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Uomo di Aran (L') - Man of Aran (The)

Regia:Robert J. Flaherty
Vietato:No
Video:Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede
DVD:
Genere:Documentario
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Frances Flaherty, Robert J. Flaherty
Sceneggiatura:Frances Flaherty, Robert J. Flaherty
Fotografia:Robert J. Flaherty
Musiche:John Goldman, John Greenwood; motivi tradizionali irlandesi
Montaggio:John Monck
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Colman King (l'uomo di Aran), Maggie Dirrane (sua moglie), Michael Dillane (il figlio), Pat Mullin (predatore di squali), Patch Ruadh (predatore di squali)
Produzione:Michael Balcon per Gaumont/British
Distribuzione:Cineteca Nazionale
Origine:Gran Bretagna
Anno:1934
Durata:

70’

Trama:

E' la possente e continua lotta con il mare descritta attraverso squarci di vita di poveri pescatori. Trama, vera e propria, non c'è, come l'avventura, ma qui si rivela al vero la semplice ed eroica esistenza in quel meraviglioso e pauroso ambiente oceanico.

Critica 1:La vita di una famiglia di pescatori su una delle tre isole di Aran, al largo della costa occidentale d'Irlanda, alle prese con una natura ingrata (senza alberi) e un mare spesso tempestoso, il solo padrone odiosamato che questi uomini indipendenti riconoscono. Prodotto dalla Gaumont-British, costato molti mesi di lavorazione sull'arco di tre anni e molte migliaia di metri di pellicola impressionata, è la punta più alta della scuola britannica del documentario, e un grande poema audiovisivo sul conflitto dell'uomo contro la natura. Definito un documentario poetico, ma l'accento cade sull'aggettivo: R.J. Flaherty non esita "a ricostruire episodi, come la celeberrima caccia allo squalo, che non corrispondono più alla vita quotidiana dell'isola, una pratica in disuso da anni" (Emanuela Martini). Primo premio al Festival di Venezia 1934.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:La « British Gaumont » dà mezzi sufficienti per la lavorazione e per il lungo periodo (1933-1934) in cui Flaherty insieme alla moglie e ad altri collaboratori rimane nell'isola di Inishmore a ovest dell'Irlanda, nel gruppo delle Aran. Il regista si installa in una casupola diroccata e vi allestisce il laboratorio. Un vecchio generatore che funziona a petrolio, fornisce l'energia elettrica. Le difficoltà sono enormi ma non scoraggiano Flaherty, che si immerge nella vita quotidiana del piccolo gruppo di abitanti, ne condivide i disagi, i rischi, le sofferenze e le soddisfazioni.
Un minimo di rielaborazione del materiale è tuttavia necessario. La famiglia dell'uomo di Aran sarà ricostituita scegliendo alcuni abitanti dell'isola. Maggie Dirrane sarà la madre, Michael Dillane il figlio, Il pescatore, il personaggio centrale della narrazione, sarà Colman King, un fiero tipo d'isolano. Il regista li pedina nel loro abituale tragitto lungo i sentieri aspri delle colline, delle spiagge, nei momenti di lavoro sulle barche, o sulle reti; li riprende quando raccolgono le fascine per il fuoco o si procurano l'olio per le lampade, oppure mentre sono impegnati nella terribile fatica di ogni giorno, la preparazione del campicello con le alghe e quel poco di terra che riescono a racimolare. Questi uomini conducono una esistenza aspra, ai limiti del sovrumano, prigionieri delle tempeste e dei venti, su quegli isolotti avarissimi di vita e di alimenti che frangiano di scabre rupi il livido e furibondo oceano. Il regista li segue lui stesso con difficoltà mentre strappano all'oceano una preda, alla rupe una zolla; in tempi di attrezzatissime équipes cinematografiche, la sua spedizione può contare sull'opera sua, della moglie, e di un solo assistente. Nel cottage rustico sviluppa e stampa la pellicola, man mano che essa viene impressionata.
Il regista diffida dell'imprevisto. Si aggira fra le scogliere per mesi e mesi, studia i segni che indicano il variare delle stagioni. Guarda, osserva, scandaglia, cancella, cambia angolo, muta inquadratura; seleziona, medita, ricompone, ritorna a riprendere lo stesso luogo in un altro momento del giorno, con un diverso tono luminoso, ma soprattutto non perde mai di vista questo gruppo di pescatori in cui tutti si prodigano come hanno sempre fatto, sin da tenera età, nello sforzo comune per vivere. Come nota subito uno dei critici più attenti, in occasione della presentazione al Festival di Venezia del 1934, « il regista evita il pittoresco mistico e il grandguignolesco che "la infernale bellezza del luogo" potrebbe suggerire e quasi determinare » (S. De Feo).
