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Urla del silenzio - Killing Fields (The)

Regia:Roland Joffé
Vietato:No
Video:Multivision, San Paolo Audiovisivi
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Mass media
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Bruce Robinson, tratto dall romanzo "La morte e la vita di Dith Pran" di Sydney Schanberg
Sceneggiatura:Bruce Robinson
Fotografia:Chris Menges
Musiche:Mike Oldfield
Montaggio:Jim Clark
Scenografia:Roy Walker
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Sam Waterston, Tom Bird, Julian Sands, John Malkovich
Produzione:Enigma Production
Distribuzione:Pic
Origine:Gran Bretagna
Anno:1984
Durata:

143'

Trama:

Sidney Schanberg, giornalista del "New York Times" viene mandato nel 1972 in Cambogia, per seguirvi la guerra tra i Kmer rossi ed il governo di Lan Nol e là si avvale del dott. Dith Pran (un laureato in chirurgia), come guida ed interprete. Tra i due si stabilisce un profondo rapporto di stima e di amicizia. Divenuti inseparabili e dopo aver insieme realizzato servizi assai importanti, i due si trovano il 17 aprile 1975 a Pnom Penh, quando i "liberatori" occuparono la città nel momento del generale smarrimento, preludio a tutte le ferocie e violenze che stavano per scatenarsi sugli sventurati (e in quel momento festanti) cambogiani. Pran riuscì a salvare la vita di Schanberg e quella di alcuni giornalisti occidentali i quali, dopo interrogatori ed umiliazioni da parte dei Kmer, poterono trovare asilo nella sede dell'Ambasciata francese. Al momento di partire in elicottero in direzione degli Stati Uniti e malgrado gli sforzi di tutti per assicurare a Pran un falso passaporto, questi rimase nel suo Paese, perduto nella folla di compatrioti, che già i Kmer avviavano, tra insulti e malvagità indicibili, verso la frontiera vietnamita. Internato in un campo di lavoro, sottoposto come tutti a massacranti fatiche, ad inaudite vessazioni ed al sì ben noto indottrinamento politico, Pran riuscì a fuggire e ad arrivare, dopo stenti e pericoli incessanti, in un campo della Croce Rossa thailandese. Rientrato dal canto suo a New York, dove nel frattempo giungevano dalla Cambogia notizie tragiche (sterminio da parte dei Kmer rossi di almeno tre milioni di persone), Sidney non cessò un istante le sue ricerche dell'amico Pran in tutte le sedi e presso tutte le Organizzazioni possibili. Nel 1976 egli vinse il premio Pulitzer per le sue corrispondenze di guerra ma, al momento dell'assegnazione, egli, premesse alcune coraggiose dichiarazioni e valutazioni sulla politica USA in Cambogia, pubblicamente attestava di ritirare il premio - condividendo - anche a nome dell'uomo che in Cambogia si era rivelato un ottimo giornalista ed una persona straordinaria. Sidney, che sempre avvertiva un senso di colpa per aver rimesso a Pran la scelta fra il restare nel proprio Paese o il lasciarlo insieme a lui, fu infine premiato nei suoi sforzi. L'incubo che gli davano le sue ansie e i suoi rovelli finì il 9 ottobre del 1979, quando, essendo stato Pran finalmente identificato e ritrovato, potè volare in Thailandia ed ivi riabbracciare l'amico. La storia è autentica e i due giornalisti vivono oggi, con le rispettive famiglie, ambedue a New York, lavorando sempre al "New York Times".

Critica 1:Interamente girato in Thailandia, è coraggioso, anticonformista e crudele per certi aspetti, soprattutto nella prima parte. Le responsabilità del governo USA di Nixon nella catastrofe non sono taciute. Scritto da Bruce Robinson. 3 Oscar: attore non protagonista (H.S. Ngor), fotografia (Chris Menges), montaggio (Jim Clark).
Autore critica:
Fonte criticaKataweb Cinema
Data critica:



