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Good Morning Vietnam - Good Morning Vietnam

Regia:Barry Levinson
Vietato:No
Video:Creazioni Home Video, Touchstone Home Video
DVD:Buena Vista home entertainment
Genere:Drammatico
Tipologia:La guerra, Mass media
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Mitch Markowitz
Sceneggiatura:Mitch Markowitz
Fotografia:Peter Sova
Musiche:Alex North
Montaggio:Stu Linder
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Richard Edson, Tung Jhanj Tran, Bruno Kirby, Richard Portnow, Juney Smith, Chintara Sukapatana, Floyd Vivino, J.T. Walsh, Forest Whitaker
Produzione:Mark Johnson, Larry Brezner
Distribuzione:Buena Vista
Origine:Usa
Anno:1987
Durata:

122'

Trama:

Nel 1965, durante la guerra del Vietnam, l'aviere Adrian Cronauer viene inviato a Saigon e, in breve tempo, con suo programma radiofonico "Good Morning Vietnam" diviene il disk-jockey più amato dalle truppe americane. Ma il suo anticonformismo gli procurerà problemi con i diretti superiori. Difeso in prima persona dal generale Taylor, alla lunga Cronauer sarà accusato di collusioni con i Vietcong e costretto a tornare in patria.

Critica 1:Film sul Vietnam diverso dai soliti per il contrasto tra la drammaticità della situazione e la buffoneria dei personaggi che vi agiscono. Storia di un'educazione politica, ha per protagonista un eccellente Williams.
Autore critica:Laura e Morando Morandini
Fonte criticaTelesette
Data critica:



