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Aria salata (L') -

Regia:Alessandro Angelini
Vietato:No
Video:
DVD:01
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti umani - Esclusione sociale, Diventare grandi, Giovani in famiglia
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura:Alessandro Angelini, Angelo Carbone
Fotografia:Arnaldo Catinari
Musiche:Luca Tozzi
Montaggio:Massimo Fiocchi
Scenografia:Alessandro Marrazzo
Costumi:Daniela Ciancio
Effetti:Pablo Mariano Picabea, PaoloVerrucci, Christian Gazzi
Interpreti:Giorgio Pasotti (Fabio), Giorgio Colangeli (Luigi Sparti), Michela Cescon (Cristina), Katy Saunders (Emma), Sergio Solli (Lodi)
Produzione:Donatella Botti per Rai Cinema – Bianca Film
Distribuzione:01 Distribution
Origine:Italia
Anno:2006
Durata:

87’

Trama:

Fabio, un educatore dei detenuti di Rebibbia, ritrova per caso all'interno del carcere suo padre, Luigi Sparti, che è stato condannato per omicidio e finge di essere epilettico per ottenere la semi-libertà. Fabio e Luigi non si sono più visti da quando l'uomo ha abbandonato il figlio, che all'epoca aveva solo 6 anni, ed è completamente ignaro del profondo legame che lo unisce a Fabio. Il giovane decide di aiutare il padre, ma quando scopre che spaccia droga all'interno dell'istituto penale si scontra con lui e gli rivela la sua identità. Padre e figlio iniziano un confronto che li porterà a confidarsi le reciproche sofferenze vissute negli anni di lontananza...

Critica 1:Alessandro Angelini è uno di quei cineasti «cresciuti» nella palestra del Sacher festival. È lì infatti che lo abbiamo scoperto, presentò nel 98 Fame for your name, un 'incursione nell'hip hop romano, e il documentario è il punto di partenza di questo regista spesso ospite anche al Torino film festival – Ragazzi del Ghana (2000); El Barrilete (2005). L'aria salata è la prima fiction «d'attori», Giorgio Pasotti, Michela Cescon e Giorgio Colangeli (una rivelazione), anche se il cinema di Alessandro Angelini si muove comunque sul confine, i suoi sono documentari impuri, che dispiegano messinscena, dunque evidenza di verità, in quell'onda del documentarismo più fertile degli ultimi decenni. Esperienza che entra nell'Aria salata, e anzi segna i momenti più forti e emozionalmente riusciti del film, opponendosi a rischi di retorica e eccessi di pathos familiare e personale. Visto che si parla di padri e figli, di una famiglia «disfunzionale» dove fratello e sorella (Pasotti e Cescon) sono stati cresciuti dalla madre nell'odio del padre. L'uomo è finito in galera per omicidio, la famiglia ha cambiato generalità e lo ha abbandonato. Non è insomma per caso se il ragazzo, Fabio, è educatore in carcere, quelli a cui nega permessi giustamente lo vorrebbero morto; lui è gentile, controllato, ineccepibile nel muro dei sentimenti, si preoccupa della sorella incinta e cassiera in un supermercato, scompare ogni tanto dalla bella e ricca fidanzata ... Finché non gli arriva davanti Sparti (Colangeli), fine pena mai, suo padre. Ci sono cose che funzionano meno nell'Aria salata, certe atmosfere, e soprattutto una fatica a sfumare i personaggi, «chiusi» nella propria immagine pure quando come è per Pasotti si sbriciola, obbligando a una lotta interiore. Angelini però sa sviscerare le tensioni di una realtà complessa, anche altra rispetto al suo cinema, nell'incontro padre-figlio, che era davvero difficilissimo tira fuori la concretezza e la sostanza della cattedrale familiare, ipocrisie, grettezza. E al tempo stesso entra con discrezione (cinematografica) nel terreno privato dei due personaggi, fatto di vuoti e di troppi silenzi impossibili da recuperare. Poi, o forse prima, c'è il carcere, L'aria salata però non è un film di «genere», scommette sull'essere in bilico, «dentro» e «fuori»: le famiglie, i figli, le mogli che ogni giorno vanno a trovare i detenuti con cui il personaggio di Pasotti lavora, la fatica di accettare quel carcere in «casa», di mettere insieme vita fuori e dentro. La violenza del dentro, i poliziotti che picchiano, ricattano come gli altri detenuti... E quella di un fuori che giudica e respinge a priori sviscerando prigioni mentali, la storia familiare del protagonista insegna.
Autore critica:Cristina Piccino
Fonte criticaIl Manifesto
Data critica:

