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Siciliana ribelle (La) -

Regia:Marco Amenta
Vietato:No
Video:
DVD:No
Genere:Drammatico
Tipologia:Conflitti sociali, La mafia
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Marco Amenta
Sceneggiatura:Sergio Donati, Marco Amenta
Fotografia:Luca Bigazzi
Musiche:Pasquale Catalano
Montaggio:Mirco Garrone
Scenografia:Marcello Di Carlo
Costumi:Cristina Francioni
Effetti:
Interpreti:Veronica D’Agostino (Rita Mancuso), Gérard Jugnot (Procuratore antimafia), Marcello Mozzarella (Don Vito Mancuso), Lucia Sardo (Rosa Mancuso), Francesco Casisa (Vito), Mario pupilla (Don Salvo Rimi), Primo Reggiani (Lorenzo), Carmelo Galati (Carmelo Mancuso), Paolo Briguglia (Maresciallo Bruni), Lollo Franco (Maresciallo Campisi), Miriana Fajia (Rita bambina), Lorenzo Rosone (Vito bambino), Emanuela Mulè (Pubblico ministero)
Produzione:Tilde Corsi, Gianni Romoli, Simonetta Amenta, Marco Amenta E Raphael Berdugo Per R&C Produzioni, Eurofilm, Roissy Film (Parigi) in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Italia
Anno:2008
Durata:

110’

Trama:

Una mattina di novembre del 1991, Rita, una ragazzina di 17 anni, si presenta al Procuratore di Palermo per vendicare l’assassinio del padre e del fratello, entrambi mafiosi. Da quel momento, rinnegata e minacciata dalla famiglia e dai compaesani, ma presa sotto la protezione del giudice che la sostiene e che diventa per lei una figura paterna, Rita è costretta ad abbandonare la Sicilia ed esiliare clandestinamente a Roma. La giustizia sembra cominciare a prendere il suo corso, ma poi, anche il suo protettore viene barbaramente ucciso dalla mafia. La ragazza, rifiutando di seguire la stessa sorte, convinta di essere la prossima sulla lista, conferma tutte le sue dichiarazioni inchiodando alla sbarra i mafiosi che accusa. E sceglie, infine, un’estrema soluzione.

Critica 1:Roberto Saviano non è il primo eroe civile di un’Italia maledetta che ha bisogno di prodi (solo con la minuscola?), Brecht insegna, che combattano battaglie che competerebbero alle istituzioni. Sono i nostri esempi, la nostra coscienza civile e per questo sacrificio – che spesso diventa martirio – mettono in gioco vita, giovinezza e libertà. Ecco perché lo scrittore va sostenuto e protetto, e non solo dalla criminalità organizzata. Perché non deve finire come tanti, come quella Rita Atria, ad esempio, giovane donna sulla cui storia Marco Amenta ha costruito La siciliana ribelle. Orfana undicenne del padre boss e sconvolta poi dalla morte del fratello picciotto, prima per vendetta e poi per giustizia, decide di emanciparsi da mafia, omertà, maschilismo, ricatto e combattere, con il giudice Borsellino (qui Gerard Jugnot, ma è solo un’ispirazione), una guerra impossibile contro Cosa nostra. Per anni ha appuntato ogni movimento della città, ha visto, analizzato, fotografato il meccanismo infernale del suo paese. E ancora minorenne diventa la chiave di volta per un’inchiesta fondamentale. Le costerà tutto e tutti, ma non cederà. Una kamikaze della verità e della libertà che vincerà, pur perdendo tutto. Una storia bellissima a cui non serve metter vicino un film complesso: Amenta ha l’umiltà di costruire una struttura semplice, scegliere una protagonista con un viso atipico e potente (Veronica D’Agostino), tracciare un’opera didattica – giustissima, quindi, la collocazione in Alice nella città del Festival Internazionale del Film di Roma – a cui si perdona qualche ingenuità di troppo. Il cinema civile sta riprendendo piede in Italia: implacabile come Gomorra, visionario come Il divo, classico come La siciliana ribelle, poco importa, la battaglia tra forma e contenuto si gioca comunque su un terreno nobile. Anche se il modello del mafia-movie, in Italia, sembra ormai anacronistico, troppo “piovresco”. Un film per non dimenticare che la mafia non vince sempre. È “solo” che si compra troppo spesso l’arbitro.
Autore critica:Boris Sollazzo
Fonte criticaLiberazione
Data critica:

