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Perfidia - Dames du Bois de Boulogne (Les)

Regia:Robert Bresson
Vietato:No
Video:Video Mondadori (v.o.sott.ital.)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto da un episodio di "Jacques Le Fataliste et son Maître" di Denis Diderot
Sceneggiatura:Robert Bresson, Denis Diderot
Fotografia:Philippe Agostini
Musiche:Jean-Jacques Grunenwald
Montaggio:Jean Feyte
Scenografia:Max Douy, Robert Lavallee
Costumi:Gres, Schiaparelli
Effetti:
Interpreti:Paul Bernard (Jean), Maria Casares (Helene), Elina Labourdette (Agnes), Lucienne Bogaert (Madame D.), Jean Marchat (Jacques)
Produzione:Les Films Raoul Ploquin
Distribuzione:Ambasciata di Francia
Origine:Francia
Anno:1944
Durata:

90'

Trama:

La ricca e borghese Hélène, per vendicarsi del suo compagno Jean che non la ama più, lo spinge tra le braccia di Agnès, una ex-prostituta. Jean, completamente all'oscuro del passato della ragazza, se ne innamora perdutamente e la sposa. Dopo il matrimonio, Hélène decide di svelare il segreto di Agnes, ma l'amore dei due giovani saprà superare anche questo.

Critica 1:Per vendicarsi del disamore del suo amante (P. Bernard), una ricca borghese (M. Casarès) fa in modo che s'innamori della giovane Agnès (E. Labourdette) che mantiene la madre (L. Bogaert) con la generosità dei suoi casuali accompagnatori e, a nozze avvenute, gli rivela la verità. Tratto da un episodio del romanzo Jacques il fatalista e il suo padrone (1796) di Denis Diderot, sceneggiato dal regista con i dialoghi riscritti da Jean Cocteau, il secondo film di R. Bresson è un esercizio di stile in cui "l'ostinazione e il lavoro molto laborioso di purificazione obbligano al rispetto" (F. Truffaut). Da un materiale narrativo che avrebbe potuto fornire la base di un melodramma popolare (la vendetta, la macchinazione, la vergogna, il colpo di scena finale) Bresson fa, con precise scelte di forma, una tragedia dove i quattro attori principali mantengono, anche nelle svolte più accese dell'intrigo, una dignità squisita e uno stile spoglio di alto livello teatrale. Un insuccesso quando uscì. Capito e rivalutato soltanto a partire dagli anni '50.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:L'incipit del film è dominato dal viso di Hélène; lo sguardo della donna è rivolto «lontano», nel sentimento, nella fedeltà, nella paura, nel sospetto. Oltre l'apparenza dei gesti di convivenza, delle geometrie che dettano il comportamento. Il volto di Hélène porta il segno del dramma, dell'interiorità scossa, ferita, dell'angoscia che nasce dal venir meno delle certezze, dalla caduta della fede. Quel volto è già un'interrogazione disperata; la luce ne accresce il tormento, ne ritrae la crudele verità. Hélène è passata dal presentimento all'evidenza dell'accaduto, dall'immaginazione al sopraggiungere del dato. Il gioco della menzogna le si è rivolto contro; nella conoscenza ha trovato il dolore; quando accompagna Jean all'uscita, il suo viso entra nell'ombra, poi si illumina, in un'ulteriore conferma della tragedia compiuta, per oscurarsi poi definitivamente, mentre l'amico esce soddisfatto per aver raccolto una falsa confessione. Un movimento di macchina frontale enfatizza il tormento di Hélène, disponendo, nella plasticità del chiaroscuro, l'implacabile sconvolgimento della soggettività. La storia del film ha origine da un desiderio di assoluto, da una volontà d'amare che richiede, pretende la piena corrispondenza, la visione umanamente eccessiva dell'adesione totale; in realtà questo bisogno rende impossibile la felicità, che porta con sé un'estasi colpevole, un'ignoranza monotona, un'incapacità a vedere oltre l'immediatezza, la fortunosa combinazione dei fenomeni. In Hélène c'è la sofferenza che proviene dalla volontà di sapere; quando la vediamo salire verso il proprio appartamento, ancora ignara di trovarvi Jean, sentiamo comunque che sta andando incontro al destino. Quell'ascensore la conduce verso una scoperta sostanziale: la falsità dell'altro, la recitazione dei sentimenti, la maschera dell'illusione. La macchina da presa prima l'attende, quasi a preparare