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Crimini e misfatti - Crimes and Misdemeanor

Regia:Woody Allen
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video, Cecchi Gori Home Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Woody Allen
Sceneggiatura:Woody Allen
Fotografia:Sven Nykvist
Musiche:Brani di J.Sebastian Bach e Franz Schubert
Montaggio:Susan E. Morse
Scenografia:Santo Loquasto
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Woody Allen (Cliff Stern), Alan Alda (Lester), Mia Farrow (Halley Reed), Martin Landau (Judah Rosenthal), Claire Bloom (Miriam Rosenthal), Caroline Aaron (Barbara), Martin Bergmann (Prof. Louis Levy), Joanna Glenson (Wendy Stern), Anjelica Huston (Dolores Paley), Zina Jasper (Carol), Jenny Nichols (Jenny), Jerry Orbach (Jack Rosenthal)
Produzione:Jack Rollins - Charles M. Joffe
Distribuzione:Cdi
Origine:Usa
Anno:1989
Durata:

107'

Trama:

Il film presenta due storie parallele, che si svolgono nell'ambiente intellettuale ebraico di New York. Judah Rosenthal, allontanatosi dalla religione, nonostante gli insegnamenti ricevuti nell'adolescenza dal padre rabbino, è un maturo e ricco oculista, con una bella famiglia e una brillante carriera, però è assillato dalla nevrotica amante Dolores Paley, che non accetta di troncare il loro legame, ma pretende invece di vederlo consolidato, e perciò desidera incontrare Miriam, la moglie del partner. Ma Judah sa che Miriam non gli perdonerebbe mai l'adulterio, e perciò si difende con sotterfugi e bugie. Quando Dolores minaccia anche di rivelare alcune operazioni economiche irregolari, compiute da lui tempo addietro, egli si vede perduto, e accetta la proposta del fratello Jack, legato alla malavita, che gli ha offerto di far eliminare Dolores da un killer, senza correre rischi di sorta. La donna viene infatti uccisa, e l'assassinio attribuito ad un rapinatore pluriomicida: Judah può godersi di nuovo famiglia e successo, e sembra dimenticare il suo delitto, ma la coscienza glielo ricorda, insieme alle parole del padre sulla impossibilità di sottrarsi allo sguardo onnipotente di Dio. Cliff Stern, timido intellettuale, e modesto regista di documentari, al presente senza lavoro, avvilito anche a causa del suo matrimonio fallito, prova un vivo senso d'inferiorità verso il proprio cognato Lester, un produttore arricchitosi con lavori commerciali. Mentre Cliff porta stentamente avanti un film per lui importantissimo su un grande psicologo e pensatore, l'anziano professor Louis Levy, del quale ammira le profonde lezioni di vita, Lester lo incarica di girare un documentario che lo presenti al pubblico in modo lusinghiero. Sul set Cliff conosce Halley Reed, una giovane produttrice appena divorziata, della quale si innamora profondamente, ma, dopo molte speranze, costei si fidanza con l'odioso cognato. Quando poi Levy si suicida, perchè solo e privo di amori, Cliff è preso da sconforto. Egli e Judah si conoscono alle nozze della figlia del saggio rabbino Ben, ormai quasi cieco. In preda a cupi pensieri, i due si mettono a parlare insieme, e Judah racconta all'altro la storia del proprio delitto, come se fosse immaginaria. Dopo varie considerazioni, Cliff resta solo, più triste e pensieroso di prima.

