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Morte a Venezia -

Regia:Luchino Visconti
Vietato:No
Video:Warner Home Video (Gli Scudi)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Letterature altre - 900, Storia del cinema, Omosessualità
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Dal racconto omonimo di Thomas Mann
Sceneggiatura:Nicola Badalucco, Luchino Visconti
Fotografia:Pasqualino De Santis
Musiche:Gustav Mahler, brani dalla Terza e Quinta Sinfonia
Montaggio:Ruggero Mastroianni
Scenografia:Ferdinando Scarfiotti
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Dirk Bogarde G.Von Aschenbach, Romolo Valli Direttore dell'hotel, Mark Burns Alfred, Silvana Mangano Madre di Tadzio, Nora Ricci Governante, Bjorn Andersen Tadzio, Carole Andre' Esmeralda, Antonio Apicella Il girovago, Marisa Berenson Moglie di Aschenbach, Sergio Carfagnoli Polacco, Franco Fabrizi Il barbiere, Leslie French Impiegato Agenzia Cook
Produzione:Mario Galllo per la Alfa Cinematografica (Roma), Coproduzione Alfa Cinematografica (Roma) Productions Editions Cinematographique Françaises (Paris)
Distribuzione:Zari Film
Origine:Italia
Anno:1971
Durata:

135'

Trama:

Nel 1910 Gustav von Aschenbach, un musicista cinquantenne fisicamente logorato e spiritualmente inquieto, giunge da Monaco a Venezia per un periodo di riposo. Nell'albergo di lusso nel quale alloggia, l'artista incontra un giovanetto polacco dai lineamenti efebici, Tadzio, che ai suoi occhi sembra incarnare quell'ideale di bellezza eterea cui ha tentato faticosamente di dare espressione nelle sue creazioni artistiche. Pur senza conoscerlo nè rivolgergli mai la parola, von Aschenbach sente nascere sempre piu' nel suo cuore sentimenti che vorrebbe reprimere. Nel frattempo un'epidemia di colera invade la città lagunare; von Aschenbach decide di ripartire immediatamente alla volta di Monaco, ma un banale disguido relativo alla spedizione del suo bagaglio lo induce a rinviare momentaneamente la partenza. Sulla spiaggia del Lido incontra ancora una volta Tadzio. Mentre è assorto nella contemplazione del giovane, il maturo artista, stroncato dal suo male, muore.

