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Riff raff - Meglio perderli che trovarli - Riff Raff

Regia:Ken Loach
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video (Effetto cinema)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Il lavoro
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Bill Jesse
Sceneggiatura:Bill Jesse
Fotografia:Barry Ackroyd
Musiche:Stewart Copeland
Montaggio:Jonathan Morris
Scenografia:Martin Johnson
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Arichard Belgrave Kojo, Robert Carlyle Stevie, Jimmy Coleman Shem, David Finch Kevin, Kuke Kelly Ken Jones, Garrie J. Lammin Mick, Emer Mccourt Susan, Bill Moores Smurph, George Moss Mo, Ade Sapara Fiaman, Ricky Tomlinson Larry, Derek Young Desmonde
Produzione:Parallax Pictures per Channel Four
Distribuzione:Bim
Origine:Gran Bretagna
Anno:1991
Durata:

94'

Trama:

Stevie, un giovane operaio di Glasgow uscito dal carcere per furto, trova lavoro in uno dei tanti cantieri proliferati nella Londra della restaurazione economica dell'ultimo governo Thatcher. Qui incontra un piccolo mondo disperato e ridanciano, volgare e capace al tempo stesso di gesti di solidarietà. I compagni di cantiere sono di varia provenienza, alcuni sono di colore, ma tra tutti si distingue Larry, sempre pronto a preoccuparsi per gli altri. Trovato un alloggio abusivo grazie ai nuovi amici, Stevie incontra fortuitamente Susan, aspirante cantante di scarse qualità: nasce così una relazione che procede con momenti di tenerezza ed accesi contrasti. Frattanto Larry paga col licenziamento il suo tentativo di far applicare le norme di sicurezza mancanti nel cantiere e muore la madre di Stevie che va in autostop a Glasgow per assistere al funerali. Al ritorno Stevie scopre che Susan è tossicomane: convinto da un'analoga esperienza familiare che non vi sia nulla da fare, la scaccia, resistendo ai tentativi di lei per riprendere il rapporto. Al cantiere, intanto, un operaio, che usa il telefono cellulare del capomastro per parlare con la madre e lo picchia perchè redarguito, viene arrestato: il nero Desmonde, scivolato a causa delle insufficienti misure di protezione, sfugge alle mani di Stevie che cercano di salvarlo e si sfracella al suolo. In un eccesso di frustrazione e di rabbia Stevie brucia, con l'aiuto di un compagno, lo squallido edificio, ex ospedale, destinato a divenire una lussuosa suite di appartamenti di lusso.

