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Hollywood Party - Party (The)

Regia:Blake Edwards
Vietato:No
Video:Mgm Home Entertainment (Gli Scudi)
DVD:
Genere:Commedia
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Blake Edwards
Sceneggiatura:Blake Edwards, Waldmantom Waldman
Fotografia:Lucien Ballard
Musiche:Henry Mancini
Montaggio:Ralph E. Winters
Scenografia:Fernando Carrere
Costumi:Jack Bear
Effetti:Norman Breedlove
Interpreti:Peter Sellers (Hrundi V. Bakshi), Claudine Longet (Michele Monet), Natalia Borisova (Ballerina), Jean Carson (Nanny), Marge Champion (Rosalind Dunphy), Corinne Cole (Janice Kane), Al Checco (Bernard Stein), Dick Crockett (Wells), Danielle De Metz (Stella D'Angelo), Stanley Herb Ellis (regista), Steve Franken (Levinson), Kathe Green (Molly Clutterbuck), Sharron Kimberly (Principessa Helena), James Lanphier (Harry), Buddy Lester (Davey Kane), Gavin MacLeod (C. S. Divot), Jerry Martin (Bradford), Fay McKenzie (Alice Clutterbck), Edward McKnley (Fred Clutterbuck), Denny Miller (Wyoming Bill Kelso), Elayne Nadeau (Wiggy), Carol Wayne (June Warren), Timothy Scott (Gore Pontoon)
Produzione:Blake Edwards per Mirisch Geoffrey Production
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Usa
Anno:1968
Durata:

98'

Trama:

Marginale comparsa in un film, il maldestro attore di origine indiana Hrundi V. Bakshi distrugge con una serie di caotiche azioni il set. Invitato per sbaglio ad una cena di gala offerta nella propria villa dal produttore del film, l'attore pasticcione e imbranato commette gaffes a ripetizione, finendo con il distruggere la villa.