31/10/2008

Critica 2:Si chiamava Rita Atria e tutti gli italiani dovrebbero conoscere la sua storia. Ma in fondo la conosciamo già perché ce la portiamo dentro, sigillata in una memoria ancestrale che raccorda la cronaca e il mito, gli orrori del presente e i moniti del passato. Rita Atria si toglie la vita nel ‘92, nemmeno 18enne, ma viene da lontano. È un’eroina tragica, una ragazza che non sfida la Legge dello Stato bensì quella arcaica della sua comunità. Nel film si chiama Rita Mancuso, forse per ragioni legali e perché lo script di Sergio Donati e Marco Amenta mescola fatti e invenzioni. Sempre rispettando l’essenziale però, cioè la rivolta, la scoperta terribile della verità (il padre e il fratello, uccisi dai boss, erano piccoli mafiosi), il coraggio di affrontare la più estrema solitudine, la minaccia e l’ignominia sparsa su di lei da coloro che aveva smascherato.
Un personaggio così esigeva un’attrice d’eccezione. Veronica D’Agostino, già vista in Respiro di Crialese e nel Borsellino televisivo di Tavarelli (curiosa coincidenza), dà alla sua Rita un affanno, una verità, un’innocenza, un senso dell’assoluto purissimi, quasi infantili, che un’attrice più esperta difficilmente avrebbe raggiunto. È la prima carta vincente di un film un poco ibrido, sospeso tra la furia degli eventi e le necessità quasi didascaliche del racconto, la voglia di testimoniare, di calcare i contorni, cercando di evitare i cliché depositati sul tema da tanti anni di cinema e tv sulla mafia. L’altra è il linguaggio emotivo scelto da Amenta, che da fotoreporter e documentarista (suoi Il fantasma di Corleone, su Provenzano, e Diario di una siciliana ribelle, sempre su Rita Atria), mescola registri diversi. Come un pittore che prima fotografa una scena poi la ridipinge con altri colori, più cupi o squillanti, cercando nel contrasto cromatico una verità allucinata più forte del nudo fatto di cronaca. Fondamentale in questo senso la fotografia di Luca Bigazzi. Ma tutto il cast, straordinario, va in questa direzione. Anzi si rimpiange che il film non sia ancora più radicale e si fermi un po’ a metà strada, come se lo stile potesse sovrastare il racconto. Ma anche così, con i suoi scompensi, La siciliana ribelle prende alla gola. E il fatto che nei panni di Borsellino ci sia un grande attore francese come Gérard Jugnot non è per una volta semplice calcolo di coproduzione, ma adesione intima, appropriazione, attonita scoperta di un mondo che non appartiene solo a noi.
Autore critica:Fabio Ferzetti
Fonte critica:Il Messaggero
Data critica:

27/02/2009

Critica 3:Quanto c’è di reale nella ricostruzione e nelle emozioni profuse in La siciliana ribelle? Molto secondo l’autore e anche secondo gli attori che hanno fatto di tutto per conoscere molte delle persone e delle personalità che sono confluite nei loro personaggi. Su tutti chiaramente il regista Marco Amenta è quello più direttamente coinvolto: «Sono rimasto in sicilia fino ai 18 anni, ho fatto il fotogiornalista per “Il Giornale di Sicilia” poi ho fatto documentari sulla mia terra anche dall’estero. In quegli anni ho fotografato morti ammazzati, magistrati poliziotti e figli di mafiosi, conoscendoli di persona, personaggi sia positivi che negativi, ho conosciuto anche i figli di Riina, per dire. In questo senso ho avuto una testimonianza diretta di quello che davvero sono. Spesso al cinema ci si rifà all’iconografia fatta da altri film sulla realtà, sbagliando a copiare una cosa che è già una copia. Per me invece era importante ispirarmi direttamente alla realtà, ispirarmi a personaggi veri, magari non tutti coinvolti tutti nella stessa storia, ma veri». Anche l’attrice protagonista Veronica D’Agostino, scelta dal regista proprio per il suo essere quasi incontaminata dall’urbanismo, ha conosciuto la Rita originale e in lei ha visto «una ragazza forte e determinata che cercava di seguire i suoi ideali, che non voleva rimanere nella sua isola ma andare via, provare altre sensazioni e riscoprirsi. Dunque prima l’ho vista come un ragazza che voleva provare altro e solo poi come una ragazza che si è messa a combattere qualcosa di più grande di lei».
La siciliana ribelle è stato girato contemporaneamente al film di Matteo Garrone dunque il paragone arriva inevitabile, specialmente considerando l’ottica molto poco poetica e romantica che i due film danno del sistema mafioso ma anche il modo quasi semidocumentaristico con cui vanno a scavare, facendo un largo uso di attori non professionisti, di dialetto e di documentazione sui fatti veri. Tutte componenti che non sono state riprese da uno vedendo i film dell’altro proprio per la contemporaneità delle riprese.
«Volevo rappresentare le cose allo stesso modo con cui sono state fatte poi in Gomorra, non volevo un boss interpretato da un bell’attore ma qualcosa di reale “racconta Amenta”. Alcuni attori sono non proessionisti altri invece si e poi abbiamo usato spesso il dialetto sottotitolandolo perchè dà molta veridicità ma anche libertà per gli attori di far quello che vogliono e portare un contributo vero. Nonostante ci fosse una sceneggiatura molto scritta c’era anche molto spazio per improvvisare». Eppure sempre Amenta ricorda come molti elementi tipicamente drammaturgici sono stati introdotti anche grazie all’apporto fondamentale del grandissimo Luca Bigazzi alla fotografia: "C’è una grossa divisione tra la prima parte della vita di Rita, quella felice che è resa a livello estetico grazie all’uso della pellicola 35mm, grazie a movimenti di macchina stabili, alla luce del sole ecc. ecc. E poi la seconda parte, quando gli omicidi distruggono il suo mondo e tutto cambia. Quella parte l’abbiamo girata in super16 con una grana più grossa, inquadrature strette, macchina a mano e ambienti chiusi per dare l’idea dell’instabilità che mette in discussione il suo mondo e come sia costretta ad affrontarne uno nuovo. Un nuovo mondo che non le appartiene. Per me era importante la sua ricerca di una nuova identità e di emancipazione femminile".
Autore critica:
Fonte critica:dal pressbook del film
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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