il momento rivelatore, poi l'accompagna nella casa, il luogo della sicurezza e della convivenza, che sancisce l'accettazione e la speranza e quindi rende più profondo l'abisso della delusione. Poi traduce in un campo contro campo decisamente concentrato sulla rappresentazione di Hélène, la sfida della donna, la scommessa esistenziale sulla sincerità del partner. Infine rivela la reale interiorità di Jean, in un lungo piano americano che inquadra la soddisfazione dell'uomo, fino a riaccostare le due figure, ma ormai infinitamente distanti. L'occhio di Bresson interpreta l'azione degli amanti; già ricerca il predominio della messa in scena, già strumentalizza il tempo e lo spazio, già costringe i corpi degli attori entro i limiti della necessità iconica, interpreti di un significato trascendente: non importa la loro umanità, la loro verosimiglianza. Essi esprimono l'ansia per un compito, una missione, un dovere imposto da una sorta di comandamento, che, se anche proviene dall'interiorità, prende la forma del destino, del fine imprescindibile. Nel personaggio bressoniano non c'è il dissidio interiore, il dubbio della coscienza, l'iperbolica emergenza del super-io; c'è invece la forza del proposito, dell'idea, della fede: una religione che non necessariamente attinge alla divinita, che anzi, spesso, nasce tra le maglie dell'esistenza, nel movimento delle passioni, nei corpi, nelle attese della volontà. II cinema di Bresson concretizza l'energia mentale che proietta il personaggio nell'aldilà di una scelta totalizzante, di cui egli diventa strumento, fino alla completa attuazione del piano. Si pensi a Suor Anna Maria ne La conversa di Belfort, così tenacemente e testardamente impegnata a conquistare a sé, al bene, alla beatitudine la donna che pensa invece solo alla vendetta, all'assassinio; ella viene consumata da questa idea, travolta da un desiderio che non si ferma di fronte alla violenza, al rifiuto dichiarato e ripetuto: una trasposizione tutta umana del martirio. O si pensi al protagonista di Un condannato a morte è fuggito, deciso a conquistare la libertà ad ogni costo, per il quale la costruzione della fuga è una sorta di estasi, una scommessa sull'assoluto. Non ha importanza l'esito dell'impresa, ma l'esistenza di un'unica possibilità, che richiede quindi una scelta decisiva fin dall'inizio, in definitiva un atto di fede.
Bresson penetra nella tensione determinata dallo svuotamento del singolo; l'uomo si concede alla «trascendenza», il cinema incorpora l'ideale. Le condizioni della rappresentazione cambiano completamente; il racconto non obbedisce alla verosimiglianza, ma è il primo momento di un discorso che porta, o dovrebbe portare, alla verità.
Perciò mutano anche il tempo e lo spazio, che non riproducono più coerenze e corrispondenze, immediate somiglianze con i presupposti della storia, ma partecipano intrinsecamente alla formazione del linguaggio.
Tornando a Les dames du Bois de Boulogne un campo contro campo decisamente asimmetrico (le due figure coprono una quantità visiva diversa; enorme è lo sgomento di Hélène, leggera, incosciente la reazione di Jean) allontana il confronto analogico e predispone alla percezione dell'idea, del pensiero, del tormento. Hélène e Jean si lasciano in silenzio; nella già citata sequenza Jean esce di scena, una carrellata «inesorabile» avvicina il volto di Hélène, che rientra nell'ombra. Segue una dissolvenza in nero che riapre sulla donna, offesa dal tradimento, mentre un rumore di danza anticipa l'entrata in scena di Agnès, lo strumento del piano diabolico di Hélène. In queste prime immagini Bresson ha già costruito un sistema cinematografico, ha demolito non tanto la narratività tradizionale quanto il modo di determinare il senso, attraverso una manipolazione scoperta degli elementi costitutivi dell'immagine cinematografica. In particolare la luce si manifesta come scrittura, non per essere richiamo espressionistico o d'atmosfera (espediente per altro diffuso nel cinema francese dell'epoca; il film è stato girato tra il maggio 1944 e il febbraio 1945, mentre erano ancora in corso i bombardamenti) e