Critica 1:Dopo aver sabotato con la sua distrazione un'importante ripresa di un film, un modesto attore di origine indiana è invitato per sbaglio a un party nella lussuosa villa di un produttore dove combina un guaio dietro l'altro. È il capolavoro di Edwards, uno dei grandi film comici sonori, una delle migliori interpretazioni di Sellers. Continua e rinnova la grande tradizione del burlesque americano, integrandola con una vena di autentica tenerezza (evidente nell'ambivalenza del personaggio principale) e una dimensione di puntigliosa critica sociale di costume. La catena delle irresistibili invenzioni comiche sfocia in un finale delirante e catastrofico che sconfina nell'onirico.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:The Party, metafora cristallina, ad ampie venature metafilmiche, del desiderio alla deriva, è sicuramente uno dei più grandi film americani degli anni sessanta. Edwards vi prodiga un'ammirevole padronanza dello spazio scenico; calcola le entrate e le uscite di scena dei personaggi con una precisione da orologiaio; dissemina gag tra i più felici e li congestiona, in un crescendo soffocante, conducendo lo slapstick ad una fiammata sovrana, o, come diceva Charles Barr, dionisiaca.
Peter Sellers, nel ruolo a lui congeniale di un indiano dalle facezie terribili, totalmente refrattario al senso dello humour, esita, osserva, sorride, si scusa,' combina disastri e si innamora in un modo toccante, ilare fino ai singhiozzi e malinconicamente amaro, delicato e rabbioso insieme. (…)
Completato l'esaurimento del plot, The Party abbandona del tutto la tecnica del filo narrativo a cui subordinare la traccia confusa dei gag proliferanti: la sceneggiatura stessa, scritta con Tom e Frank Waldman, è solo uno smilzo quadernetto, una minima (dodici paginette appena) riserva di appunti, intuizioni, ipotesi di lavoro. Regista, tecnici e interpreti si danno appuntamento giorno dopo giorno su un set dove qualsiasi cosa può accadere, essere suggerita, improvvisata o cancellata: «abbiamo costruito il film a mano a mano che avanzavamo perché era il solo modo di farlo progredire. Non avevamo che l'idea del party...». È un fertile caos, per riprendere una formula coniata per Altman: i comprimari stessi, rinunciando al ruolo periferico della spalla, collaborano felicemente col regista offrendogli una prestazione di tutto rilievo. Tali J. Edward McKinley, padrone di casa, che non smette il suo sigaro tra i peggiori disastri e mantiene una tonalità uniforme di costernata rassegnazione, in uno slow-burn interminabile, e Steve Franker cameriere etilista di aria assente e sfocata visione, magistralmente sicuro in esercizi di equilibrismo sonnambolico.
Il film («ci siamo talmente divertiti che abbiamo perso un giorno intero di riprese; avevamo riso così tanto che tutto ciò che avevamo filmato quel giorno era inutilizzabile» [VI) è l'esatto contrario, nota Pascal Bonitzer, di quella fiction classica in costume di cui Hrundi V. Bakshi sabota le riprese: Edwards, collocando dialetticamente l'oggetto della propria polemica in apertura del testo, regola ancora una volta questioni metafilmiche poiché il Forte distrutto dalla comparsa indostana non è semplicemente un décor ma la metonimia della tradizionale fiction narrativa come meccanica dai tempi forti e dagli effetti spettacolari, robustamente piazzata sull'asse della fable e gerarchicamente definita dalla centralità attanziale di qualche personaggio.
Quel che Bakshi va sabotando, però, non riguarda soltanto una generica figura cinematografica: Son of Gunga Din, la pellicola a cui partecipa, è il remake o la prosecuzione del celebre film di George Stevens, del 1939. E Bakshi, parodicamente, vi ripete il personaggio indù che trovava eroica morte nel tentativo di avvertire le truppe inglesi in procinto di cadere in una mortale imboscata. Le tre disattenzioni maldestramente perpetrate nelle tre sequenze citate sono dunque altrettanti lapsus terroristici, involontarie azioni di guerriglia compiute nei confronti di un genere kiplinghiano. Il prologo, pertanto, assolve ad una complessità di funzioni tematiche e linguistiche. Confronto metafilmico, di scritture e di classi, prefigurazione o prova generale di una seconda distruzione (quella della metaforica Villa, piazzaforte del generale-produttore), presentazione, infine, della comicità del protagonista, di tipo disastroso, e della tecnica comica del regista, fondata sulla durata come rivela il gag esilarantr, della trombetta.(...)
Il motivo del buffone spontaneo, in aperto conflitto con la ritualità altamente segnica del sociale (motivo tradizionale nella commedia americana), è ripreso da Edwards con una ricchezza di determinazioni sorprendente. I comportamenti comici di Bakshi nascono infatti, senza sosta, dalla ricerca d'una comunicazione maggiore e sacra: per tutta la prima parte del film egli non fa altro, instancabilmente, che tentare di suturare tra di loro i gruppi e gli individui, e con ciò, in modo oscuro, di "cicatrizzare" la propria separatezza e differenza di Straniero. Il movimento del personaggio parte dunque da un disagio che è, simultaneamente, razziale, sociale, individuale ed inconscio. Mosso da una ferita, di profonda solitudine e di diffusa insoddisfazione, Bakshi mette silenziosamente in discussione, con la sua sola presenza, interdizioni e barriere: la sua aspirazione mira a quello stato confuso e gioiosamente anarchico che la tradizione del teatro nomadico (dalla commedia dell'arte al music hall) ha lasciato in eredità al burlesque cinematografico. Bakshi sente, intuitivamente, che l'essere, isolato, non può che deperire e che comunicare, questo eccesso spaventoso, non si può farlo che perdendo dignità, lasciandosi andare goffamente senza il minimo riguardo per la propria eleganza. Ma il suo errore è quello di confondere un Party (occasione di brevi incontri, di falsi approcci e di malintesi) con una Festa o meglio, di voler fare del Party una Festa, scambiando le distanze sociali in distanze intime. E poiché la comunicazione non può avvenire senza ferire o insozzare gli esseri (poiché dalla parte dell'avara conservazione del soggetto essa è sempre colpevole) Bakshi sarà allontanato con inflessibile condiscendenza in un continuo ristabilire le distanze soppresse.