Critica 1:Due storie parallele di un noto oculista perseguitato dall'amante finché un fratello assolda un sicario per toglierla di mezzo, e di un documentarista senza successo anche in amore. Dopo Shakespeare, Cechov e Fellini, sembra qui che W. Allen abbia in mente Dostoevskij con le sue domande angosciate sull'esistenza di Dio e del male, la punibilità dei delitti e la consistenza delle pene. Il tema latente il giovane rabbino che fa da punto di contatto tra le due storie è la cecità umana. Commedia di ironica amarezza senza catarsi, fotografata da Sven Nikvist. (…)
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(…) Comparendo quale attore per la prima volta dopo cinque anni, fondendo la vena più malinconica di Un'altra donna al film ad incastro genere Hannah o Radio Days, con quest'ultimo Crimini e misfatti Woody Allen perfeziona ulteriormente il proprio itinerario verso una poetica della schizofrenia. Poiché tutto, in questo film costruito sulla nozione dello sguardo (dei due protagonisti, uno è oculista e l'altro cineasta, il rabbino che fa da intermediario perde progressivamente la vista, l'amante aspira ad essere finalmente "vista", eccetera) si situa in antitesi.
Tragedia e comicità, per la prima volta nel cinema di Allen, coesistono infatti con volontà di radicale parallelismo all'interno di uno stesso film; due personaggi, uno in modo tragico, l'altro in maniera comica, incarnano quel sentimento di colpevolezza che è alla base di Crimini e misfatti. Un medico benpensante, socialmente e privatamente onorato, accetta progressivamente l'idea di sbarazzarsi di un'amante divenuta insopportabilmente ingombrante. Ed un cineasta del tipo cosiddetto impegnato, accetta il compromesso più vile: girare - per ragioni alimentari - un documentario sul fatuo regista di successo commerciale. Il quale, quasi non bastasse, finirà per far innamorare di sé l'intellettuale donna dei sogni del nostro delizioso perdente.
Due storie, quindi, due personaggi, due toni espressivi: che servono al regista per smorzare (vecchio procedimento del cinema comico), passando da un episodio all'altro, l'effetto drammatico quando diventa eccessivamente marcato. Due filoni che si sviluppano autonomamente sul tema (tipico della cultura ebraica alla quale Allen, come sempre, più che esplicitamente si riallaccia) della colpa e dell'espiazione: per ricongiungersi in un finale fin troppo casuale per non essere un tantino forzato (ed è proprio l'aspetto più discutibile del film, contribuendo a tingerlo di un leggero moralismo di maniera, che mal si concilia con la tradizionale leggerezza di tocco dell'autore).
Malgrado questa esitazione finale, il parallelismo di Crimini e misfatti, proprio perché lo sentiamo maturato sulle esperienze delle opere precedenti, non è però mai arbitrariamente introdotto. Quasi il regista ponesse costantemente uno sguardo retrospettivo alla sua opera, esso appare invece come un rifiuto a scegliere fra due strade: ma un rifiuto espresso in termini creativi e non inteso come accettazione di una impotenza espressiva. Sempre di più i suoi personaggi giocano di questo parallelismo per costruirsi artisticamente: grazie alla maturità registica di Allen, essi possono ormai costantemente proiettarsi dal mondo della realtà a quello della fantasia . Così, come quelli de La rosa purpurea del Cairo passavano dallo schermo alla platea, e cioè dal mondo della creazione a quello della quotidianità, così la Gena Rowlands di Un'altra donna accedeva ad un mondo diverso - e di difficile accettazione - ascoltando aldilà di un muro, ciò che stava accadendo ad un altro essere umano.
Così ora, sempre poiché guidati da un mano registica vieppiù' sapiente, essi possono permettersi, in Crimini e misfatti, di tenerci col fiato sospeso con il loro deambulare fra quelle due dimensioni: e tentare - inutilmente, come sappiamo - di sfuggire alla diversità di quei due mondi. Che sono poi quelli del proprio destino, del proprio passato, dei propri compromessi.
Eterno trasformista - proprio come quel Zelig al quale riusciva di mutarsi a seconda delle circostanze e delle necessità - il personaggio alleniano assomiglia quindi sempre di più al proprio burattinaio: nel suo rifiuto delle regole, nella sua volontà di sfuggire ai condizionamenti del mondo che lo circonda, al peso della tradizione e del conformismo sta la sua disperazione e la sua vitalità. In due parole, il suo essere moderno.
Autore critica:Fabio Fumagalli
Fonte critica:rtsi.ch/filmselezione
Data critica:

15/12/1992

Critica 3:Di primo acchito, Crimini e misfatti potrebbe sembrare una delle pause meditative, drammatiche con le quali Woody Allen usa intercalare fin dai tempi di Interiors le proprie commedie. Di recente i film «seri» si sono fatti più ravvicinati (Settembre è del 1987 e Un'altra donna del 1988) e Crimini e misfatti rappresenta secondo me un punto d'arrivo, probabilmente uno dei più importanti, nell'evoluzione dell'autore. Una specie di Hannah e le sue sorelle in nero, è la sintesi finalmente raggiunta, sul piano della struttura narrativa e del tono, non delle presunte, inesistenti
«due anime» di Woody Allen, ma dell'istintiva disperazione comica e della costante, tormentosa «tentazione» drammatica. In un clima comunque regolato da un'autodisciplina ferrea, il dramma sembra essere servito all'autore soprattutto per fare il punto delle proprie idee e della propria evoluzione morale. E non c'è dubbio che, con tutta l'ammirazione che si può avere per lo stacco netto di Interiors e la comprensione per la battuta d'arresto di Settembre, le commedie di Allen siano (almeno da Amore e guerra in poi) strutturalmente e narrativamente superiori ai film seri. Le commedie mettono in piedi un universo umano e cinematografico articolato e in continua evoluzione, mentre i drammi, d'interni appunto, segnano il passo, sintesi teoriche più che momenti di crescita immaginaria. Già Un'altra donna aveva uno scarto diverso. Un'altra donna faceva piangere; abdicava alla tenerezza e alla malinconia (che sono le cifre emotive dominanti in Allen) a favore di una commozione profonda e terribile. E, sul piano propriamente cinematografico, usciva dalle camere chiuse di Interiors e Settembre attraverso un uso esemplare delle immagini e delle suggestioni rielaborate dalla memoria. Il passaggio rappresentato da Crimini e misfatti è fondamentale per almeno due motivi: per la prima volta Woody Allen riesce a coniugare, per l'intero arco di un film, la commedia e la tragedia e a estendere il senso tragico oltre i confini di una storia privata (un'operazione che lo aveva visto sempre perfettamente a suo agio nella rappresentazione comica delle nevrosi). E sono proprio la forma e la struttura narrative a compiere il passo avanti, nel senso che per la prima volta gli incastri apparentemente casuali di personaggi e situazioni (base strutturale delle migliori commedie alleniane) costruiscono un dramma, che non a caso si concede anche agli esterni e a un intreccio più articolato della seduta psicanalitica o del «nido di vipere» nel salotto borghese o dell'ossessiva introspezione bergmaniana. Col che, non voglio togliere nulla a queste ultime soluzioni; semplicemente, mi sembra che l'Allen maggiore sia quello degli incontri, dei percorsi incrociati, delle persone che incappano l'una nell'altra, si perdono, si ritrovano dopo anni, si innamorano, si lasciano, vanno al cinema e a trovare i parenti, e tessono così una rappresentazione contemporanea, certo socialmente delimitata, ma assolutamente precisa sul piano dell'interpretazione morale e affettiva. Chiuso come Hannah e le sue sorelle tra due grandi feste familiari (o quanto meno «di gruppo»), Crimini e misfatti sceglie di seguire le storie parallele ed esemplari di due personaggi che, pur appartenendo alla stessa comunità etnica e culturale e allo stesso ambiente sociale, non si conoscono e si incroceranno occasionalmente solo alla fine. L'essenzializzazione è massima: molto di quello che altrove rappresentava il punto d'arrivo della storia qui è già successo. Le relazioni si sono già consumate (forse, perfino quella di Halley e Cliff, in tanti film precedenti, in Annie Hall e Manhattan), le carriere, le professioni, le ambizioni già incanalate, fallimenti e successi ormai definitivi. Persino i caratteri, i difetti, le ambiguità, il cinismo nascosto dalla rispettabilità non sono l'oggetto dello svelamento e della progressione drammatica, come erano invece (bergmanianamente appunto) nei film drammatici. Il film non racconta la storia morale dei personaggi, ma l'impossibilità attuale di raccontare una storia morale, di elaborare la tragedia. E, privato dell'idea tragica, il comico può solo annaspare, dimezzato. «Tragedia più tempo», definisce Lester il