quindi interno, coerente con l'evoluzione del linguaggio cinematografico (si potrebbe anche parlare di un noir esistenzialista) ma per il fatto che, attraverso di essa, Bresson idealizza il contenuto dell'immagine, interpreta la rappresentazione, stabilisce un'astrazione. Lo spettatore non si trova di fronte ad un semplice intrigo, ma deve oltrepassare la soglia del consumo, per pensare il campo concettuale. Le figure di Hélène e Jean sono, fin dal loro costituirsi, delle unità semantiche che fanno parte sì di una scelta contestuale, ma esse sono altresì dei centri gravitazionali che richiamano il sistema dei significati. In questo senso essi non sono semplici personaggi atti a sorreggere la storia, ma veicolano un'interpretazione del mondo, sono l'oggetto di una dimostrazione, di un atteggiamento morale. Bresson si muove qui ancora nel rispetto del cinema narrativo, ma prevarica la verosimiglianza, spostando la sostanza del film nella idealizzazione degli effetti espressivi. Tutto ciò si realizza proprio nella forma cinematografica, iniziando quell'avventura linguistica che porterà il regista francese ad una progressiva rarefazione dell'intrigo e ad una conseguente esaltazione dell'istanza rappresentativa. Fin dai suoi primi film, ad esempio, è completamente assente qualsiasi individuazione psicologica del personaggio; i soggetti agiscono per una scelta che non viene determinata da un richiamo esterno. Hélène è tormentata dal dubbio e questo la costringe a mettere l'altro alla prova, inesorabilmente; ella è posseduta da una forza superiore che la fa andare contro la propria felicità. A questo punto la donna non è più in grado di deviare dal cammino intrapreso; non deve quindi lottare con se stessa, sviluppando, nel conflitto, una qualche forma di coscienza, ma deve svolgere fedelmente, fino in fondo, il proprio
dovere. La «parabola» di Hélène è disumana; ella risponde all'accondiscendenza colpevole di Jean con la vendetta. Una vendetta feroce, che ha per oggetto un elemento umano essenziale: il sentimento. Hélène conosce perfettamente la sua vittima; ella è fermamente decisa a distruggere la sensibilità di Jean, utilizzando il suo stato sociale. L'espressione di classe, la distinzione dell'uomo vanno ferite, umiliate. Hèlène prevede la tragedia della delusione di Jean, lo scoramento e insieme la rabbia per l'inganno subìto, l'imposizione dell'orgoglio e del pregiudizio sulle ragioni del cuore. Hélène e Jean appartengono alla stessa razza, quella degli eletti, dei nobili, che si riproducono nell'ostentazione, nell'impeccabilità dell'esposizione al mondo, nell'affermazione rituale della virtù. Agnès è il contrario di tutto questo, è la macchia indelebile che può far crollare l'edificio incontaminato. La perfidia di Hélène trascina Jean verso la caduta, l'abbrutimento; è la punizione nei confronti di un'offesa indelebile, rivolta ad un amore che persiste. Perciò l'azione della donna si rivela come una prova in negativo del proprio sentimento, contro il rifiuto dell'altro. Hélène conduce un gioco doppiamente ingannevole; se da una parte usa Agnès come strumento per umiliare il patimento di Jean, dall'altra alimenta l'illusione di questi di utilizzarla come strumento per avvicinarsi ad Agnès e conquistarla. Ma contemporaneamente Hélène accresce la sua rabbia, perché assiste al progressivo innamoramento di Jean per la ragazza; può allora combinare gli ostacoli, gli impedimenti, le angosce, le coincidenze, le delusioni. La donna mette in atto un meccanismo che l'avvolge con sempre maggiore intensità, dove è leggibile un piacere che sostituisce la separazione dei corpi, il desiderio inappagato. Hélène si muove come un abile regista; lucidamente calcola e organizza i rimandi, le menzogne, gli accadimenti apparentemente occasionali; dispone di un potere assoluto perché è la sola che conosce la verità e può ricorrere, eventualmente, al ricatto. Lo schema narrativo in Les Dames du Bois de Boulogne non è diverso da quello costruito da Diderot nello splendido romanzo «Jacques le fataliste et son maitre», dove la storia del raggiro è inserita in una struttura ben