L'imbarazzo, la goffaggine, la predisposizione alle gaffes imparentano sicuramente il timido indiano di Sellers a Clouseau. Come i gag clouseauiani quelli di Bakshi segnalano e commentano un'analoga condizione umana, psicologica e morale. La stessa mimica da cartoon (si rammenti come machiavellicamente calcola il recupero balistico di una scarpa smarrita: trasparente omaggio del regista a Willy il Coyote e al gatto Silvestro) ne regola i passi smarriti. Non ne possiede, però, quell'imitazione coatta di un modello che comandava il gesticolare schizoide dell'ispettore, risolvendosi ogni volta nel fiasco. La sua innocenza ha un'indefinibilità più sfumata: clouseauiana e cartoonistica, certo, di indubbia derivazione slapstick, ma pronta ora a trovare nuovi punti di riferimento in un altro, orientale, ritmo di vita attingendo suggestioni palesi, è il 1968, dall'anarchismo hippy (Bonitzer, che tira in ballo il Flower Power, giunge a citare con esattezza i bellissimi Fioretti del Francesco, giullare di Dio rosselliniano). Senza dimenticare, tuttavia, quegli autoriferimenti che innervano il testo di preziosi richiami ricapitolando fulmineamente un'intera testualità. Poiché Hrundi V. Bakshi, nel recuperare la consueta vulnerabilità dei personaggi edwardsiani, rammenta soprattutto la fragile figura di Joe Clay senza condividerne, tuttavia, quella passione alcolica che è Levinson, invece, ad ereditare. L'indiano e il cameriere, sotto modi diversi e complementari, partecipano così di una sola natura. Levinson è l'alter ego evidente di Bakshi: bevendone i drinks dà la stura ad una serie di invenzioni disastrose, impeccabilmente condotte, che replicano una dopo l'altra le gaffes del suo complice. Edwards, per rafforzare la relazione, fa incontrare i personaggi più volte e in situazioni omologhe sin dall'inizio del party, quando si fronteggiano sulle strette scale di casa l'uno vestito di bianco e l'altro di nero. Inoltre, mentre Bakshi trova Michèle (un altro "essere di contatto" e la sola in grado di comprenderlo istintivamente), Levinson avvia una strana relazione con una delle ospiti di Clutterbuck, visibilmente infelice e ubriaca. I personaggi maschili, in altre parole, sono raddoppiati da quelli femminili, e questi, come non bastasse, rappresentano una scissione di Kirsten Arnesen di cui la «drunk lady» riflette l'ubriachezza e Michèle la medesima aria di quieta disperazione sotto l'aspetto tranquillo.
Le nuove coppie, suggeriva Charles Barr, ineriscono entrambe, con estrema precisione, a quella di.Days of Wine and Roses: «è come se Joe e Kirsten fossero scomposti in queste due coppie, incarnando la loro innocenza e l'alcoolismo separatamente. O, in modo più sinistro, come se la seconda coppia fosse ciò che gli innocenti concretamente sono o potrebbero essere in una dimensione non comica...».
L'ubriachezza, si sa, ha affascinato da sempre il regista, che vi scorge un confuso tentativo di sfuggire a se stessi e un indiretto commento sociale. Levinson, rappresentante abbandonato e solenne dell'innocenza, stabilisce con Bakshi un'analogia di funzioni che è tecnica e tematica. Tecnica perché è l'alcool che divarica i gesti dalle intenzioni ripetendo quel principio comico di disgiunzione che in Bakshi e Clouseau, ubriachi-sobri, era invece da addebitarsi alla goffaggine come riflesso di castrazione da parte di un mondo ossessivo-dove tutti giocano a correggerti e inibirti. Tematica perché il servo, strangolato dal maggiordomo, raggiunge l'umiliatissimo indiano in una rivolta temeraria e sfacciata che ridicolizza i potenti e dona dignità al debole.
Una rivolta scandita, nella sua apparente assurdità, da una progressione logica che marcia lentamente ma inesorabilmente verso la bagarre attraverso una serie graduale di reazioni a catena fondate sul costante ritorno ad un gag di base ogni volta variato e amplificato, secondo una meccanica comica che volutamente ignora le esplosioni improvvise e preferisce dosare i suoi passi in attesa dell'apocalisse incontrollabile. Nulla di veramente clamoroso accade durante la prima parte del film. La tensione suscitata dai piccoli incidenti causati da Bakshi e Levinson ricade ogni volta da sola. E ogni volta si riprende grazie a una miracolosa continuità di spunti: l'infelice dinner-party, ad esempio (omaggio tra l'altro a From Soup to Nuts di Laurel & Hardy), sta andando ad esaurimento a poco a poco quando Bakshi, osservando la statuina del fantolino orinante, deve ricorrere a sua volta alla toilette. Da questo istante, a partire dall'intenso disagio urinario del protagonista, la tensione prima accumulata prende a salire per tappe sempre più ravvicinate verso l'inondazione dei locali: dapprima il water dentro al quale Bakshi sciacqua uno Chagall, poi la piscina in cui lo stesso Bakshi ruzzola dall'alto, poi, ancora, l'arrivo dell'elefantino colorato e la decisione di fargli il bagno che, unitamente alla manomissione del quadro comandi, completa la trasformazione della Villa in un piccolo lago dove gli ospiti di Clutterbuck, e sua moglie avanti a tutti, cadono a ripetizione.
(…) The Party, film-happening, celebra la trasformazione del ricevimento in una Festa dove si consuma per un attimo, in un mare di schiuma sfioccata, la disubbidienza delle minoranze (dei servitori e delle donne, dei giovani e dell'indiano) alle imposizioni dei loro padroni (maggiordomi, uomini, genitori, Usa). L'apoteosi liquida di questo straordinario film-flusso, a ben pensarci, non poteva che essere dedicata alla sovranità infantile di Jean Vigo e le inquadrature bianche, una danza in un paesaggio innevato, rendono infatti omaggio alla memorabile battaglia a colpi di cuscino di Zéro de conduite (Zero in condotta).
L'alba del giorno appresso, livida e confusa, smaltisce l'eccesso della notte in un nuovo giorno, ancora uno, di ordine e di separazione. Hrundi, accompagnando a casa Michèle, non sale da lei ma lascia quel cappello in pegno («è bello riprendersi i cappelli!») che è una chiusa perfetta, dove si sfiora il romance senza dichiararlo. E questo understatement, forse, è la ragione principale dell'insuccesso di un film senza enfasi, dove i fatti più importanti accadono il più sovente ai bordi o sul retro dell'inquadratura e la camera, immobile nel bel mezzo della farsa scatenata, filma a rasoterra, implacabilmente dead-pan, il sogno della dissoluzione dell'impero d'occidente.
Autore critica:Roberto Vaccino
Fonte critica:Blake Edwards, Il Castoro Cinema
Data critica:



Critica 3:
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Libro da cui e' stato tratto il film
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