comico, con una certa grossolana correttezza, ma senza minimamente soffermarsi a pensare alle implicazioni della definizione. Tempo per decantare, certo, ma anche tempo per valutare l'entità del dramma, tempo storico, tempo della memoria. Ma qui la memoria restituisce solo spezzoni disarmonici, cui certamente non corrisponde una consequenzialità delle azioni e, quel che è più agghiacciante, dei sentimenti. Il depositario della memoria storica, il professor Levy, che sulla base di questa (e contro questa) ha elaborato un armonico sistema filosofico, ricorda e vede tanto bene da suicidarsi (con la più grande battuta del film). E se Cliff continua a contestare l'inutilità e l'infelicità dei suoi principi, tutti gli altri continuano a contraddire, non tanto i dati dell'esperienza, quanto la maturazione della coscienza (tranne Jack, il fratello di Judah, che è l'unico ad avere le idee altrettanto chiare del professor Levy sul nostro mondo).
«A noi, dopo la nostra nascita, è necessario tantissimo affetto alfine di persuadersi a rimanere invita; una volta ricevuto, quell'affetto generalmente permane. Ma l'universo é un luogo assolutamente freddo. Noi investiamo in esso i nostri sentimenti e, in determinate condizioni, sentiamo che il gioco non vale proprio la candela». La forma di Crimini e misfatti è lo specchio fedele dell'universo freddo del professor Levy, una superficie piatta (senza alcun mondo nascosto dietro) che rimanda le fisionomie senza spessore di personaggi nei quali, fino a un film fa, Woody Allen si era ostinato a rintracciare la possibilità di pensieri ed emozioni profonde. Se in Zelig e Broadway Danny Rose (che pure sono due film immensamente tristi) la ricomposizione avveniva all'insegna dell'affinità morale e della solidarietà di gruppo, qui è tutta nel gelido e trionfante riconoscimento (e autoriconoscimento, il che è peggio) di un'immagine di pura superficie. I soliti luoghi e i soliti volti, appaiati e alternati con ostinata, cronachistica casualità: neppure New York è più un posto tanto magico, e non è un caso che in Crimini e misfatti non compaiano stregoni, illusionisti e artisti o che, comunque, non sappiano più fare miracoli. La riconoscibilità immediata consente ad Allen di andare immediatamente al cuore della narrazione, tracciandone i contorni con poche secche linee, una lettera, un paio di flashback, qualche battuta tra Cliff e la nipote e Cliff e la moglie, la sola presenza di Lester. La successione delle scene, certamente spiazzante, è matematica; quando, circa a metà film, a omicidio avvenuto, ci accorgiamo che il film non ci sta raccontando delle storie, ma il risultato delle storie precedenti di ognuno, il puzzle va automaticamente a posto. Ben diventa cieco (e la sua presenza immaginata non serve a cambiare il cuore di Judah) e Levy si uccide (negando così la speranza che la sua immagine riprodotta trasmetteva a Cliff). I film, anche quelli di una volta, non aiutano più a vivere. Sono passati i tempi in cui si poteva conquistare il cuore di una donna con una copia a 16 mm di Cantando sotto la pioggia. La familiarità consente ad Allen di negare con una tristezza infinita tutte le piccole illusioni, tutti gli accorgimenti privati che permettevano ai protagonisti degli altri film di sopravvivere con silenziosa dignità. Certo, c'è quella frase finale di Levy sul valzer sconsolato di Ben cieco e di sua figlia: «La felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione. Siamo solo noi con la nostra capacità di amare che diamo significato all'universo indifferente. Eppure, la maggior parte degli esseri umani sembra avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici, nel loro lavoro, nella loro famiglia, e nella speranza che le generazioni future possano capire di più». Ultimi accordi, applausi degli invitati, buio. Ma l'immagine conclusiva che si fissa nella memoria, dopo il congedo fatuo e incredibile dei Rosenthal, è quella di Cliff solo, perduto nelle ultime battute in penombra di quella festa, tutta pagata da Lester.
Autore critica:Emanuela Martini
Fonte critica:Cineforum n. 294
Data critica:

5/1990

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

A cura di: Redazione Internet
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