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Domenica in campagna (Una) - Dimanche à la campagne (Une)

Regia:Bertrand Tavernier
Vietato:No
Video:Domovideo
DVD:
Genere:Commedia
Tipologia:Spazio critico
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratta dal racconto "Monsieur Ladmiral va bientôt mourir" di Pierre Bost
Sceneggiatura:Bertrand Tavernier, Colo Tavernier O'Hagan
Fotografia:Bruno De Keyzer
Musiche:Gabriel Faure'
Montaggio:Armand Psenny
Scenografia:Patrice Mercier
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Michel Aumont (Gonzague), Sabine Azema (Irene), Monique Chaumette (Mercedes), Louis Ducreux (Ladmiral), Thomas Duval (Emile), Genevieve Mnich (Maria Teresa), Quentin Ogier (Lucine), Jacques Poitrenaud (Hector), Claude Winter (Madame Ladmiral), Katia Wostrikoff (Mireille)
Produzione:Alain Sarda per Sara Films - Films Antenne 2
Distribuzione:Academy
Origine:Francia
Anno:1984
Durata:

94'

Trama:

Siamo nel 1912. Il signor Ladmiral, un anziano pittore non celebre, vive con una governante nella sua villetta in una campagna non lontana da Parigi. E' domenica ed arrivano in treno il figlio Gonzague, la nuora e i loro tre bei bambini. Passeranno, come fanno spesso, la giornata con papà, fra un ottimo pranzo, la siesta e qualche passeggiata al fresco degli alberi già rosseggianti. Poi, nel pomeriggio, arriva da Parigi con la sua automobile Irene, l'amatissima e più giovane figlia di Ladmiral, piena di vitalità, sempre elegante, imprevedibile ed irrequieta. Irene accompagna il padre in auto fino al laghetto, parlerà con lui e ballerà con lui un valzer in un rustico locale del posto; poi lo riporta tutto felice a casa. Ma non può restare per la cena: una telefonata arriva per lei da un ignoto, Irene ne è turbata e riparte in fretta. Gli altri prenderanno l'ultimo treno della sera e Ladmiral resterà di nuovo solo. Per fortuna, un quadro del tutto nuovo sembra tentarlo molto ...