più ampia, nella quale si incastrano eventi possibili, dialoghi col lettore, argomentazioni filosofiche, slittamenti narrativi, dislocazioni spazio-temporali, interrogazioni e divertissements, che consegnano il libro ad una precoce quanto strabiliante modernità. Soprattutto nella consistenza del parlato sono rinvenibili i caratteri esteriori della preparazione e attuazione del piano da parte di Hélène, la sua capacità di leggere e quindi di catalizzare le reazioni di Jean, in una sorta di corteggiamento indiretto attorno alla figura di Agnès; il dialogo traduce fedelmente i movimenti dell'opera letteraria (è da ricordare la collaborazione di Cocteau, anche se quest'ultimo ha dichiarato di non essere intervenuto nelle scelte finali di Bresson). La vicenda di Madame de la Pommeraye (così si chiama la donna nel romanzo) è in Diderot una delle tante, infinite occasioni di quella capacità di raccontare che è il soggetto stesso dell'opera (quella delle tre donne è una delle tante storie che si trovano nel libro e viene riferita ai due protagonisti dal personaggio dell'ostessa), tanto che il romanzo inizia con Jacques in procinto di raccontare la storia dei suoi amori, leit motiv che verrà continuamente ripreso, ma anche continuamente procrastinato, rimandato senza fine. Bresson quindi elude i presupposti della scrittura diderotiana, dilata il frammento ad oggetto unico di rappresentazione, attualizza il contesto storico ma soprattutto lo sostanzia ex novo, «riducendo» l'opera dello scrittore settecentesco a supporto narrativo (lo stesso Bresson affermava di essere stato colpito dalla compattezza del racconto di Diderot, che poteva tranquillamente esistere per se stesso). Mentre in Diderot l'importante è l'intrigo e la sua inserzione nella facoltà inventiva, nella catena delle possibilità e delle verosimiglianze, in Bresson sono decisivi la drammatizzazione e il suo superamento nell'ordine dell'astratto, in un'estetica che tende a trascendere il segno nell'universo del giudizio etico. Il moralista e materialista Diderot assume il fatto come origine e prova insieme di una visione del mondo, in ogni caso verificabile (si pensi alla struttura dialogico-dubitativa di molti suoi scritti, tra cui appunto Jacques le fataliste); il credente Bresson sottomette il concreto alla realtà dell'ideale. Ciò non significa l'obbedienza alla legge, ma l'affermazione di una libertà «assoluta», poiché il soggetto vive pienamente, intensamente, irrimediabilmente, il fine voluto; egli vuole con il corpo e con lo spirito l'oggetto della propria passione. Non è importante che egli faccia il bene o il male, ma ciò che la sua volontà ha imposto come fine. Hélène è l'angelo del peccato che esalta il proprio sentimento tradito e diabolicamente consuma la propria forza distruttrice per una dannazione che ella stessa, orgogliosamente, ha sancito. Hélène non conosce il perdono, che accrescerebbe all'infinito e in modo insopportabile il suo patimento, poiché in lei vive un affetto esclusivo ed ineliminabile; e può solo trasformare questa pulsione in qualcosa di pari forza, di pari violenza. Da questo momento Hélène subordina ogni gesto, ogni rapporto, alla realizzazione di questa «metamorfosi», affinché lo scopo ultimo risulti ugualmente esclusivo. La vediamo nella penombra, mentre rifiuta qualsiasi comunicazione con l'esterno, con lo sguardo rivolto verso un futuro già compiuto, tutta compresa nella decisione che, ormai, nulla al mondo potrà mutare: «Je me vengerai». Un rumore di passi ci introduce già nella realizzazione dell'intento di Hélène, un movimento di macchina inizia il cambiamento di scena seguendo la donna di spalle, per inquadrare prima l'ombra, poi i piedi e quindi Agnès che, ignara, espone il suo corpo agli sguardi del pubblico, mentre Hélène avvolta in un abito nero, con un ampio cappuccio, quale messaggero di sventure e di morte, la osserva come una preda.
Hélène è come dominata da un'energia «sovrannaturale», non conosce il dubbio, l'esitazione, l'incertezza. Giudice terreno, ella offre a Jean il frutto della sua dannazione, servendosi della maschera dell'innocenza.