Critica 2:Urla del silenzio è un film politico, ma alla maniera angloIsassone. Non pretende di spiegare: racconta. Il produttore David Puttnam e lo sceneggiatore Bruce Robinson hanno voluto prendere a modello i reportages di lingua inglese, limitandosi a compensare la mancanza di emotività di quelli con l'introduzione di due personaggi, Syd e Pran, e la storia della loro amicizia. Ne dovrebbe risultare un quadro composito, capace di mettere in grado lo spettatore di assolvere in prima persona ai compito che il film politico dovrebbe adempiere: quello di capire e spiegare. Naturalmente Robinson opera con le cautele del caso: la Cambogia è lontana, e gli avvenimenti narrati distano ormai dieci anni. Didascalie, voci fuori campo, televisori, videoregistratori sono chiamati a supplire a ciò che il film non può dire attraverso azione e dialogo. Una scelta felice sul piano cinematografico, esile su quello didattico. C'è lo spettacolo, non l'adeguata esposizione degli avvenimenti. Inoltre, del giornalismo americano di Schanberg, Robinson raccoglie presunzione e univocità. L'inviato dei “New York Times” esercita il suo lavoro nei rigidi parametri impostigli dalla sua ambizione e dalla committenza. L'accesso alla prima pagina ne condiziona ogni interesse: protagonista dei reportages non sarà mai la Cambogia, ma la provincia estrema dell'impero (anche se per criticare imperatore o proconsole). Protagonisti non i cambogiani, ma i coloni o i piloti americani. Robinson fa suoi gli interessi di Schanberg e ne condivide l'impegno critico: la Cambogia di Urla del silenzio è il palcoscenico di un dramma dove l'imperialísmo dibatte le sue colpe, ma non sa confrontarsi con una realtà diversa. Prigioniero di questa visione, lo sceneggiatore ripete con Schanberg che tra le cause della follia omicida dei khmer rossi figurano le tonnellate di bombe gettate sul martoriato paese. Bombe che avrebbero finito col distruggere tutte le strutture sociali, politiche ed emozionali del paese. Ancora una volta “il sonno della ragione genera mostri”. Dice Schanberg (nel film e sulle colonne dei proprio giornale) a chi gli chiede conto del perché avesse sottovalutato il pericolo della presa del potere da parte dei khmer rossi: “Abbiamo sottovalutato la follia che potevano produrre le tonnellate di bombe sganciate dai B-52”.
Certamente un inconscio meccanismo di vendetta contro l'ideologia assassina e rapinatrice dell'imperialismo figura tra le cause della follia omicida dei khmer rossi, ma non ne determina la sostanza. Il nazionalismo esasperato del Kampuchea democratico (questo il nome ufficiale della Cambogia di Pol Pot) è reazione e riproduzione del colonialismo solo in seconda istanza. Scrive giustamente Michael Vickery nel suo saggio “Cambogia 1975-82” che la comprensione di una tragedia di simili proporzioni non può prescindere dalla comprensione della realtà di tutto un paese. Vickery cerca così di esplorare, accanto alla Cambogia delle città, la sola scandagliata dagli Schanberg, quella fertile di riso e di fede buddista attorno al lago Tonle Sap, e quella delle isolate province sud - occidentali, terra di arbitrio, violenza e povertà, non casuale scuola dei quadri della rivoluzione. Liberando e inquadrando le spinte primitive tra contadini poveri e analfabeti, Pol Pot, Khieu Samphan e altri intellettuali, educati alla Sorbona e al culto dell'estetismo radicale, riuscirono a comporre un esercito di fanatici vestiti di cotone nero e con una fascia a quadretti rossi e bianchi, pronti ad inseguire un'aberrante concezione di comunismo teso a distruggere con la proprietà privata anche la religione, l'organizzazione statale, la struttura familiare, e perfino la memoria individuale (la “malattia dei ricordi” che i bambini - guerriglieri diagnosticano agli adulti).