Critica 1:La tranquilla domenica in campagna di una famiglia parigina ai primi del Novecento. Anziano pittore, di media celebrità, riceve nella sua casa vicino a Parigi i due figli. Un film di grande eleganza, quasi privo di storia. La cinepresa, protagonista invisibile, bracca i personaggi, fruga nelle stanze, sfiora arredi, specchi, suppellettili, superfici, paesaggi. Da un romanzo breve (1945) di Pierre Bost, Tavernier e sua moglie Coco hanno tratto un film di una tenera e deliziosa piccola musica che racconta una certa idea di felicità. Il premio della regia al Festival di Cannes riconobbe in Tavernier un cineasta che, raccogliendo l'eredità di Truffaut, riabilita l'emozione al cinema.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Un avverbio sembra qualificare più d'ogni altro quest'ultimo film di Bertrand Tavernier ed è apparentemente. Apparentemente si tratta di un film intimista che non racconta nulla se non una delicata storia di sentimenti inespressi, di rapporti interpersonali soffocati nella discrezione, un lento consumarsi di emozioni entro quello stanco rituale che è la vita. Apparentemente è un film sull'impressionismo i cui rimandi (Degas, Renoir, Monet, Manet, Van Gogh, Cezanne) trovano un duplice riscontro nei ricordi del vecchio protagonista e nella suggestiva rilettura fotografica. Apparentemente è un film che si discosta dal cinema di Tavernier che conosciamo come un cinema che tende ora all'intreccio (L'orologiaio di St. Paul, Il giudice e l'assassino), ora alla vastità provocatoria dell'apologo (Che la festa cominci, La morte in diretta.). Una domenica in campagna è certo tutto questo, ma è soprattutto il sovrapporsi perfettamente omogeneo delle tre prospettive. Il primo segnale, in sè bivalente, è in apertura: la voce di donna fuori campo («Quando la smetterai di pretendere troppo dalla vita, Irène?») che potremo più tardi attribuire alla moglie morta del protagonista, ed il lungo carrello avanti che ci mostra il giardino nei suoi splendidi colori (un carrello reso quasi astratto dal movimento inverso ottenuto dagli obiettivi) - sono un segnale che ci guida verso i primi due piani di lettura, verso le prime due apparenze cui abbiamo accennato.
La famiglia Ladmiral dà vita ad un triangolo di cui ciascun vertice mette in scena una possibilità di vita apparentemente opposta alle altre. Gonzague, il figlio, è un uomo esteriormente maturo, ma in realtà dominato da un'ossessione perbenista che ha perso anche la forza di esprimersi come tale; è un'ossessione sepolta, completamente assimilata, incrinata solo a tratti dalla gelosia per la sorella. I primi dialoghi fra lui e il padre sono nel segno della più assoluta banalità, così come quelli che chiudono, con la cena prima della partenza, il film in una struttura simmetrica che viene replicata nei battibecchi fra Ladmiral e Mercedes, oltre che nella carrellata sul giardino. Forse, racconta Gonzague alla moglie (e non è certo la prima volta, visto che lei si assopisce), ha avuto anche lui l'occasione per seguire le orme del padre, ma non ha accettato la sfida sapendo di poterne uscire sconfitto (e perciò svilito) oppure vincitore (e perciò un «rivale» proprio per il padre). La giustificazione è portata senza convinzione, come una prassi destinata a motivare scelte di ben minore lucidità e discrezione; serve soprattutto a Gonzague per razionalizzare una resa e dimostrare che in fondo non avrebbe mai potuto essere altro che ciò che è. Lo accompagna, ad ulteriore dimostrazione di questa vocazione all'«imborghesimento», una moglie che ha voluto cambiargli il nome con il più «signorile» Edouard e che sembra la sua copia esatta al femminile: si pensi al dialogo con Mercedes in cucina sul fatto che quando si ha sete non c'è niente di meglio che bere o sulla difficoltà di pulire i fagiolini. Un vero trionfo, anch'esso discreto, che si tiene in disparte, dei luoghi comuni, d'una mancanza di personalità che si accontenta del proprio ruolo sociale, di una identità di «moglie» in sè chiusa e perfetta, incrinata soltanto dal confronto con lrène. Gonzague-Edouard e Marie Thérèse sono i portatori di una simmetria tutta francese, intoccata dai tempi e dal progresso, che trova il suo seguito ideale nei due figli maschi, che non vorrebbero giocare in giardino, bensì solo in casa, una generazione di replicanti inghiottiti dalla città e dal conformismo.
Ancora prima di avvenire, l'arrivo di lrène si annuncia ben diversamente tumultuoso: lo anticipa l'intrusione della sua corsa in macchina a seguito della terza dissolvenza che scandisce il pasto dei Ladmiral. Il suo arrivo è un risveglio: di Gonzague e sua moglie, come dello stesso Ladmiral. E lei a sconvolgere l'ordine d'un rituale che si ripete quasi ogni settimana, così come sconvolge l'ultimo, ripetitivo quadro del padre; è ancora lei che gli rovina la giornata ripartendo troppo presto, che possiede l'automobile, che lo conduce nell'osteria di campagna - ed è a lei che, alla sua partenza, Ladmiral dice: «Resta giovane».
Naturalmente questa irrequietezza così affascinante per suo padre (che non vuole peraltro indagarne le ragioni contingenti) ha il suo prezzo: la gelosia di Gonzague, la delusione di Ladmiral, il tormento di lrène. Sono queste le crepe che il progresso (nella forma di un femminismo ante litteram, di una diversità insofferente e sofferta) apre nell'immobilità della vecchiaia e nella consolatrice ritualità delle convenzioni. lrène è destinata a pagare di persona la propria irrequietezza, e poi a farla pagare agli altri; non l'aiutano certo le premonizioni, che sono di morte (quando legge la mano alla piccola Mireille), esattamente come quelle di Gonzague, colto in un improvviso flash-forward ad immaginare la morte del padre (ed è sintomatico che da questa immaginazione egli estrometta proprio Irène). In questa paradossale convergenza oltre la diversità, si riflette a sua volta lo stesso Ladmiral: quando racconta ad lrène del suo sogno su Mosè e la Terra Promessa, non fa che concludere, dal proprio punto di vista, la premonizione di Gonzague. Tuttavia il suo racconto è ancora aperto al futuro. Non il futuro della ripetitività turbata dalla morte (Gonzague), né quello dell'insofferenza (lrène), ma un futuro come Terra Promessa appunto, un futuro di cose da fare, come mostrano il tormento (il dubbio, direbbe Daniel Bion - e «tra questo e l'angoscia non c'è che un passo» ) delle sue mani di fronte alla tela bianca nel finale e l'immagine (con la sua luce impossibile, tutta sognata) delle due bambine che giocano nel giardino quando è già scesa la sera. È in quest'ultimo sguardo e in quest'ultimo gesto d'attesa che si stempera la drammaticità annunciata dal flash-forward . Una domenica in campagna non ci parla tanto della morte, quanto della difficoltà discreta della vita.
Ciascun personaggio rimanda all'altro: per opposizione (Gonzague/Irène), per affetto (Irène/Ladmiral), per semplice adiacenza (Gonzague/Ladmiral). II tratto dominante di questi rapporti incompleti è la solitudine: aperta, insistita, discreta quella di Ladmiral (il ritorno dalla stazione, nel finale, con quella luce livida, così diversa da tutto il resto del film, è l'ultima rivelatrice figura della sua solitudine, in precedenza solo allusa; ma anche quel «Resta giovane» che rivolge alla figlia in procinto di partire è un segno di solitudine invano mascherata da nostalgia); mascherata e scarsamente consapevole quella di Gonzague, che crede di riempirla nutrendosi di frasi fatte, di gesti stereotipati, di improvvise distrazioni; insieme sepolta ed esplosiva quella di Irène, una solitudine drammatica (la telefonata) e «frenetica». Non il tempo o la lontananza ne sono la causa, ma la vita stessa: e la sopravvivenza delle domeniche di Ladmiral è affidata alla sua capacità di accettare Gonzague al posto di lrène ovvero proprio ad un'ultima più crudele forma di solitudine (per entrambi).
Ancora una volta, come per la morte di Katherine in Morte in diretta, Tavernier spegne i risvolti più drammatici della situazione, appiattisce gli effetti, trasforma un possibile «nido di vipere» in un groviglio appena delineato di incomprensioni, sottintensi, ironie. «Più che attraverso i dialoghi, l'emozione si esprime attraverso i gesti, le espressioni e tutti gli elementi scenografici». In fondo tutto il dramma è concentrato nella dimensione distaccata del possibile (le premonizioni) o in una telefonata di cui ci sfugge il racconto da cui si origina. La solitudine è quotidiana, rivela, nelle sue diverse forme, tutta la propria naturalità; è allusa da quella gelosia (Ladmiralllrène, Gonzaguellrène) che le è complementare, così come dal livore del cielo al ritorno (con quell'albero scarno e contorto che rimanda a Van Gogh) o dagli ultimi ricordi che lrène trova in soffitta e porta con sè, per venderli. Infine, la solitudine è l'autunno. (…)
Autore critica:Giorgio Cremonini
Fonte critica:Cineforum n. 240
Data critica:

12/1984

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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