Critica 1:Nel 1910 Gustav von Aschenbach, anziano musicista fisicamente fragile e spiritualmente inquieto, giunge al Lido di Venezia per una vacanza. Incontra il giovane, bellissimo Tadzio e muore. E, forse, il film più proustiano di L. Visconti che carica di reminiscenze personali e familiari la sua trasposizione del racconto lungo (1912) di Thomas Mann. Elegia sulla fine di un mondo con momenti memorabili quelli dove emerge con una struggente forza visionaria l'identificazione del regista con il personaggio in un contesto di alto accademismo decorativo. La Terza e la Quinta Sinfonia di Mahler al quale allude l'Aschenbach di Visconti che in Mann è uno scrittore contribuiscono al risultato, con le scenografie di Ferdinando Scarfiotti, i costumi di Piero Tosi e la fotografia di Pasquale De Santis.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Quasi tutti i critici parlando di questo film hanno cominciato coi mettere in luce la affinità tra Visconti e Thomas Mann: ambedue sensibili interpreti dei segni di disfacimento di un mondo, ambedue portati a tradurre i sintomi di trapasso storico in termini universali e a farne oggetto di analisi culturale, e a mettere in luce gli aspetti classisti del vecchio che tramonta e del nuovo che nasce. Ma stranamente gli stessi critici finiscono poi per ammettere che le diversità sono più decisive delle uguaglianze. Del resto non potrebbe essere diversamente per un film che dovendo mettere in crisi gli esiti decadenti della borghesia finisce per vagheggiare e illuminare nostalgicamente proprio quel mondo decadente e quella sorta di sanatorio per ricchi che è il grande albergo al Lido di Venezia.
Ancora una volta Visconti interpreta (lui e i suoi sceneggiatori) la sua opera di mediatore culturale come una scelta di campo, spostando i termini letterari e creando una serie di opposizioni invincibili, dove non ha più spazio la grande arte borghese dell'ironia e scompare ogni sorta di ambiguità. Dal racconto cioè, siamo trasportati in un'altra dimensione, il teatro, la tragedia. Il protagonista non è più oggetto di narrazione, ma anzi ne è l'eroe (anche se eroe negativo, anzi, proprio per questo) soggetto dei racconto; l'autore si specchia in lui, non se ne distanzia.
Questa sostanziale differenza è avvertibile nei personaggi, nel rapporto personaggi ambiente, e soprattutto nella struttura drammatica. E non vi insisterò oltre, se non per ricordare che su questo tema ha detto cose illuminanti Moravia su “L'espresso”, precisando l'estrema diversità fra la crisi di valori etico-sociali che avviene nel Gustav Aschenbach scrittore borghese, tradizionalista, difensore dei principi d'ordine, reazionario e decadente inconsapevole, e il musicista travagliato e in crisi intellettuale di Visconti, con tutte le conseguenze che ne derivano. Visconti, ha detto Moravia, è un esteta decadente che potrebbe essere benissimo un personaggio di Mann.
Ma quale personaggio? Non certo questo. Se uno sforzo è chiaramente avvertibile, è proprio quello di cambiare l'immagine centrale del racconto e renderla tragicamente patetica. E col personaggio così modificato cambiano, o cadono, le maliziose relazioni stabilite dallo scrittore tedesco con lo stesso titolo: La morte a Venezia, che propone con la sua connessione romantica e l'apparente antitesi il tema della bellezza e malattia, l'ambiguo intreccio di amore e morte; che è appunto un leit-motiv decadente. Il protagonista dei film non ha più le motivazioni sociali dell'affaticato e logoro scrittore di Thomas Mann, non ne può nemmeno condividere le ondulanti elucubrazioni. Come il personaggio, così l'ambiente e la struttura narrativa. Il personaggio manniano in fondo passava la sua esistenza di stanco scrittore quasi fra arcani segni ed intime esaltazioni, pronto come Thomas Mann a ricuperare, con l'onnipresente pedale dell'ironia, l'episodico-banale, come è stato detto, a un orizzonte cultural-mitologico. Ecco perché il racconto è quasi senza fatti e personaggi, ed è costituito soprattutto su indugi, presenze, immagini.
Visconti ha mantenuto esteriormente una lunga parte di questo invito al silenzio, ai non avvenimenti, ma ha dato a tutto un suono diverso. In Thomas Mann la caduta dall'estetismo in una crisi di erotismo senile, o nell'omofilia, come precisa Visconti, ha una sua storia precisa, scende inarrestabile ma logica ed evidente, la profanazione è irriguardosa quanto affettuosa, la malizia è comprensiva, e quindi ancora più crudele. Tutto perciò avviene e non avviene, tutto resta nell'animo dei senescente ospite dei Des Bains. Invece, pur fra apparenze analoghe, la storia diretta da Visconti è tratta verso l'esterno, e nel silenzio è piena di gridi, le emozioni sono pesanti, le angosce dichiarate, ma le motivazioni sono giustapposte e inconsistenti. La crisi morale abnorme del personaggio di Mann è carica di premonizioni ironiche e di richiami simbolici, che ne costituiscono anche la spiegazione morale. In Visconti è tragica perché non ha motivazione. E, pur senza voler esagerare per gusto di distinzioni, oltre che immotivata è quasi inesistente. Quello che avviene nello scrittore è in fondo un processo autonomo di degradazione e autorivelazione, anzi, più che una autorivelazione, è la costruzione scenografica, l'organizzazione dei proprio funerale.
A questo punto, e conscii che già più volte Visconti ci ha trascinato a queste misure, rendendoci complici di una vocazione autodistruttiva, dobbiamo chiederci che significato e soprattutto che valore ha per noi tutto questo. Siamo d'accordo intanto che il regista milanese non ha fatto il film per “carrozzare” Thomas Mann, ma che anzi come è sua antica maniera lo ha ridotto ai suoi imperiosi stilemi. Che il film ripropone, pensate per un momento a “Senso” e a “Rocco e i suoi fratelli”, i temi di un realismo nero, che ormai ha bruciato anche i più tenui riferimenti al nuovo. Zambetti ha detto che Morte a Venezia è un film autentico, perché è tutto dalla parte di un mondo che muore, senza concessioni al nuovo che deve nascere. E' esattissimo, ma forse dovremmo anche noi radicalizzare di più il discorso e vedere che cosa c'è sotto l'autocondanna e il suicidio pubblico, se così si può dire, che campeggia nelle scene madri dei film di Visconti da “Vaghe stelle dell'Orsa” a “La caduta degli Dei”. In apparenza, assistiamo a una serie di grandi sacrifici, quasi dei riti religiosi, dove in fondo l'uomo sacrifica al dio (la Storia) che stabilisce i destini umani. Questi riti sono tragici perché l'uomo non vi può nulla pur conoscendo la sua sorte, la sua parte gli impone, come ne “La caduta degli Dei” (ma anche in “Senso”) di collaborare alla propria distruzione, una volta che ha acquistato la consapevolezza del suo male.