L'angusto angolo di visuale proposto dal film è frutto di un empirismo elevato a ideologia, e, a dispetto della democraticità dei proclami, sconfina nell'involontario razzismo. La Cambogia del film non è più il paesaggio esotico celebrato come dolce dalle guide turistiche, ma diventa una palude infernale popolata da mostri. L'uno e l'altra, tuttavia, ugualmente mistificatori. Due immagini ugualmente prevaricatrici della realtà di un popolo, se a questo viene lasciato addosso il vecchio bavaglio imposto dalla colonizzazione. Sbugiardare Nixon e criminalizzare l'imperialismo può essere opera meritoria, ma non equivale a esprimere la tragedia di un popolo come il film pretende di fare. Due o tre milioni di morti su una popolazione di sette milioni di abitanti (questo il bilancio approssimativo di quanti in tre anni furono uccisi dai khmer rossi o dagli stenti) esigevano altre domande e altre risposte. Sino ad oggi, a parte un documentario televisivo dello jugoslavo Mihoviiovic, unico osservatore straniero ammesso a raccogliere immagini negli anni di Pol Pot, documentario apparso anche sui teleschermi Rai, ci sono solo testimonianze scritte su quel periodo. Urla del silenzio non ha saputo occupare lo spazio vuoto.
Gli autori hanno cercato di sfuggire al pericolo di uno strisciante razzismo affidando a un cambogiano il ruolo di coprotagonista. Eppure Dith Pran non riempie mai di sé lo schermo, neppure quando regge quasi da solo tutta la seconda parte del film. La sua figura è complementare a quella di Schanberg: perfino quando, durante la prigionia, raccoglie pensieri ed emozioni si dà come immaginario interlocutore non la famiglia lontana ma l'amico americano. E l'inglese, inevitabilmente, si trova ad essere la lingua privilegiata anche per esprimere i sentimenti. Il dato cronachistico che vede un giornalista cambogiano usato come informatore e interprete dal collega americano intenzionato a violare la strategia dei cambogiani non viene mai ridiscusso. Tutt'altro. Nel film, Pran esiste solo, cioè è dotato di parola, quando vive come ospite nel mondo occidentale. È un uomo dimezzato o, se si preferisce, amico di un uomo (e la maschera dell'attore cambogiano Haing S. Ngor, perfetta nel lasciare trasparire solo dolore e mestizia, fìnisce per evocare l'immagine dei cane bastonato). Anche Pran è di fatto muto quando agisce da cambogiano tra i cambogiani. Ai suoi danni, dunque, si esercita la stessa sopraffazione, anche se dimezzata, che colpisce il movimento rivoluzionario.
Nel già citato Un anno vissuto pericolosamente, anche l'inviato Guy Hamilton assolda un pesce - pilota locale, Billy Kwan, il fotoqrafo nano. Ma l'indonesiano non vive solo di luce riflessa. È un androgino inquietante e segreto che non si limita a salvare l'inviato dal naufragio in terra straniera, ma è il cervello di una pantomima politica - religiosa, una sorta di sacerdote del caos, il capro espiatorio dell'intolleranza. Pran, invece, stabilisce con Syd un rapporto di dipendenza che il film provvede addirittura a idealizzare: l'ovvia considerazione che il cambogiano si adatti a fare da guida a un americano nel museo khmer degli orrori solo per avere gli indispensabili dollari non è neppure accennata. Joffé e Robinson preferiscono far credere ad affinità elettive e corrispondenza di sentimenti. Il tutto innaffiato da lacrime.
Alla base dei film c'è la scommessa dell'individuazione dei punto d'equilibrio tra storia individuale e storia collettiva. Scommessa improba perché quel punto è estremamente labile. La prima parte, tesa a presentare protagonisti e paesaggi (paesaggi sui quali la tempesta si limita a incombere) ha uno sviluppo lineare sapientemente costruito; la seconda, cioè i racconti paralleli della rivoluzione dei khmer rossi e della separazione tra Syd e Pran, rivela notevoli scompensi con manifesti danni sul piano documentario e spettacolare.
L'inizio dei film raccoglie le migliori intuizioni a livello di sceneggiatura e regia. La febbrile attività dei corrispondenti di guerra a Phnom Penh trova puntuale e diretto riscontro negli attentati e nei bombardamenti. Le note critiche appaiono convincenti sia quando si appuntano sulla piccola comunità straniera che vive della guerra sia quando infieriscono sulla politica americana in Indocina. L'abilità di Robinson di far interreagire dialogo e azione consente a Joffé l'esibizione di un alto professionismo. Il film ritrae a perfezione l'atmosfera della capitale cambogiana nella prima metà degli anni Settanta, sospesa tra un passato detestato e un futuro incerto. Ci sono sequenze degne degli anni d'oro di Hollywood: la visita a Neak Luong appena bombardata, l'arresto dei giornalisti e la suspence sulla loro sorte, il tentativo fallito della falsificazione del passaporto di Pran, la consegna dei collaborazionisti ai khmer rossi. Degne di figurare in un'antologia sono infine le scene dell'evacuazione di Phnom Penh. Joffé, reduce da esperienze televisive, fa
