camere di Lafayette, La Rassegna Editrice
Data critica:

1979

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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