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Stanza di Cloe (La) - Quiet Room (The)

Regia:Rolf de Heer
Vietato:No
Video:BMG
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diventare grandi, Giovani in famiglia
Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Rolf de Heer
Sceneggiatura:Rolf de Heer
Fotografia:Tony Clark
Musiche:Graham Tardif
Montaggio:Tania Nehme
Scenografia:Fiona Paterson
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Celine O’Leary (la madre), Paul Blackwell (il padre), Chloe Ferguson (Cloe a sette anni), Phoebe Ferguson (Cloe a tre anni)
Produzione:Vertigo - Fandango - Smile Productions - Marvel Movies - SBS Indipendent - South Australian Film Corporations
Distribuzione:Mikado
Origine:Australia - Italia
Anno:1996
Durata:

91’

Trama:

Cloe, una bambina di sette anni, vive nel mutismo più assoluto per protestare contro il deterioramento dei rapporti tra i suoi genitori. Benché la sua intelligenza sia pronta e riflessiva, la bambina evita di dialogare con il padre e la madre, i quali, nonostante i forti segnali inviati loro, proprio non riescono a comprendere le ragioni di questa scelta. Cloe si trova a suo agio solo nella tranquillità della sua stanzetta dipinta di azzurro, mentre in casa, sempre più spesso, i genitori litigano violentemente. La bambina, che sogna una fuga nella vita di campagna, attraverso i suoi disegni segnala il fermo desiderio di un’esistenza condotta tranquillamente con i genitori pacificati. I genitori, però, decidono di separarsi. La scomparsa di Cloe, nascosta dentro un armadio, e il suo successivo ritrovamento fanno sì che i genitori discutano attentamente della questione, ma per la bambina, che ha ripreso a parlare, la riconciliazione si dimostra soltanto un’illusione: il padre lascia la casa e Cloe è costretta ad abbandonare la sua stanza.

Critica 1:Dell'australiano Rolf de Heer, lo spettatore di casa nostra ricorderà certamente Bad Boy Bubby
(1993), parabola filosofica di smodate ambizioni incentrata sulla figura di un giovane tenuto segregato per 35 anni dalla madre e dalla stessa costretto a subire abusi sessuali: alla fine, eliminata la genitrice, il buon Bubby riusciva ad inserirsi in qualche modo nella società, trovandovi un ruolo e sposando una infermiera dal cuore d'oro. Raccontata con toni survoltati e parossistici, la vicenda risultava indigesta per il suo cocktail di crudezza ed umorismo tutto di testa, calcolato col bilancino e mai sfiorato da una reale partecipazione dell'autore: era dunque lecito non riporre eccessive attese in questo La stanza di Cloe, presentato a Cannes in concorso e coprodotto dall'italiano Domenico Procacci. A sorpresa, invece, il film risulta tra i più interessanti e meno prevedibili della stagione: il regista, eliminato quanto di superficiale ed irritante v'era nell'opera precedente, è riuscito nella difficile impresa di raccontare il mondo di una bambina attraverso gli occhi della medesima, con una tenerezza e sensibilità mai querula né indulgente al vittimismo. Per di più, la famiglia di Cloe è descritta come normale ed affettuosa: solo litigi ed incomprensioni, che alla fine sfociano nella decisione di separarsi, ma senza tragedie od eccessi di violenza. Ebbene, la bimba prende la decisione - semplice e crudele - di non parlare più coi suoi genitori: solo noi spettatori, con un procedimento quasi hitchcockiano, ne sentiamo la voce come materializzazione dei pensieri. E restiamo commossi ed attoniti, sospesi fra partecipazione e tenerezza: praticamente sola in scena, la piccola protagonista (interpretata magistralmente dalla settenne Chloe Ferguson) dice della radicale alterità dell'infanzia rispetto all'età adulta: ci fa sentire inadeguati ed inadempienti, egoisti anche, ma allo stesso tempo desiderosi di stabilire un contatto, di - per dirla con le sue parole - avere fantasia. Un invito garbato, un monito lieve, un istanza sussurrata perché i finali delle storie possano essere, come nel film, lieti.
Autore critica:Francesco Troiano
Fonte criticatempimoderni.com
Data critica:



Critica 2:Un film concentrato completamente su una bambina di sette anni, i suoi sguardi, i suoi rifiuti, la sua sofferenza, le sue paure, i suoi sfoghi e i suoi disegni che dicono molto più delle parole. Una storia attenta a catturare soprattutto i silenzi. Sì, perché la piccola Cloe non parla pur non essendo muta. Il suo è un preciso rifiuto, una vera e propria rimostranza nei confronti dell’egoismo dei genitori. Questi non vanno più d’accordo da tempo e i loro sempre più pressanti litigi rappresentano una sofferenza troppo grande per una bambina che sogna l’unità della famiglia, così come succedeva soltanto quattro anni prima. Il film di de Heer si trasforma in una storia che parla della disgregazione progressiva di una famiglia attraverso il rifiuto della comunicazione scelto da una bambina intelligente e sensibile, che ha il solo torto di desiderare la pace del suo nucleo familiare. Al suo silenzio padre e madre reagiscono rinchiudendosi sempre più nelle proprie frustrazioni e nel personale improduttivo egoismo incapace di fermarsi, riflettere, capire le esigenze di una bambina bisognosa di affetto. L’ostinato silenzio è il modo di cui Cloe dispone per attirare l’attenzione sul problema che le sta a cuore, mentre l’atteggiamento dei genitori è quello di chi tollera un comportamento eccentrico che crede dettato dalla volubilità propria dell’infanzia (si pensi al momento in cui il padre ritorna a casa dopo che, d’accordo con la moglie, ha deciso di vivere per un po’ altrove: egli chiede a Cloe, che lo sta abbracciando, se abbia ripreso a parlare, credendo che il suo mutismo sia stato soltanto un capriccio passeggero e non una preoccupante manifestazione del frantumarsi delle certezze affettive).
Il rifiuto di Cloe alla comunicazione non è chiusura totale, ma è una decisione parzialmente aperta a stimoli che mettono alla prova il padre e la madre per verificare se la loro sensibilità – che la bambina reputa profondamente intaccata – sia in qualche modo recuperabile. E così i tentativi di giocare, il repentino tirarsi indietro dall’abbraccio paterno, il ripetere meccanicamente le frasi proferite dalla madre davanti allo specchio del trucco acquistano il valore di esche che i genitori non raccolgono perché troppo impegnati a covare il loro risentimento reciproco. Ma Cloe dispone di un mezzo che potrebbe risultare più espressivo delle parole se solo venisse interpretato nella giusta maniera e non come un semplice gioco infantile: la bambina utilizza, infatti, il disegno per far comprendere attraverso l’evidenza iconica la sua volontà di unità amorevole e la tristezza del suo stato d’animo. Immagini che ritraggono i singoli componenti della famiglia divisi nello stesso foglio, una nube nera e caotica che illustra i tentativi dei genitori di convincere Cloe che la separazione sia l’unica soluzione possibile dei conflitti, un fumetto vuoto che si contrappone alla marea di parole blaterate rappresentano il modo che ha la bambina di comunicare il suo stato d’animo. Ma il suo destino è quello di rimanere inascoltata.
Autore critica:Giampiero Frasca
Fonte critica:Aiace Torino
Data critica:



Critica 3:
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Libro da cui e' stato tratto il film
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