scorrere la cinepresa tra la folla come una telecamera a mano. Cattura con concitazione dettagli e quadri d'assieme. Sottolinea con le musiche di Mike Oldfield una tensione priva di retorica, perfino quando, sull'esempio del primo Resnais, introduce coro e solisti. Infine impiega creativamente il montaggio: i quattro elicotteri che tagliano il cielo, mentre la gente accorre all'eliporto improvvisato, valgono l'intero stormo impiegato da Coppola in Apocalypse Now (id, 1979). La seconda parte del film disperde quest'equilibrio: più indugia sulle tragiche vicende della nazione più riduce l'interesse che circonda i personaggi. è ben vero che il rapporto tra Syd e Pran viene travolto da cause storiche e che pertanto è tecnicamente ovvia l'interpolazione tra la vicenda corale e quella individuale; ma è altrettanto vero che la prima, nella sua enormità, mortifica il valore della seconda. Ben diversamente da Joffé, avevano lavorato su storie affini per datazione e localizzazione Cimino nel Cacciatore (The Deer Hunter, 1978) e Coppola in Apocalypse Now. Per strade diverse, entrambi erano riusciti a fondere Storia e storia in maniera assai più persuasiva: il primo privilegiando il dramma privato, il secondo riducendo tutto alla tragedia collettiva. Nel Cacciatore l'escursione in Vietnam degli operai della Pennsylvania costituisce una discesa agli inferi dai tratti volutamente antinaturalistici. L'attenzione di Cimino è tutta rivolta ai protagonisti della storia, all'esame delle ferite con cui ciascuno torna dal “suo” Vietnam. Apocalypse Now corre in direzione opposta: non il guerriero (e, tantomeno, il cacciatore) è il protagonista, ma la guerra come rappresentazione di un incubo. La risalita dei fiume alla ricerca di Kurt è un'esaltazione della realtà dell'immagine come dimensíone totalizzante entro cui si ricompone ogni altra realtà.
Gli autori di Urla del silenzio non hanno ignorato il rischio dell'accumuio di materiali disomogenei e hanno puntato ad illuminare la tragedia attraverso l'esaltazione dell'amicizia virile. Il montaggio alternato delle scene che ritraggono Pran in balia dei khmer rossi con quelle che hanno per protagonista Syd, premiato negli Usa per i suoi reportages, ma tormentato dal rimorso, lo suggerisce senza ombra di dubbio. E tuttavia questa scelta stilistico - espressiva, protratta così a lungo, non può non rivelarsi meccanica. Per risultare convincente, avrebbe dovuto essere temperata da un recupero di un denominatore comune, cioè da un'accentuazione antinaturalistica nella cronaca dell'amicizia o da una dichiarata antispettacolarità nel momento storico. Joffé opera in entrambe le direzioni ma senza convinto impegno. E così, da una parte, l'irrompere della romanza “Nessun dorma”, mentre Syd ripensa a Pran inghiottito dalla furia rivoluzionaria, resta solo una dichiarazione d'intenti, mentre, dall'altra, la descrizione dei massacro operato dai khmer rossi, pur soffrendo di reticenze che violentano lo scrupolo espositivo dei film, viene suggerito nella sua interezza.
L'epilogo, che vede il commosso abbraccio dei due protagonisti, sana solo artificiosamente la frattura espositiva. Risponde infatti più a soddisfare la domanda consolatoria attribuita alla platea che a riassumere la conclusione di un processo storico. Gli autori avvertono l'inganno e si premurano di ricordare, in una didascalia finale, che oggi, mentre i protagonisti lavorano assieme negli Stati Uniti, i campi profughi in Thailandia sono tuttora affollati da cambogiani. Ma questa didascalia tradisce, una volta di più, la preoccupazione di ristabilire il collegamento tra il privato e il politico, senza risolvere la frattura iscritta nella sceneggiatura.
Autore critica:Giorgio Rinaldi
Fonte critica:Cineforum n. 243
Data critica:

4/1985

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Morte e la vita di Dith Pran (La)
Autore libro:Schanberg Sydney

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