Critica 2:Tra il 1960, quando arrivano in Vietnam i primi consiglieri americani, e il 30 maggio 1975, giorno in cui le truppe vietnamite prendono definitivamente Saigon, il cinema statunitense si occupa in due sole occasioni, in maniera diretta, della sporca guerra. Nel 1964, Marshall Thompson dirige Commandos in Viet-Nam (A Yank in Viet-Nam); nel 1968, John Wayne produce e dirige I berretti verdi. Nell'ultima scena di questo film manicheo e filointerventista, Wayne regala il proprio berretto a un piccolo vietnamita, bisognoso come tutti i suoi compatrioti di protezione e di sicurezza. Al ragazzo che chiede cosa sarà di lui, Wayne risponde con l'arruolamento: “Mi occuperò io di questo, Berretto Verde”.
Il finale di Vittorie perdute (Go Tell the Spartans, 1978) di Ted Post, la cui azione si svolge, come nel film di Marshall Thompson, nel periodo degli osservatori militari, verso il 1964, ribalta la situazione di Berretti verdi. Un giovane caporale, unico sopravvissuto di un gruppo di consiglieri americani, viene a trovarsi, lui senza più armi, davanti ad un vietcong, vecchio e mezzo cieco, armato ma tremante di paura. Il caporale americano si allontana mormorando: “Torno a casa, Charlie, se mi lasciano andare”. Il vecchio Charlie, così erano chiamati i vietcong dai soldati americani, non spara. Anche Good Morning, Vietnam si svolge in quei primi anni di guerra, quando il coinvolgimento americano è ancora ridotto. Siamo nel 1965, proprio al momento dell'allargamento del conflitto. Le telescriventi battono i dispacci che annunciano l'inizio dell'escalation e l'invio di forti contingenti. Adrian Cronauer, l'incontenibile disc-jockey protagonista del film, arriva a Saigon, si fa un bel numero di amici vietnamiti, non pensa neppure alla lontana che tra di loro ci possano essere tanti Charlie, fa appena in tempo a scoprirlo che viene rispedito a casa dai suoi stessi superiori, troppo pericoloso, simpatico, turbolento, Wayne va in Vietnam per vincere e far proseliti. Il caporale di Post viene graziato dal vecchio vietcong e spera che anche i suoi generali lo lascino tornare a casa. Il dee-jay di Levinson, i suoi superiori in Vietnam non ce lo vogliono più.
La lista dei viet-film continua ad allungarsi. Solo nelle ultime due stagioni, si sono aggiunti Full Metal Jacket, Giardini di pietra, Hamburger Hill, Platoon, Hanoi Hilton, Saigon, Vietnam addio. L'analisi a distanza del cinema americano sulla guerra vietnamita ha dato vita ad un filone nel quale la compiaciuta tracotanza di John Wayne ha ceduto il posto ad un ripensamento penetrante. Solo due, abbiamo detto, i film sul Vietnam girati negli anni della guerra. Del Vietnam si parlava allora per vie traverse, ritrovando altri Vìetnam, altri eccidi nel proprio passato (Piccolo grande uomo di Arthur Penn, 1970; Soldato blu di Ralph Nelson, 1970), ridendo di altre guerre (M.A.S.H. di Robert Altman, 1970), presentando della guerra gli effetti interni agli States come in molti film sulla contestazione e sul rifiuto della chiamata alle armi (Alice's Restaurant di Penn, 1969; Fragole e sangue di Stuart Hagmann, 1970) o come nella lunga serie di film sui reduci (tra i migliori, The Visitors di Elia Kazan, 1972, e I guerrieri dell'inferno di Karel Reisz, che è già del dopoguerra, del 1978; tra i peggiori, Tornando a casa di Hal Ashby, sempre del 1978). Poi, alla fine degli anni Settanta, Il cacciatore di Michael Cimino (1978) e Apocalypse Now di Francis Coppola (1979) scendono nelle profondità simboliche e oscure di chi la guerra l'ha perduta e fatica ad accettare la prima sconfitta, non solo militare, della propria storia.
Il Vietnam degli anni Ottanta non è più gravato dai sensi di colpa. Alla guerra si può tornare sia per vincere, come fa Rambo, che per misurarne la drammatica verità (Platoon di Oliver Stone, 1986) e la nuda follia (Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, 1987). Il Vietnam si può adesso raccontare e considerare un luogo di ripensamento del proprio passato e insieme di applicazione della narratività cinematografica. La sporca guerra è diventata a pieno titolo uno dei possibili scenari cinematografici e Good Moming, Vietnam può operare un ulteriore allargamento dei modi con cui parlarne nella direzione della commedia.