Il linguaggio di Bresson è ancora legato al cinema che utilizza un'inquadratura attendibile, riportabile alla visione normale, e quindi definibile da una certa completezza, anche se il ritmo del film si sviluppa attraverso insistenze che cancellano qualsiasi residuo denotativo; si pensi al primo piano ripetuto di Hélène, dallo sguardo assetato, penetrante, premonitore, saturo di desiderio esasperato. O alla figura di Agnès, racchiusa sempre nello stesso impermeabile, costantemente repressa nel fisico, prigioniera di un sogno che la voleva danzatrice e di un incubo che la precipita ancora di più nella costrizione, aumentando in lei quel senso del peccato già ispirato dalla propria incoscienza. Si pensi alle porte, alle soglie varcate nella tensione che si compia un gesto definitivo, con la macchina da presa che attende i movimenti dei personaggi. O, di contro, ai movimenti di macchina, sempre in avvicinamento, a stringere le emozioni dei protagonisti, in un urto visivo che affida completamente all'immagine la «creazione» del senso. I luoghi portano con sé la minaccia della prigione («J'appelle ça une prison...» sono le parole di Agnès quando entra nella casa destinatale da Hélène), della situazione senza ritorno; lo stesso Bois de Boulogne, luogo dello svago, della passeggiata e del ritrovo, assiste ad incontri colpevoli (nella grotta Jean cerca di conquistare Agnès, mentre il fragore rimbombante della cascata copre le sue invocazioni concitate). I personaggi sono sempre in movimento, il loro arrivo è causa di turbamento; sono sempre sul piede di partenza, esprimono un'ansia e un disagio insieme, del tutto incapaci ad attecchire alle situazioni, alle sorprese che l'esistenza propone; sono anime perse, abbandonate da qualche divinità forse spaventata dalle proprie creature, dalla conoscenza del dolore. Che comprende in sé la sete di vendetta di Hélène e l'amore che, inaspettatamente, avvicina Agnès a Jean, la solitudine di un'azione che lascia dietro di sé solo vuoto e il fragile affanno di un corpo che cerca di sopravvivere. Il film si chiude con una dissolvenza in nero, come a sottolineare il tormento di una storia
d'amore nata tra le maglie del raggiro e dell'imbroglio, conclusasi in un clima di grande stanchezza, che l'ultima autoinvocazione di Agnès non riesce a sciogliere.
Bresson si fa portatore di un pessimismo ontologico; egli non pare interessato alle grandi manovre della storia, poiché l'origine del male risiede nella volontà del soggetto, nell'intenzione. Se vi può essere speranza, questa è solo nella disponibilità a farsi carico del male, a ri-trovare il colpevole, in un confronto affatto umano e terreno (la voce di Dio è infinitamente lontana ed è avvertibile più nella disperata innocenza di un asino che nel canto di gloria delle chiese). Ma siamo al di fuori della conquista della felicità e in ogni caso il sentimento di Agnès non nasconde l'amore di Hélène per Jean, la sua fede mancata. Qui si esprime probabilmente il rapporto, non semplice, tra Bresson, Pascal e la tradizione giansenista (la casa dove vengono portate Agnès e la madre si trova in Square de Port Royale, ma non è certamente il luogo dove Agnès può vivere la liberazione dalla colpa); la condizione umana che si realizza nella miseria, nell'infelicità, nella lontananza da Dio, nel rischio della certezza, nella tragedia della caduta. Una colpa che ha origine nel mondo, tra gli uomini, che non può contare sulla grazia; il tonfo di Mouchette nell'acqua lascia dietro di sé lo sgomento di una rinuncia definitiva. Le dissolvenze in nero si ripetono nel corso del film, a spegnere anche formalmente qualsiasi accenno all'illusione che possa essere indotta dagli eventi; il martirio di Agnès si costituisce nell'obbedienza alla dama in nero e la ragazza non può, anche per la presenza pericolosa del proprio passato, concedersi alla speranza del riscatto. Perciò il sentimento che prova nei confronti di Jean e le attenzioni che l'uomo ha verso di lei, sono un tormento, cui risponde con la fuga, con l'elusione, trasformando in ossessione quella che potrebbe essere una promessa di libertà. Così i fiori ricevuti in dono non possono non ricordarle i fiori che ingombravano il suo camerino, pegno degli uomini per le soddisfazioni notturne. E quasi eccessiva nel film questa presenza dei fiori, che diventano una sorta di paravento alla tragedia delle pulsioni e sottolineano il gioco delle falsità. Essi preparano a volte l'entrata in scena di Jean, interprete della galanteria e dell'eleganza; il personaggio si esprime nella parola, nella conversazione, in un eccesso di teatralità che si riflette nel rispetto della convenzione, nella cura dell'esteriorità. Il suo messaggio non si trasmette attraverso lo sguardo, il gesto, ma si concretizza e cerca corrispondenza nella parola, nella scrittura. Molti oggetti bressoniani sono abbozzati in questo film; lo spazio della rappresentazione subisce una riduzione, una geometrizzazione che in realtà sovraccaricano il contenuto dell'immagine, creando una tensione temporale, una trasposizione del segno e quindi una sua ridefinizione nell'ordine del discorso filmico. Si pensi anche all'uso del rumore, alla sua asincronia rispetto all'immagine, alla sua evidenza drammatica; sono le prime tracce di un lavoro linguistico che produrrà oggetti cinematografici stupefacenti.
Autore critica:Angelo Signorelli
Fonte critica:Cineforum n. 269
Data critica:

11/1987

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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