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Figlio (Il) - Fils (Le)

Regia:Jean-Pierre Dardenne; Luc Dardenne
Vietato:No
Video:Medusa
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Disagio giovanile, Il lavoro
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
Sceneggiatura:Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
Fotografia:Alain Marcoen
Musiche:
Montaggio:Marie-Helene Dozo
Scenografia:Igor Gabriel
Costumi:Monic Parelle
Effetti:
Interpreti:Olivier Gourmet (Olivier), Morgan Marinne (Francio), Isabella Soupart (Magali), Nassim Hassaini (Omar), Remy Renaud (Philippo), Kevin Leroy (Raoul), Felicien Pitsaer (Steve)
Produzione:Les Films du Fleuve - Archipel 35 - Radio Television Belge Francofone
Distribuzione:Lucky Red
Origine:Belgio - Francia
Anno:2002
Durata:

103'

Trama:

Chi è quel ragazzo di nome Francis? Se Olivier si rifiuta di prenderlo nella sua officina, perché ha cominciato a seguirlo nei corridoi del centro di formazione, per le strade, nel suo palazzo? Perché è così interessato a lui? Perché sembra così dispiaciuto per lui? Per tenere a bada la disperazione Oliver da anni trasmette a ragazzi che potrebbero essere suoi figli la sua abilità nella falegnameria. Perchè la paternità è anche questa sapienza trasmessa e se a Oliver manca un figlio a Francis manca un padre.

Critica 1:I Dardenne usano una scala ottica inconsueta: stanno con le immagini addosso ai personaggi come se dovessero rubare loro l'anima per stamparla sullo schermo e permettono così allo spettatore di cogliere il movimento dei corpi, l'essenzialità dei gesti. Olivier Gourmet, attore da sempre complice dei fratelli registi, fa il resto. (...) Le fils è anche un giallo, è un intreccio a chiave che appaga lo spettatore; ma soprattutto è un frammento di un cinema che non assomiglia a nessun altro.
Autore critica:Andrea Martini
Fonte criticaIl Giorno
Data critica:

24 maggio 2002

Critica 2:Macchina a mano sempre in movimento, primi e primissimi piani molto spesso di spalle, nemmeno una nota in tutto il film ma una vera partitura di musica concreta per martello, sega e trapano, i rumori che scandiscono la giornata di un carpentiere, Le fils cinge d'assedio Olivier fino a farci quasi ascoltare i suoi pensieri. E quella che potrebbe sembrare una regia casuale, da reportage, nasconde una consapevolezza totale. Abbiamo confrontato gli appunti presi in sala con quelli dei Dardenne: liberi di non crederci, ma sono quasi le stesse parole. La nuca, gli occhiali, quel metro che misura la distanza fra Olivier e Francis, i corpi sempre in pericolo in cima alle scale, fra le assi pesanti e scivolose. E sotto a tutto questo la colpa, il rimorso, la paura, la vendetta, il perdono. Non si può chiedere di più.
Autore critica:Fabio Ferzetti
Fonte critica:Il Messaggero
Data critica:

24 maggio 2002

Critica 3:Ci sono autori di cinema che crescono gradualmente e raggiungono il cinema che sognano o inseguono attraverso tentativi e sperimentazioni, ce ne sono tantissimi - la maggior parte - che non lo raggiungono mai, ce ne sono altri che lo trovano sin dalle prime immagini dei loro film. Una forma inconfondibile e cristallina che si riconosce come il suono di uno strumento o il rumore di una macchina. I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, che hanno già vinto a Cannes con Rosetta, appartengono a questa categoria di creatori di film che possiedono qualcosa che somiglia all'infallibilità dell'istinto animale. Il film che hanno presentato a Cannes, Il figlio, che ha catturato la platea dei giornalisti e dei critici per tutti i suoi 103 minuti, alla fine dei quali sono sgorgati lunghi applausi, lo conferma con orgogliosa caparbietà. Tra rumori disturbanti di seghe elettriche e percussioni di assi e metalli, ne è protagonista Olivier Gourmet (anche nel film, Olivier), una faccia da proletario operoso e miope che in La promessa, il film che ha messo in luce i due registi belgi, era un padre padrone, sfruttatore privo di scrupoli di extracomunitari e che nel Figlio, invece, è un maestro falegname, esperto di legnami e carpenteria, che sin dalle prime immagini, è incalzato da una macchina a mano che lo segue nervosamente, a scatti, nei suoi continui soprassalti di allarme e motricità senza sosta. Cosa lo angoscia? Lo scopriamo solo dopo una mezz'ora: nel centro di apprendimento di ebanistica e falegnameria che accoglie giovani disadattati per la riabilitazione e il reinserimento, si trova ora il ragazzo che è uscito dal carcere giovanile dopo aver ucciso un bambino mentre tentava il furto di una macchina. Quel bambino era il figlio di Olivier. E' una tragedia sufficiente ad aver dissolto il suo matrimonio (la moglie gli comunica che sta aspettando un figlio dal suo nuovo compagno) e ad aver piegato il suo carattere nelle forme di un manufatto introverso, scheggiato e solitario. L'obiettivo dei Dardenne è quasi sempre a qualche centimetro dalle sue spalle, la macchina rincorre le sue sortite e le sue fulminee ritirate cercando, a fatica, di non farsi seminare. In una scena di improvvisa e fulminea intensità, la moglie lo aspetta all'uscita dal lavoro, sconvolta, dopo aver saputo che egli ha accolto nel centro il ragazzo che ha ucciso il loro figlio, senza che il giovane assassino, uscito dopo cinque anni di reclusione, sappia che Olivier è il padre del bambino che ha strangolato. "Che cosa pensi di fare? Chi ti credi di essere?". Sono le domande che farebbe chiunque al suo posto. Olivier e il ragazzo hanno occhi come ferite di coltello, una volpe ed una lince. Il ragazzo è pieno di torpore (prende sonniferi per dormire), come perenne convalescente di qualcosa, duttile come un legno morbido pur di ricevere qualcosa che gli faccia sperare di poter ambire ad un posto nel mondo. Olivier alterna risentimento represso a desiderio disperato di capire, il sogno mai sopito dell'inutile risarcimento della vendetta alla ricerca faticosissima e altrettanto vana dell'accettazione e della pietà. Quel ragazzo è allo stesso tempo l'unico residuo possibile che lo leghi ad una perdita che non ha mai accettato e la sua causa. L'inquadratura che i Dardenne stringono addosso ad Olivier, non è mai abbastanza larga perché il mondo circostante ci distragga dall'inferno muto che gli ribolle dentro. Un tormento così insanabile da non riuscire mai a trovare la strada per incrinare lo sgomento della sua impassibilità. I due registi sono grandissimi in quei rari momenti in cui registrano il suo sconcerto e imbarazzo, di fronte alle richieste di paternità del teenager ex assassino. Timidissime, amare, senza speranza, rovinose, per il protagonista come per lo spettatore. Nel finale, la colluttazione seguita alla confessione ("Sono l'uomo di cui hai ucciso il figlio"), lo scontro dei corpi e la condivisione del lavoro, daranno luogo ad una riconciliazione che nessuno, né il carcere, né la società, avrebbe potuto istruire tranne i protagonisti. I due fratelli Dardenne, vicini alla cultura cattolica, hanno celebrato il mistero del perdono e del pentimento, senza una parola che ne teorizzi la morale, una riflessione che ne sporchi l'evidenza drammatica, una immagine che, con la sua ricercatezza o la sua finzione, ne offenda la scandalosa disperazione.
Autore critica:Mario Sesti
Fonte critica:Kwcinema
Data critica:



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