Critica 1:Dopo 2 film made in USA con lo stesso titolo (locuzione gergale che significa "gentaglia", "canaglie") uno del 1935 e uno del '47 è il turno di K. Loach, regista britannico impegnato e radicale, con una storia ambientata in un cantiere edile di Londra dove lavorano bianchi e neri, giovani e anziani in condizioni di sfruttamento e di insufficienti misure di sicurezza, tra licenziamenti in tronco e prepotenze dei superiori. Un ritratto dell'Inghilterra della signora Thatcher divertente, spiccio, energico, senza retorica, con un'intensa storia d'amore e un duro, battagliero finale. Premio Felix per il miglior film europeo.
Autore critica:
Fonte critical Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:“Fare un film significa esporre del materiale sensibile alla luce. La zona di sensibilità che trovo particolarmente interessante è la relazione fra le persone e il loro ambiente: la famiglia, il lavoro, la classe sociale. Gli elementi drammatici che mi attirano sono: la forza di battersi per difendersi, la lotta per esprimere ciò che spesso è represso, il calore dell'amicizia, della compassione e della solidarietà”. Cosi quattro anni fa Ken Loach esprimeva esplicitamente motivazioni, modalità e intenti da sempre alla base del suo lavoro nel cinema. 55 anni, formazione televisiva ed esperienze radicali nel campo della “docu-fiction” (singolare formula d'intervento audiovisivo basato su una commistione di reportage giornalistico e finzione drammatica), agguerrita attenzione alle dinamiche sociali e un numero limitato di lungometraggi realizzati anche per il grande schermo, il regista inglese che forse più di tutti ha saputo approfondire in modo originale le innovazioni linguistiche e tematiche imposte fra la fine degli anni '50 e i primi '60 dal “Free cinema” continua ad analizzare con sguardo lucido, ironico, accorto il reale, soffermandosi proprio sui motivi enunciati compiutamente come cardini del proprio intervento d'autore e utilizzando questa volta al meglio gli strumenti più efficaci di una costruzione narrativa serrata ed incisiva. L'impegno e il particolare rigore stilistico che caratterizzano un po' tutta la sua opera (a partire dal fortunato sodalizio col coraggioso, intraprendente - ed impegnato politicamente a sua volta - produttore televisivo Tony Garnett, nel '65) non si sono affatto esauriti, ma trovano anzi oggi occasioni, motivi, possibilità di riaffermarsi in modo significativo nella Gran Bretagna del dopo-Thatcher. Ed è proprio ai suoi temi ed ambienti più cari che Loach fa ricorso, rievocando direttamente i suoi esordi (il documentario Cathy Come Home, del '65, e il film di fiction Poor Cow, entrambi basati sulla descrizione e sulla messa in scena della condizione dei diseredati londinesi senzatetto-senzalavoro), ritrovando i suoi modi di produzione privilegiati, e rinnovando il suo personale modo di fare cinema, fondato su una diretta, polemica rappresentazione drammatica della realtà, talvolta chiosata da notazioni piacevolmente divertite, ma mai appiattita su stereotipi macchiettistici.
Riff Raff (tralasciamo di soffermarci sull'inutile, improprio e immotivato secondo titolo italiano Meglio perderli che trovarli) è ambientato nella Londra marginale frequentata - per motivi di lavoro, abitazione e precaria sussistenza - da una nuova classe operaia e sottoproletaria soggetta ai rigori imposti dai tagli alla spesa sociale: cantieri edili dalle impalcature pericolanti, appartamenti occupati in stabili fatiscenti, strade ingombre di rifiuti e sobborghi sporchi, bui di periferia. Il titolo originale del film sta per “marmaglia, gentaccia, canaglie, poco-di-buono”, e rimanda alle origini umili (manovali, ex-carcerati, immigrati di colore), alla composizione etnica multiforme (chi viene da Liverpool, chi da Glasgow, chi dalla Giamaica e chi dall'Africa), alle abitudini (istintive o forzate che siano) e soprattutto all'“immagine” dei componenti di questo microcosmo emblematico e insieme cosi assolutamente credibile, reale. Il film si apre su immagini di degrado urbano: grossi topi scorrazzano indisturbati sui moduli dell'Assistenza pubblica abbandonati a se stessi, fra scorie, cartoni e macerie, mentre il giovane protagonista della vicenda narrata si sveglia solo, su un marciapiede - fra la gente che passa e neanche s'accorge di lui - dopo aver trascorso la notte all'addiaccio, e prende contatto - duro, brusco e freddo - con la realtà. Il nome con cui si fa chiamare da tutti è Stevie, ma il suo nome “vero” (Patrick) lo apprenderemo solo in seguito, fuggevolmente, in quanto gli operai non garantiti (senza contratto né contributi né alcun tipo di mutua, assistenza o assicurazione) lavorano sotto falso nome - abdicando in qualche modo alla propria identità - per non perdere il sussidio di disoccupazione. La prima destinazione di Stevie è il cantiere, dove i topi tornano sgradevolmente a far compagnia ai manovali durante la pausa del pranzo, e i rapporti con i capi sono impostati su un modello “classico” di brutalità. Fra i compagni di lavoro s'alternano discussioni (nei diversi accenti e dialetti delle zone di provenienza, che nell'edizione originale del film compongono una lingua collettiva ricca, colorata e dissonante resa solo molto parzialmente dal doppiaggio), lazzi, motti di scherno, qualche meschineria e soprattutto una radicata solidarietà di classe (basata soprattutto su un comune modo d'avvertire il reale e sulla soluzione collettiva delle piccole questioni quotidiane), che permette a Stevie di “muoversi” agilmente nell'ambiente, occupare un appartamento sfitto e non farsi schiacciare da una situazione altrimenti insopportabile. Fin qui prevale nettamente l'intento documentaristico, avvalorato da una fotografia volutamente povera, sgranata, “televisiva”, raccordi ordinari, nessuna ricerca formale nella composizione e nel taglio delle