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Ararat - Ararat

Regia:Atom Egoyan
Vietato:No
Video:Bim
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La memoria del XX secolo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Atom Egoyan
Sceneggiatura:Atom Egoyan
Fotografia:Paul Sarossy
Musiche:Mychael Danna
Montaggio:Susan Shipton
Scenografia:Phillip Baker
Costumi:Beth Pasternak
Effetti:
Interpreti:Charles Aznavour (Edward Saroyan), Eric Bogosian (Rouben), Christopher Plummer (David), Arsinée Khanjian (Ani), David Alpay (Raffi), Marie-Josée Croze (Celia), Brent Carver (Philip), Bruce Greenwood (Martin Harcourt, l'attore che interpreta Clarence Ussher), Elias Koteas (Alì, l'attore che interpreta Jevdet Bey), Simon Abkarian (Arshile Gorky), Lousnak (Sushan Gorky), Raoul Bhaneja (il fotografo), Max Morrow (Tony), Balázs Koós (l'assistente di produzione), Shant Srabian (un medico/un attore), Sevaan Franks
Produzione:Atom Egoyan, Robert Lantos per Alliance Atlantis Communications/Serendipity Point Films/Ego Fim Arts/Astral Films/Super Ecran/The Harold Greenberg Fund/The Movie Network/Téléfilm Canada/Arp Sélection
Distribuzione:Bim
Origine:Canada/Francia
Anno:2002
Durata:

116'

Trama:

Raffi e David sono figli di due famiglie 'difficili', i cui conflitti interiori nascono da ricordi comuni. Raffi deve fare i conti con il ricordo di suo padre e con le reazioni di sua madre Ani, ossessionata da un passato che cerca di negare, e della sua sorellastra Celia che accusa Ani della morte del padre. David cerca di costruire un solido rapporto con il nipote Tony e di accettare il figlio Philip che è gay e ha come amante Ali, un attore. Celia ferisce accidentalmente Philip e Ali viene scritturato per un film epico in cui lavorano anche Ani e Raffi che viene sottoposto a uno stretto interrogatorio perchè è rientrato in Canada con molto materiale girato in 35mm.

Critica 1:Anche per evitare le trappole di un coinvolgimento emotivo di un soggetto portato con sé da sempre, Egoyan si è rifugiato più che mai in una di quelle costruzioni a mosaico che predilige. Non ha evitato di riprodurre gli avvenimenti (in uno stile volutamente distaccato, quasi oleografico ed accademico, enfatizzato da filtri e rifrazioni): ma si è dedicato soprattutto a ricostruire le tracce che quel dramma ha lasciato nelle esistenze di individui vissuti decine di anni dopo.
Ne è nato un film complesso: terribilmente sentito ed onesto, con il senso ammirevole di una riflessione, di un coraggio, e anche di una originalità che normalmente affidiamo alla creazione letteraria. Ma pure con il peso di una struttura che subisce i condizionamenti del cinema di finzione: e che, estesa com'è su così tanti livelli di lettura, finisce per perderne più di uno (quelli che riguardano il mitico pittore Arshile Gorky che fa da perno drammatico alla vicenda; quelli della "verità in video" riprese dal giovane, ad es.) per il suo più che encomiabile cammino.
Autore critica:Fabio Fumagalli
Fonte criticartsi.ch/filmselezione
Data critica:



Critica 2:Il cinema della modernità nasce all'indomani della Seconda Guerra Mondiale. Storicamente la guerra è una censura che impone una rinascita, in cui l'idea d'innocenza non è più possibile. Il mondo impiegherà un po' di più a vedere ciò che il cinema, tanto quello neorealista italiano quanto quello hitchohawksiano americano, aveva presagito. Dietro ai dispositivi linguistici elaborati (in un caso come nell'altro la realtà è ricostruita ora da un luogo che si traveste in set ora da un procedimento linguistico che trasfigura il reale), si nasconde l'Orrore. La visione mortifera dei campi di concentramento - come bene ha ricordato Godard che di tale estetica è il teorico più lucido - annulla la possibilità stessa di fare cinema. Dopo Auschwitz, dopo Ombre e nebbia, certe immagini, quelle che presuppongono una visione oggettiva, sicura di sé da positivismo tardo ottocentesco (quella onestà beata rinvenibile nella maggior parte dei film muti), non possono più essere. E, quando lo sono, rischiano l'abiezione. Portando alle estreme conseguenze questo assunto Jean-Luc Godard pone la parola fine sulla possibilità di pensare e mettere in scena una finzione. Quando la possibilità di raccontare una storia d'amore scompare sotto il peso della Storia (la protagonista in Eloge de l'amour muore, senza lasciare traccia), il film dove cercare in territori eccentrici, quali l'analisi, la poesia, la cronaca, di dare forma ad una nuova fiction. Le due parti in cui è diviso Eloge de l'amour corrispondono a questi due movimenti: morte e rinascita del cinema moderno.
Un anno dopo, Ararat di Atom Egoyan sembra spostare indietro il discorso. Nelle immagini di ricostruzione del massacro patito dagli armeni, la fiction ritorna prepotentemente. Le inquadra-ture del film girato dal personaggio di Aznavour in Ararat, nel loro essere smaccatamente finte, provocatoriamen-te emotive, volutamente patetiche (nel senso letterale del termine), rischiano di apparire false al limite dell'insoppor-tabilità A ben vedere, invece, proprio in esse si ritrova - a mio parere - il senso della riflessione compiuta. Ararat non è forse il film più bello di Atom Egoyan, è però probabilmente il più importante. Senza dubbio è il film più teorico del regista, quello in cui il suo pensiero è esposto con una chiarezza e lucidità inedite. E non è solo la figura della "mise en abime" (la visione nella visione che in forme sempre diverse ritorna in tutti i suoi film) ad essere giustificata, ma è tutto un sistema di pensiero, un modo di vedere le cose che poteva apparire come una marca stilistica fine a se stessa che trova la sua ragione d'essere. Ararat è il film che fa luce sulla faccia nascosta dell'universo di Egoyan: quel lato oscuro, da sempre ai margini dell'inquadratura capace nonostante tutto di ossessionare la superficie del visibile. Di volta in volta lo si è letto come un tributo ad un genere (Il dolce domani, Exotica), ad una matrice letteraria (Il viaggio di Felicia), ad una sensibilità personale (Family Viewing), quando invece il suo essere straniero in patria non era un riferimento biografico (almeno non solo), ma un prisma attraverso cui leggere il presente. La metafora sottesa dal personaggio del pittore Arshile Gorky (pseudonimo con cui l'artista ha nascosto il suo nome armeno, Vosdanig Adoian) va proprio in questa direzione: il dato storico, autobiografico (la fotografia) si dissolve in un'immagine (il dipinto) che coinvolge l'individuo contemporaneo in quanto tale. Nel procedere del pittore, che trasfigura il ricordo in un'immagine universale, è possibile anche rinvenire una dinamica propria al regista. Come i dipinti di Gorky anche i film di Egoyan mostrano una pulizia formale (quella precisione con cui certi emigrati nascondono l'accento di origine), un gusto estetico che in fondo altro non sono che un modo per esorcizzare quel dolore vissuto in prima persona. Memoria continuamente rinnovata di una violenza indicibile, inesprimibile e, forse per questo, dimenticata da tutti.
Più ancora del genocidio degli ebrei, gli stermini compiuti dai turchi nei con-fronti degli armeni evidenziano quest'a-spetto dell'epoca contemporanea: la ca-pacità di oblio che l'uomo più che il tem-po ha. Genocidio perfetto perché non vi-sto, non ripreso, perché i testimoni non hanno avuto diritto di parola; contro quest'assunto Egoyan fa Cinema (e nel-la stessa direzione, ma con modalità dif-ferenti, operano anche Gianikian e Ricci Lucchi). Il campo d'azione scelto resta quello della finzione. Anzi, verrebbe da dire che solo nella finzione il Male trova una sua rappresentazione. Ponendosi in questo all'esatto opposto di Jean-Luc Godard (ma sempre all'interno dello stesso spettro di variazioni), Egoyan ridà valore e dignità alla fiction, come luogo alternativo e complementare alla memoria. In Ararat c'è un costante an-dirivieni tra il ricordo ricostruito (falso, ma non per questo meno toccante) e il presente, ossessionato da un passato cui gli è stata negata, una volta per sem-pre, dignità pubblica. Le mani cancella-te sono il segno di questa violenza, che nessuna fiction, nessun ricordo comme-morativo potrà sanare. Il procedere del film tocca così un'ambiguità della mora-le che nasconde o nega ciò che non vuol vedere: la diversità, la colpa, la morte, ecco alcuni concetti-tabù che Egoyan pone come crocevia in cui far incontrare i suoi personaggi. La fiction è il luogo che consente tali confronti, il campo in cui l'ambiguità del presen-te si trova a dover fare i conti con il rigore dell'etica. L'etica di Ararat si defi-nisce però in base alle scel-te che gli uomini (i perso-naggi) compiono, anche a dispetto della logica. In questa morale, che sempre è da trovare, la fiction si riappropria di tutta la sua carica eversiva. Come un perfetto controcampo, il film nel film - dichiaran-dosi finto e manicheo - af-ferma il suo potere di toccare le coscienze. Così assoluto, così icastico nelle idee messe in campo, il film di ricostruzione esalta le ambiguità e le debolezze tutte umane dei personaggi.
Il monte Ararat (scelto non a caso come titolo dal regista) è il simbolo di questo procedere. Falsità geografica lampante, il profilo della montagna, in cui l'arca dell'alleanza si è arenata un tempo, vede sfilare ai suoi piedi controfigure impegnate a dar forma a nuove-vecchie barbarie. Ricodificando la disamina teorica di Godard e trasferendola ad altro ambito (la grande platea che assiste alla prima del film), Ararat mette in campo una pedagogia della fiction, che resta una delle lezioni più alte offerte da questo festival di Cannes.
Autore critica:Carlo Chatrian
Fonte critica:Cineforum n. 416
Data critica:

7/2002

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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A cura di: Redazione Internet
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