Dopo tanti reduci, segnati per sempre dall'esperienza della guerra, Adrian Cronauer è invece un espulso, uno che si fa sbatter fuori, che capisce quasi subito che la guerra sarà sicuramente sporca, che non fa in tempo a vedere l'escalation ma la incrocia soltanto sulla strada del ritorno, all'aeroporto, dove stanno sbarcando lunghe file di soldati. Cronauer si guadagna l'espulsione con un comportamento esemplare. Assegnato alla radio con il compito di tenere un programma musicale, non sa cosa sia una guerra, non è in grado - e non è il solo - di individuare il nemico né gli piace averne, di nemici da uccidere. Quello che gli riesce bene è attaccare con acrobatiche esibizioni verbali i presidenti degli Stati Uniti, le gerarchie militari, la musica melensa delle orchestre d'archi. Cronauer conosce bene l'America e non sa niente del Vietnam. Per lui, le distinzioni non corrono tra la patria e i vietcong, tra la libertà e il pericolo del comunismo. Uno dei suoi spartiacque personali, molto più banalmente, comincia col dividere dai propri i beniamini musicali dei tenente Hauk, suo collega alla radio, autoproclamatosi fine umorista (“due mie barzellette forse appariranno su SeIezione). Di là, le orchestre di Percy Faith, Xavier Cugat, Ray Conniff e i gorgheggi di Paul Anka o Perry Como; di qua, Bob Dylan, i Rolling Stones, Wilson Pickett, James Brown, i Beach Boys.
Nella sequenza d'apertura, una voce suadente diffonde alla radio avvisi cretini sul come recuperare il proprio equipaggiamento o come frequentare le biblioteche militari, tutto su un sottofondo morbido di violini. Per Cronauer, appena sbarcato dall'aereo, “Mantovani si suona solo per chi non reagisce più alla morfina”. Non è un caso che gli ufficiali militari adottino le melodie orchestrali e detestino la turbolenza del rock. Cronauer ama il rock e non sopporta militari stupidi e uomini politici inaffidabili. Quando viene incaricato di preparare il resoconto di una conferenza stampa di Richard Nixon, che, per Cronauer, “è nato per essere preso in giro”, vi introduce delle domande irriguardose in cui si chiedono al futuro presidente pareri sui suoi testicoli, sulla vita sessuale con la moglie, su quanta marijuana abbia fumato in Vietnam. A scandalizzarsi sono gli ufficiali intermedi, quelli che credono alla guerra e alla propria missione. Più su, il generale Taylor, convinto che gli USA in Vietnam stiano commettendo un grosso errore, ha un'idea precisa su Nixon:“Non ci comprerei neanche una mela da quello”.
La guerra è ancora agli inizi; anche un generale può permettersi di difendere Cronauer e di pensar male di Nixon. Gli ufficiali stupidi, il tenente Hauk, il sergente maggiore Dickerson (quand'è infuriato, “ricorda tanto June Allyson, con quello sguardo così dolce”, lo sfotte Cronauer), i due gemelloni censori (“Arruolati che farai i cerchietti”, dice Cronauer nel vederli cancellare sistematicamente tutte le notizie), gli ufficiali sembrano tonti e basta, non sanguinari e vioIenti, quasi rappresentanti di un lato soft della guerra, che corrisponde appunto alle marcette, alle polke, ai valzer che trasmettono in radio.
La breve avventura vietnamita di Cronauer lo porta, invece, a scoprire il sangue, i morti, la guerra vera, quella che continuerà per altri dieci anni. I violini servono solo per tentare di nascondere, maldestramente, il napalm e le bombe. Appena arrivato a Saigon, Cronauer si diverte alla radio, insegue una ragazza, si trasforma in un simpatico e sfrenato insegnante pur di conquistarla. Fa anche a botte con dei militari americani, capelli a spazzola, squadrati come armadi, che vorrebbero buttar fuori dal bar il suo giovane amico vietnamita. Cronauer ne stende uno con una testata e per giustificarsi si rifà alla versione ufficiale usata a sostegno dell'intervento americano: “Siamo qui per difendere i vietnamiti”. Ma dov'è allora il nemico? Come riconoscerlo? Facendo alla radio l'imitazione di un agente segreto, Cronauer gli fa dire: “Incontriamo notevoli difficoltà a trovare chi è il nemico. Chiediamo alla gente se è il nemico e se dice sì gli spariamo”. E quando, saltato su una mina con la jeep, si perde nella giungla, impara che “trovarci il nemico è come andare a caccia con Ray Charles”. Sicuro e allegramente feroce nelle distruttive ironie verbali contro militari, politici, personaggi dello spettacolo, Cronauer è completamente impreparato a fare la guerra; addirittura non sa contro chi farla. Quando viene accompagnato al villaggio da Tuan, l'amico vietnamita, fratello della ragazza di cui si è innamorato, Cronauer fa lo stupido con un coperchio in testa e canta filastrocche per divertire i bambini. Quando scopre che Tuan è un vietcong, cerca di mostrarsi, senza troppa convinzione, stupito: “Ti ho dato la mia amicizia. E adesso mi dicono che il mio migliore amico è il nemico”. Tuan, con giusta determinazione, ribalta la prospettiva: “Siete voi il nemico. La mia famiglia è stata massacrata”. Cronauer sa che Tuan ha ragione. Non può far altro che metterla amaramente sul ridere: “Sono da cinque mesi a Saigon e scopro che il mio migliore amico è un vietcong. Che figura ci farà questo sul mio curriculum?”.