inquadrature. Ma colpisce immediatamente l'impatto forte, fresco, arguto, pienamente convincente della rappresentazione. Viene poi velocemente sviluppato e approfondito il carattere del protagonista (scozzese, ex-ladro, ex-galeotto, indipendente, cocciuto e determinato) e quello degli altri personaggi, fra i quali emerge Larry, operaio maturo ed esperto, laburista sentenzioso, sindacalista ingenuo, amico benevolmente paterno e protettivo di tutti. Far rintracciare una borsa nell'immondizia è un pretesto narrativo sufficiente a dar vita ad una storia d'amore fra Stevie e Susan, una ragazza tenera e incerta, sprovveduta aspirante cantante di nessun avvenire. Le asprezze di Stevie (interprete della forza testarda ma anche della deriva di una generazione) vengono così mitigate dalla dolcezza del rapporto affettivo, basato su alterne tensioni, paura, fiducia, volontà, insicurezza: “Non me la sento di farmi coinvolgere più di tanto” “Un po' coinvolta sei, ma non è per sempre”.
Nella vita in comune lei tende a far emergere problemi irrisolti ai quali Stevie, con scetticismo sbrigativo, non presta troppa attenzione: “La depressione ce l'ha solo chi ha i soldi”. La storia fra i due viene quindi intrecciata alle altre vicende (arricchite da situazioni curiose e gags riuscite) che vedono in scena il gruppo di operai alle prese con la sopravvivenza individuale, le condizioni di lavoro e i sogni su un possibile avvenire: appare evidente a questo punto l'estrema solidità e compattezza della sceneggiatura, articolata sulla base di una struttura apparentemente libera, ma in realtà studiata con estrema cura e attenzione ai tempi e ai motivi della narrazione, che tende ora a toni comici (la sequenza esilarante in cui Larry viene scoperto nudo nel bagno di un appartamento di rappresentanza da un gruppo di donne arabe, mogli di qualche sceicco, giunte in visita ufficiale) ora drammatici (l'annuncio della morte della madre di Stevie e la crisi di pianto della ragazza alla partenza di lui), senza comunque che un registro prevalga mai nettamente sull'altro. La sequenza del funerale dimesso dà vita così ad una situazione segnata da un sottilissimo, squisito humor nero (le ceneri disperse incautamente giungono addosso ai parenti in lutto scatenando confusione, insulti e imbarazzo), mentre altrove prevale il grottesco (come nella scena dell'audizione fallimentare di Susan). Veniamo a sapere comunque tutto ciò che dobbiamo sapere sui personaggi, e - ciò che più conta - al momento giusto, mentre gli eventi si compiono, secondo una scansione calibrata, inesorabile. I discorsi fra i giovani operai neri a proposito del mito-desiderio del ritorno alla terra d'origine, il farsi carico da parte di Larry dei problemi degli altri, la solitudine desolata di Susan che canta nel metro senza che nessuno le presti attenzione: tutto viene utilizzato sapientemente per costruire curiosità, attese che troveranno quindi parziali soluzioni soddisfacenti (dal punto di vista della costruzione narrativa), rilanciando quindi la tensione fino allo scioglimento drammatico del finale. La provvisorietà concepita da Stevie a proposito del lavoro e avvertita con ansia da Susan per quanto riguarda la storia d'amore che sta vivendo rimanda alla più generale provvisorietà dell'esistenza (o forse soprattutto di queste esistenze): il tentativo di Larry d'ottenere per tutti condizioni più umane e maggiori garanzie nel lavoro gli frutterà il licenziamento, mentre ogni altro moto di reazione a ciò che appare sempre più un destino inarrestabile di sventura non sortirà che effetti spiacevoli. La struttura della seconda parte del film appare così dominata da un meccanismo di scacco e impedimento (con conseguente senso di sospensione e rammarico negli spettatori): i rapporti complessi stabiliti fra i personaggi (e fra questi e l'ambiente) nella prima parte entrano irrimediabilmente in crisi proprio a partire dal licenziamento di Larry, che impone una svolta nella narrazione. I rilievi leggeri, comici riferiti ai tic dei personaggi scompaiono del tutto per lasciar spazio ad un tono serio, talvolta perfino plumbeo, segnato dal tragico incombere di avvenimenti imprevisti. Fa irruzione sulla scena la disperazione e l'abbandono, così come l'eroina entra nella vita di Susan e provoca la rottura definitiva con Stevie, che rifiuta la ragazza facendo prevalere la propria determinata, ragionevole consapevolezza e la volontà di mettersi in salvo da rischi già sperimentati altrove. Anche questo tema viene trattato con convincente sincerità, senza retorica né ostentazione stucchevole di buoni sentimenti: ne deriva un coinvolgimento emotivo autentico, diretto, profondo. Uno sgomento attonito accompagna poi la sequenza della caduta (dalle impalcature del cantiere) e della morte di Desmonde, il più giovane, inesperto e sognatore fra i lavoratori immigrati di colore. Stevie non potrà neanche avere informazioni sull'amico - appena portato via da un'ambulanza - per non rivelare il proprio vero nome, e quindi la propria autentica identità, con un evidente incremento del senso di frustrazione. In questo clima matura la sequenza finale del film, dal gusto fortemente espressivo: l'incendio appiccato al cantiere non ha tanto una valenza catartica, liberatoria: appare piuttosto un gesto estremo di rabbia, d'odio (pienamente motivato) e di ribellione sterile, impotente, eppure orgogliosa, spregiudicatamente decisa, contro eventi (e avversari) implacabili. Stevie fugge così sorridendo, mentre il palazzo in costruzione brucia, ma il fuoco non purifica, non pulisce, non risolve. I topi abbandonano il cantiere - si agitano come dannati fra le rovine - per cercare ospitalità in altri luoghi troppo simili a questo.
Autore critica:Pierpaolo Loffreda
Fonte critica:Cineforum n. 310
Data critica:

12/1991

Critica 3:
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