Vediamo qui. Se nel racconto di Th. Mann Gustav von Aschenbach era andato al Lido per riposare e guarire (sbagliando tutto) qui il musicista fa il viaggio come verso un lido estremo, una specie di ultima sosta prima della morte. Siamo in un finale di tragedia. Il giovane Tadzio dalla bellezza perfidamente angelica pone in opera un meccanismo già prestabilito di colpa-degradazione-morte, che si consuma come un dramma classico.
Abbiamo il passaggio da un malizioso pastiche in forma di novella (che sottopone proprio a critica il classicismo come forma estenuata e decadente dei crepuscolo borghese) a una tragedia, per cosi dire “nobile”. Qui si torna indietro, si va in tragedia, ci si ritira in letteratura. Secondo elemento, e più importante, Visconti traduce i suoi presagi di sfacelo (siamo ormai alla vigilia della seconda guerra mondiale che cambierà i rapporti fra le classi e vedrà nascere comunismo e fascismo) in un mistero aulico. Lo sfacelo è avvertito al tempo stesso, appunto, con un sentimento di fascino e di orrore, ma perché? Perché l'autore rende il suo protagonista (in quanto persona) innocente, ma colpevole come maschera, per la sua eredità e destino; questa mescolanza di incolpevolezza e di destino, questa assunzione consapevole del male come espiazione storica e di classe, non toglie, ma dà grandezza al protagonista e all'ambiente che fa da sfondo alla tragedia. Ma questo è un quadro decadente. Ed ecco perché il film sembra curiosamente divorare se stesso. Il suo nucleo fondamentale consiste nella condanna e nella profanazione crudele fino al masochismo (pensate alla maschera di Gustav Aschenbach ringiovanito dal parrucchiere quando il belletto gli si scioglie in rivoli nerastri sul volto disfatto e cadaverico) di una classe attraverso la scomposizione acre e vioIenta delle sue difese interne (la sua intangibilità organizzata come ordine, culto del bello, serenità classica, riti e abitudini di un mondo superiore). Ma quello che resta del film è quella che Moravia chiama una descrizione della vita defunta raggiunta con una “intensità strana, insieme contemplativa e straziante. Come di una ricerca proustiana del tempo perduto”, e la pietà nascente nonostante tutto da questa vergognosa quanto sconvolgente e timida passione di vecchio, pudica e immonda, muta e sfacciata come solo si addice ad una morbosità senile. Non c'è dunque la crudeltà ma la pietà, non c'è l'ambiente giudicato in relazione alla sua popolazione futile ma la “quasi morbosa capacità di ricostruzione di ambienti emblematici del passato” (Moravia).
(…) Potremmo dire che Visconti in qualche modo va a ritroso di Mann (in questo senso potremmo parlare quasi dì una regressione. Anziché mordere e smontare le componenti dei suo personaggio gli offre un esito tragico). I metri usati da Visconti, come suggerisce acutamente Mino Argentieri su “Rinascita” sono quelli importanti dell'espressionismo, non il bric-à-brac di Thomas Mann che infrangeva con i semitoni e i faceti richiami letterari la sussiegosa imponenza dei suoi borghesi al mare. Quindi non solo Visconti si colloca decisamente dalla parte del mondo vecchio che se ne va, ma giustifìca sia pure per vie estetiche la sua decisione di stare dalla parte dei vinti. (…)
I vinti hanno dalla loro parte la tragica dignità della consapevolezza (consapevolezza di appartenere a un mondo finito, in colpa rispetto al presente) e questa consapevolezza è all'origine del loro male, è la causa delle loro colpe individuali. Franz che tradisce l'Austria, la famiglia degli industriali tedeschi che alimenta il nazismo, sapendo che ne uscirà distrutta, etc. sono tutti casi simili fra loro. La consapevolezza si fa ideologia, giudizio, condanna, e crea tuttavia una specie di superiorità. L'eroe dannato decide orgogliosamente e anticipa la sua fine, si dà la morte con le sue stesse mani. La scelta di campo viscontiana non solo ha un sapore marziale, ma si rappresenta anche come un esempio di coerenza. Sto coi miei, voglio morire col mio mondo, etc. E qui rispunta il solito dualismo. L'eroe che muore, per la stessa grandiosità dei mali in cui è coinvolto, per il fatto stesso che la storia passa attraverso di lui, che egli è al centro di un mondo che appare devastato ma non corrotto, né inconsistente, non peggiore del nuovo che arriva, non causa del ritardo del nuovo. Questa scelta estetizzante, e apparentemente irrisolta, di Visconti, è un preciso giudizio aristocratico e classista. Invece in Thomas Mann la partita si gioca su terreni più avanzati e normali, la novella è quasi come un brivido, inquietante più che mortale, e oltre che un brivido un presentimento, l'avvertenza di una debolezza, di una frattura di fondo. Qualcuno ha parlato dell'Angelo azzurro; sì certo, visivamente è il film di Visconti che ce lo ricorda in qualche scena e per quella specie di voluttà della degradazione, ma nel suo spirito più profondo è Th. Mann che ci ricorda il film di Sternberg (derivato dal romanzo del fratello Heinrich, del resto) e richiama altri nomi così vicini per geografia e mondo ideologico, come Svevo. I toni apparentemente leggeri e perfidi di Mann sorvegliano una più alta e rigorosa incisività di discorso. (…)
Autore critica:Giovan Battista Cavallaro
Fonte critica:Cineforum n. 102
Data critica:

4/1971

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Morte a Venezia (La)
Autore libro:Mann Thomas

A cura di: Redazione Internet
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