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Caso Martello (Il) -

Regia:Guido Chiesa
Vietato:No
Video:Pentavideo, Medusa Video (Pepite)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La memoria del XX secolo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Guido Chiesa
Sceneggiatura:Guido Chiesa, Antonio Leotti
Fotografia:Gherardo Gossi
Musiche:Giuseppe Napoli
Montaggio:Claudio Cormio
Scenografia:Vera Castrovilli
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Felice Andreasi (fratello di Martello), Giorgio Bocassi (Finotti),Vittorio Catti (Filippo Martello), Valeria Cavalli (Simona), Luigi Diberti (Comandante Bill), Bruno Gambarotta (Natale Fresia), Alberto Gimignani (Cesare Verra), Roberta Lena (Pina), Vittoria Lottero (Rita Martello), Ivano Marescotti (Dott. Schiller), Giovanni Moretti (Avv. Bosco), Cesare Peracchio (Don Nino), Barbara Valmorin (la locandiera)
Produzione:Brooklyn Films Srl, Fomar Film Srl, Surf Film Srl
Distribuzione:Mikado
Origine:Italia
Anno:1991
Durata:

92'

Trama:

A Torino, il dottor Silvio Schiller, nuovo direttore della compagnia di assicurazioni Clessidra, affida al dottor Cesare Verra, assicuratore rampante, il caso Martello, che da 40 anni è in attesa d'essere liquidato, mentre ogni anno l'avvocato Bosco invia una raccomandata all'assicurazione per interrompere la prescrizione. La pratica sembra semplice: nella notte del 27 agosto 1950, mentre guida nei pressi di San Benedetto Belbo, Antonio Martello finisce con l'automobile in uno scavo mal segnalato e sua moglie muore sul colpo; ma lo strano è che il pagamento del premio non è stato mai richiesto. Adesso, per gli interessi composti, Martello deve avere oltre trecento milioni, che Schiller vuole pagare subito. Dice dunque a Verra, cui consegna anche il suo contratto da firmare, che se egli riuscirà sarà il nuovo direttore a Torino, altrimenti verrà licenziato.

Critica 1:Questo film di esordio del giovane regista Guido Chiesa, il quale rivela ancora qualche impaccio è però interessante per due motivi: l'ambiente che descrive, coi paesaggi nebbiosi delle Langhe, le vecchie case abbandonate e cadenti, la diffidente omertà degli abitanti e la storia, che narra, con la tecnica del giallo. Il mistero, che si svela alla fine è il dramma di coscienza di un vecchio partigiano. Ma il giovanotto, che risolve il caso, esce da questa esperienza completamente cambiato dentro, tanto da strappare un vantaggioso contratto di lavoro, rinunciando ad un brillante avvenire. I partigiani, che dominano la vicenda come ombre incombenti, si vedono all'opera soltanto in due brevissime sequenze (una al principio e una alla fine del film). Felice Andreasi, efficacissimo, nella parte di Antonio Martello.
Autore critica:
Fonte criticaSegnalazioni Cinematografiche
Data critica:



Critica 2:A coloro che si sono stupiti per il fatto che l'esordio nel lungometraggio da parte del giovane torinese Guido Chiesa non contemplasse - almeno apparentemente - i suoi principali interessi del passato più o meno recente, si può rispondere invitando ad una semplice considerazione sul film. Il caso Martello è una ricerca intorno alle proprie radici per cogliere degli spunti sulla realtà odierna. Una storia tutta italiana, o -meglio ancora - tutta piemontese, lontana da quei percorsi anglofoni e underground che hanno segnato il Chiesa pubblico. Stranger Than Paradise e Down By Law come assistente di Jarmusch, Alphabet City con Amos Poe, ma anche il video musicale Un Dieu manquè (1984) e i cortometraggi Give Me A Spell (1985) e Black Harvest (1986); a cui si deve aggiungere la grande passione per i suoni dell'America contemporanea. Un bell'handicap da cui partire, se si intende parlare delle Langhe e della Resistenza. Ecco perché chi conosceva i personaggio poteva dirsi scettico sulla riuscita del film. Dimostrando tuttavia di essere un critico disattento quando parla di un'opera d'esordio strana e anonima poiché senza padrini, dal momento che sembra dimenticarsi della lezione che le preziose esperienze americane non potevano non avergli lasciato: quelle di un cinema che rigorosamente deve parlare di sé, della propria vita, del proprio passato, da cui è meglio ancora se si traggono attori-personaggi e situazioni.
Già nel 1985 a New York Chiesa aveva scritto una sceneggiatura dal titolo La guerra di Johnny, che combinava in un unico intreccio tre racconti dello scrittore langarolo Beppe Fenoglio. Un autore che nel corso dei quindici anni seguenti la Liberazione ha raccontato la guerra partigiana facendo a meno di quel carico celebrativo che, insieme alla componente ideologica, sembrava essere l'unico approccio possibile ad una fase così complessa del recente passato. Fenoglio scelse così di darne una rappresentazione vera, senza moralismi o eccessive seriosità, in ogni caso sempre poliedrica e contraddittoria. Con una sobrietà che ha portato Guido Chiesa ad accostarlo a Melville e Dostoevskij per la capacità di dare un respiro universale a contenuti apparentemente provinciali, nell'affrontare i quali si finisce per parlare dei grandi temi dell'uomo. Così, attraverso una modalità di sguardo lucida e fredda, la mdp fa proprio il punto di vista dello scrittore di Alba, muovendosi con spietata scientificità in un mondo che sceglie sì di osservare dall'interno, ma evitando suggestioni mitiche o vagheggiamenti della memoria, come nel caso della letteratura di Cesare Pavese e, più recentemente, del film autobiografico di Silvano Agosti sulla sua infanzia in tempo di guerra. Si concede soltanto un paio di inquadrature inclinate quando la Resistenza è messa in scena direttamente, tributo ai vigneti e alle scarpate declinanti sui quali incespicano i personaggi di Fenoglio.
Riguardo ad una civiltà contadina che è andata sbriciolandosi a poco a poco, Chiesa compie scelte molto semplici ma anche assai precise, tenendosi lontano da certe suggestioni del primitivo (Pasolini) da un mondo mitizzato (Pavese, l'America, Paesi tuoi) o da uno inseguito dalla memoria e irrimediabilmente perduto (Pavese, La luna e i falò). La prima scelta è di tipo narrativo: l'ambientazione al presente della storia, facendo rivivere la Resistenza nei dialoghi asciutti e taglienti dei personaggi, sopravvivenze di quel linguaggio fenogliano duro e carico di tensione che è espressione di rapporti violenti e graniticamente arroccati su una temporalità atavica. È sufficiente la vista di un colore (il rosso del vino versato sulla tovaglia) o la rievocazione di un fatto (l'accenno alla misteriosa scomparsa di una persona del luogo) per restituire la vita ad una ferita ancora aperta e pulsante. Un modo per mostrare che la dialettica tra valori profondamente diversi come quelli che animarono la guerra partigiana, si rinnova nelle contraddizioni (non meno sofferte e irrisolte) del presente. Un presente dal punto di vista ideologico tanto più precario, se si tiene conto che rispetto a quello che è certo il motivo centrale dell'opera di Fenoglio - il dilemma della responsabilità individuale nei destini collettivi -, esso registra una frattura sempre più difficilmente sanabile.