12/1/2007

Critica 2:Un'opera prima italiana. Firmata da un giovane. Alessandro Angelini, che nonostante abbia realizzato finora solo alcuni documentari, dimostra di saper felicemente dominare il mezzo cinema, sia come tecniche sia come espressioni narrative. Sostenute da un'idea di base per nulla consueta, in equilibrio giusto fra il dramma, sempre controllato, e l'emozione asciutta e quasi sommessa. (...) Un confronto psicologico meditato e preciso. Con l'abilità, al momento della rivelazione di quel rapporto alla base, di evitare la commozione facile, privilegiando, al suo posto, una secchezza di modi e di accenti che è poi quella da cui tutto si lascia guidare. Con la possibilità di disegnare, anzi di scolpire, il contrasto spesso molto forte fra quei due caratteri, pur con quel legame familiare sempre ben presente, e con l'abilità di affidare ogni risvolto della vicenda, rinchiusa spesso in modo claustrofobico fra le pareti del carcere, a climi tesi e angoscianti, in grado di non concedere mai nulla al patetico o alla retorica, ma sempre indirizzati al contrario, a un risentito realismo di cronaca che, sugli atti e sui fatti, fa prevalere le psicologie, i loro turbamenti, i loro strappi. In atmosfere in cui la bella fotografia piena d'ombre di Arnaldo Cantinari diventa lo specchio, intimo e non di rado segreto, di quello scontro fra due personalità quasi opposte. Lo ricreano, con tocchi magistrali, Giorgio Pasotti, nelle lacerazioni e nelle speranze vane del figlio, e Giorgio Colangeli, nelle disperate asprezze del padre. Uno scontro che sa vibrare nel profondo.
Autore critica:Gian Luigi Rondi
Fonte critica:Il Tempo
Data critica:

18/10/2006

Critica 3:A chi chiedo perdono, io?», dice quasi urlando Sparti (Giorgio Colangeli) nella bella sequenza che chiude L'aria salata (Italia, 2006, 87'). Nelle sue parole c'è la domanda che troppo a lungo ha evitato di porsi. Prima ha ucciso, e poi ha abbandonato i suoi. Ancora peggio: s'è convinto a farli responsabili della sua stessa decisione di abbandonarli. «Sapevate dove stavo»: questo ha rimproverato a Fabio (Giorgio Pasotti) qualche giorno prima. Ed è stato come se d'un tratto in lui riemergesse l'astio cupo, il risentimento covato per vent'anni.
Non c'è simpatia, nell'assassino raccontato da Alessandro Angelini e dal cosceneggiatore Angelo Carbone. Il loro film tiene ben distante ogni sentimentalismo furbesco. La storia è spigolosa, crudele, e la sua durezza si specchia in una regia che si mantiene anch'essa spigolosa e crudele. E tuttavia è densa d'una commozione tenuta nascosta fra le immagini, difesa dal pudore che guida le parole e i comportamenti dei due protagonisti (e a questo pudore sanno dare voce e volto il bravo Pasotti e l'ottimo Colangeli).
Fabio è due volte solo. La sua prima solitudine è quella d'un figlio cresciuto nel vuoto lasciato dal padre. Da questa solitudine si affranca solo nella vicinanza tenera con la sorella Cristina (la brava Michela Cescon). E poi ce n'è un'altra, più sullo sfondo. La sceneggiatura la suggerisce nel rapporto tra lui ed Emma (Katy Louise Saunders). Lei ne soffre la spigolosità, il rifiuto d'accettare quello che le sembra solo la normalità della vita quotidiana. In particolare, soffre il giudizio che Fabio dà di suo padre (Simone Colombari), e dell'origine oscura dei suoi soldi. Lo rimprovera d'essere moralista, Emma, ma a noi sembra che sia solo attento alla moralità, senza concedere e senza concedersi sconti.
Fabio lo è sempre, morale, nel suo mestiere come nelle sue scelte di vita. Sta duro nella propria coerenza, e mai accetta di ingannare se stesso. Infatti, quando il padre di Emma gli offre una nuova auto e un nuovo lavoro — e dunque una nuova vita, più comoda —, lui sa riconoscere nel suo comportamento un tentativo di corruzione morale e rifiuta. Insomma, questa sua seconda solitudine misura la distanza che lo separa da un mondo che la sceneggiatura solo accenna, ma che lascia ben percepire. Da questo mondo Fabio s'è "scisso", quasi rifugiandosi nella durezza del carcere, e nell'immoralità esplicita dei detenuti.
Ed è lì, nel carcere, che la sua spigolosità s'incontra con quella dei padre. Angelini e Carbone sono attenti a non banalizzarlo - questo incontro - improvviso. Non ci sono urla né lacrime, quando Fabio fa la sua scoperta. E non c'è nemmeno falsa compassione. C'è invece rabbia, c'è desiderio di restituire almeno un po' il male ricevuto. E c'è la speranza di capire, di vedere non visto nella mente del padre. Infatti, per un po' non gli si rivela, ma solo lo interroga, lo incalza, lo tormenta. In Sparti c'è molto della coerenza dura del figlio. Come Fabio, anche lui non accetta d'ingannarsi. Dopo vent'anni di galera, potrebbe scrivere al figlio della sua vittima, potrebbe chiedergli perdono. In prospettiva, ne otterrebbe un vantaggio concreto: la fine anticipata della pena. E ne otterrebbe anche un vantaggio meno materiale, ma immediato. Darebbe un senso, a quei vent'anni, glielo darebbe anche se, dentro di sé, conoscesse la falsità, l'opportunismo della sua richiesta di perdono. Ma Sparti è sincero, e a suo modo morale. Lo è con tutta la rabbia accumulata negli anni, e nella lucidità con cui accetta il carcere e le sue leggi non scritte.
Un po'alla volta, i due tornano a incontrarsi, con le loro durezze e le loro coerenze. Fabio vince la sua rabbia, e lo fa senza perdonare, o almeno senza arrivare al padre attraverso il perdono. In lui accade il contrario: sente, vede il padre, e in questo suo vedere e sentire sta, implicito e forse neppure consapevole, il perdono. Meglio si farebbe a dire che si congeda dalla sua rabbia antica, e che si riconcilia con la sua storia.
Quanto a Sparti, anche lui arriva a vedere e sentire il figlio. Anche lui si congeda dalla sua rabbia. Ma non si riconcilia con se stesso. Non lo può fare perché, alla fine, scopre la sua responsabilità. Di fronte alla libertà sconfinata del mare, respirandone l'aria che odora di sale, avverte di nuovo il sapore della vita, della stessa vita che ha tolto a un uomo e che, in altro modo, ha rubato ai figli. Da qui nascono le sue ultime parole, disperate. A chi chiederà perdono? A chi avrà il diritto di chiederlo? La sua domanda già esclude che una risposta ci sia. Lo esclude perché, come nel figlio, anche in lui c'è una moralità profonda, esigente, una moralità che non accetta d'ingannarsi.
Autore critica:Roberto Escobar
Fonte critica:Il Sole – 24 Ore
Data critica:

21/1/2007

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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