Con tutta la prudenza necessaria, Levinson, dietro la superficie della commedia, costruisce il ritratto di un pacifista congenito e di un divertito antimilitarista che non ha bisogno di grandi lezioni per imparare cosa sia una guerra. Una delle battute più azzeccate del film Cronauer la tira fuori quando il sergente maggiore Dickerson pensa di rimarcare la sua superiorità indicandogli i propri gradi sulla spallina: “Per te che significano tre sopra e tre sotto?”. Cronauer lo seppellisce: “Un'ammucchiata”. Miscelando il fastidio per l'autorità ai continui espliciti richiami sessuali, alla passione per la cultura del rock, Cronauer è un bell'esempio d'uomo portato per natura a rifiutare le versioni ufficiali, le guerre sante, i compiti storici. Le sole raffiche che gli piacciono sono quelle di parole. Davanti al microfono ed al piatto del giradischi, dà il meglio di sé, si trasforma in cento personaggi, li prende per i fondelli, gioca ad inseguire il ritmo della musica in un labirinto di suoni, versi e rumori. Da buon seguace del rock, carica le parole con la spinta del corpo, con una gestualità che, nascosta alla radio, diventa manifesta nello spettacolo improvvisato per strada davanti ai soldati. Dal vivo, l'energia travolgente di Cronauer si trasforma, contrappuntata dai primi piani dei volti dei giovani soldati, in un tenero e affettuoso saluto a chi nella guerra va a morire. E la sequenza successiva si fissa icasticamente in una raggiunta, definitiva chiarezza: Cronauer trasmette What a Beautiful World cantata da Louis Armstrong e Levinson la accompagna a immagini di elicotteri, risaie, lanci di napalm, cadaveri, arresti di vietnamiti, una ciabatta insanguinata, un soldato americano, solo, seduto sul bordo di un marciapiede.
A breve distanza di tempo, due film, tanto diversi nella forma espositiva, come Good Momíng, Vietnam e Full Metal Jacket, si somigliano nell'insistere, da posizioni opposte, sul potere magico della parola. Distruttivo e tragicamente formatore il linguaggio da caserma del sergente Hartman; corrosivo, quello altrettanto sboccato dei disc-jockey Cronauer. Le lezioni insultanti di Hartman avviano alla morte. I programmi sbracati e iconoclasti di Cronauer lo riportano indietro, lontano dal Vietnam. Anche la musica assume valenze del tutto contrarie. Il rock commerciale è usato da Kubrick per caricare la schizofrenica, ordinaria assurdità del vivere di guerra. E si mescolano insieme, a chiudere Full Metal Jacket, l'Inno a Topolino e, sullo schermo nero, il Paint It Biack dei Rolling Stones. In Good Morning Vietnam, il rock è ancora segnale di contraddizione, piccola speranza di ribellione, di anticonformismo, non risucchiato ed asservito.
Durante il viaggio di risalita sul fiume, verso Kurtz, in Apocalypse Now, mentre un soldato fa lo sci d'acqua, la radio di bordo parla dei vietcong, di Charlie; c'è un dee-jay che apre il programma con il grido di Cronauer “Godd morning, Vìetnam” e trasmette Satisfaction, la bandiera dei Rolling Stones, proprio il pezzo che Cronauer canta, imitando Mick Jagger, tra i soldati. Siamo, nel fílm di Coppola, sul finire degli anni Sessanta, pochi anni più tardi rispetto al 1965 di Cronauer. Il rock, lo spettacolo, l'esibizione del sesso, le conigliette offerte in pasto ai marines, assalite al grido di puttana) sono adesso ammessi e incoraggiati, anfetamine per la truppa. Messi da parte i violini, il rock accompagna e spinge verso la sconfitta il più potente esercito del mondo. La crepa aperta da Cronauer si va allargando.
Per un film basato in gran parte sui monologhi acrobatici di un Robin Williams strabiliante, il doppiaggio funziona come una ghigliottina. E l'edizione italiana di Good Morning, Vietnam non solo perde forza e brillantezza per colpa di un doppiaggio che non può assolutamente ridare il fuoco d'artificio sonoro dell'originale, ma è ancor più svilita da un'operazione di piallatura dovuta a quello che viene chiamato il lavoro di “adattamento”. Cronauer tira in ballo decine di personaggi, di nomi del cinema, della tv, dello spettacolo, del giornalismo, del mondo politico americano. L'edizione italiana ne cancella troppi senza pietà e altri, con tranquilla incoscienza, li trasforma, li “adatta”. Così, il maturo vietnamita, gay, proprietario del bar frequentato da Cronauer, è alla ricerca, nell'edizione originale, di una foto di Walter Brennan, nudo. Nell'edizione doppiata, l'hawksfordiano (dimenticato?) Brennan è cancellato e sostituito da Anthony Quinn. Un modo come un altro per schiacciare le sfumature e appesantire un piccolo film che della pratica della parola ha fatto il suo punto di forza. La versione originale con i sottotitoli è stata messa in circolazione in alcune grandi città. Poco amata dal pubblico, è stata presto ritirata. Chi vuole vedere davvero, e sentire, il film di Levinson non può che rifarsi all'edizione originale con sottotitoli. Anche Cronauer, quando va al cinema con la ragazza vietnamita e i suoi dieci parenti, si gode un musical da spiaggia con sottotitoli in tre lingue.
Autore critica:Bruno Fornara
Fonte critica:Cineforum n. 278
Data critica:

10/1988

Critica 3:
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Data critica:



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