Chiesa e il co-sceneggiatore Antonio Leotti hanno costruito una storia che risente in modo decisivo di alcuni caratteri creati da Fenoglio, e del suo modo di accostarli: dando vita attraverso il ricordo della gente ad una vicenda privata di amore e tragedia, imperniata su quel personaggio di Fulvia (che nel film non appare mai) che è un chiaro tributo all omonima ragazza di Una questione privata. Fulvia come Pina, figure dalla valenza positiva, le sole portatrici di certezze su ciò che ha valore e su ciò che non ne ha. Un insieme di spirito libero e di attaccamento alle origini: sono figlie di madri che rappresentano la terra, la conservazione di legami atavici, ma hanno in più la possibilità della comunicazione con l' esterno.
Inoltre, e più significativamente, il protagonista Cesare Verra matura nel corso della vicenda quell'inquietudine vitalistica tipica del partigiano Johnny, un uomo che fa del combattimento contro se stesso la propria ragione di vita - così come l' Antonio Martello che acquista consapevolezza delle proprie colpe e a trent'anni decide di non toccare mai
più una donna -, nella ricerca costante di ragioni per la sua rivolta. Chiesa sceglie Verra per resuscitare la Resistenza come valore fondamentale per capire il presente, per sbatterla in faccia a quelle ultime generazioni dalle quali è stata rimossa con troppa fretta e superficialità, complice la visione nell'insieme destoricizzante che ne è stata fatta. Lo fa, come Fenoglio, parlando di grandi temi esistenziali: l'assurdità e la casualità della morte, la scelta e il caso, la violenza come non-soluzione, l'amore come struggente disperazione, il senso tragico del vivere.
Proprio perché si nutre di un fatto accaduto quarant'anni prima il tempo del racconto, Il caso Martello è tutto sviluppato in una dimensione molto delicata qual è quella che mette a confronto passato e presente. Lo fa con alterni risultati. Sebbene da subito questo confronto si presenti come scontro. Quello tra città e campagna, prima di tutto. Risolto a livello stilistico liquidando Torino con una breve ed immobile inquadratura sulla centrale Piazza Vittorio e con una serie di inquadrature dall'auto in movimento, tra insegne dei supermarket e cavalcavia che sfiorano i balconi dei palazzi. Il resto è campagna, o avvicinamento ad essa, con una significativa attenzione per le direzioni geografiche. Si tratta di frammenti dei percorsi di Cesare Verra, dove i dia-loghi esprimono spesso la diffiden-za (“Lei è delle tasse?”); quando non lasciano il posto al vuoto della natu-ra, tagli “alla giapponese” - ma è chiaro che il riferimento è ad Ozu (come non notare i panni stesi ad asciugare al sole nel cortile dei Mar-tello?) che suggeriscono come la verità definitiva sugli uomini sia per sempre perduta nei luoghi che li hanno visti protagonisti, sulle rive di quel Belbo che scorre impassibi-le e che sicuramente racchiude ogni segreto. Per coglierne qualche por-zione si deve far scivolare lenta-mente la mdp, lasciando che i per-sonaggi e i rapporti tra di essi si svelino gradualmente, come in quella che è la scena più intensa del film, quando un movimento di macchina lento e leggero porta lo sguar-do di Cesare da Pina su Antonio, rivelando la profonda umanità del-la sua voce (e qui l'identificazione tra l'attore e il personaggio è degna dei trascorsi americani del regista). Ma campagna è anche quella dimensione particolare della parola che glissa e si tiene lontana da ogni tipo di affermazione, una non-comu-nicazione che ha ritmi e tonalità diverse dalla parola della città, costruita su di una temporalità bre-vissima, coincidente con quella di una segreteria telefonica. Le due realtà si ispirano a modelli analo-ghi, sottolineati dall'esibizionismo tipico della provincia imitatrice: è un' auto rossa fiammante, che pun-tuale, ogni sera si scaglia giù per le strade di San Benedetto, a ricorda-re lo scorrere del tempo.
Il resto del confronto è lasciato ai suoni. Una scelta coraggiosa, quella di usare una musica non di commento ma agente di un discorso altro. Tanto da andare, in alcune occasioni, oltre le possibilìtà del confronto, non trovando in un paesaggio che è obbligatoriamente (è l'autunno della Langa) freddo, inespressivo, neutro, l'interlocutore ideale sul quale costruire uno stridore sofferto. Rimane la confusione totale del personaggio che, immerso in una dimensione prima esasperatamente rifiutata, alla fine non riesce a sottrarvisi e a tornare a pensare come prima; la musica del suo cd manda sonorità distorte e graffianti: altro non sono che la risultante di un confronto che è ormai troppo avviato per non venire risolto.
Autore critica:Umberto Mosca
Fonte critica:Cineforum n. 315
Data critica:

6/1992

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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