Il ritmo profondo che scorre come un filo rosso dentro le sequenze è il rispetto per il lavoro, questo travaglio indefesso, costante, questo pensiero dominante anche nel riposo, che vigila nella mente e nei muscoli degli uomini (e delle donne) di Aran. Si veda l'estrema cura di analisi con cui Flaherty segue la preparazione del campicello, i gesti con i quali tutti collaborano a infrangere e spianare la rupe, i movimenti con cui essi posano le scaglie di pietra, per poi farvi sopra un letto di alghe e stendere su questo strato un manto lieve di terra, che poche ore prima hanno sottratto all'avara natura dei luoghi. La sequenza quasi misteriosa che l'ha preceduta mostrava primi piani e dettagli di mani che scavano con le unghie nelle fessure delle rocce, che si passano in un rito cerimoniale manate di terra per versarle nelle gerle, alzate poi sulle spalle con tutta la tenerezza che si porrebbe nel trasportare e curare un essere amato.
Non meno suggestiva - nel suo metodo di tematizzazione, nel ben riuscito accavallarsi delle immagini, nell'equilibrio tra un tono idillico e un tono epico suggerito dall'ambiente maestoso e rupestre - è la sequenza della pesca del giovanissimo Michael che dall'alto di uno scoglio a picco sul mare fa scivolare la lunghissima cordicella a cui è fissata l'esca. Ogni snodo del corpo, delle braccia, ogni rapporto geometrico e fluido dello spago con le mani, con le dita del piede (uno strano ma sicuro stabilizzatore dello strumento per pescare) sono segmentati nel giusto tempo, nella giusta misura, con una prosodia che è esattezza, chiarezza e diventa poesia solo per la essenzialità del discorso, per il tono senza fronzoli e nello stesso tempo inedito su un'attività umana misconosciuta.
Naturalmente, Flaherty non evita del tutto il grande affresco atmosferico, visto appunto come qualcosa di materiale che circonda la vita degli umili ma testardi pescatori: la prima e l'ultima sequenza del film sono dedicate alla introduzione e alla conclusione di una grande tempesta sull'oceano. Il gusto per la realtà, per i suoi tessuti interni, per lo splendore talvolta oscuro delle sue forze, è espresso con estrema sagacia dall'obbiettivo del regista. C'è talvolta qualche striatura michelangiolesca, qualche sovratono, ma in genere i colori sono quelli reali, scelti bene e senza «overstatement» tra gli infragrigi e gli ultraneri delle nuvole, il medio colore brunastro delle scogliere, il bianco rilucente delle onde sugli scogli scoscesi e nerastri.
I movimenti del mare infuriato, la risacca ribollente, il tono generale di combattimento tra i due poli della natura (questo momento dialettico di scontro che pure si rivelerà necessario nella storia dell'uomo di Aran) sono resi senza retorica. Né il rasserenarsi finale prelude ad una prospettiva idilliaca verso l'utopia, verso l'Eldorado. Nelle striature grigie fra le nuvole bianche che si squarciano in un sereno maestoso, c'è ancora il monito che la vita continuerà ad essere lotta; lotta degli elementi tra loro, dell'uomo contro gli elementi, del clima contro l'uomo. Questa lotta è il sale dell'esistenza, di cui la coscienza e il lavoro non possono non tener conto.
La barca in cui King Colman si avventura a pesca o alla raccolta dei rottami utili per l'inverno, per il fuoco, per la sopravvivenza, equivale a uno strumento familiare: sta a questo gruppo umano come l'aratro sta al contadino. Su di essa infatti gli uomini di Aran vivono in equilibrio, con naturalezza, seguendone le scosse, i rullii, i beccheggi quasi fossero essi stessi una parte dello scafo, che non si farà staccare tanto facilmente, Quando le ondate furenti scaraventano la barca contro gli scogli, l'uomo di Aran, appena sopravvissuto alle forze ostili, lancia all'oceano uno sguardo di sfida ma senza temerarietà, come necessitato da una vigoria interna, da una naturalezza indomita, perché abituato a quelle vicende che indicano come egli riprenderà il suo posto, deciso a ricostruire la barca e ad esporsi di nuovo al pericolo.
È un realismo al limite, che sfiora di continuo il simbolismo. Eppure lo stile asciutto ci ricorda che anche questo tipo di esistenza è normale. (…) Questo mescolare il realismo col mitico appare proprio il rischio più alto che può correre il documentario, ma c'è un rapporto ben calibrato tra l'emotivo ed il razionale, tra il descrittivo e l'impegnato sul piano epico-sinfonico. sinfonico. L'impressione generale è quella di un racconto fisso alla dura, intima misura del quotidiano anche se in un habitat fuori dell'ordinario. Molti altri episodi confermano la cifra realistica, senza risonanze magniloquenti: si ricordi la breve ma succosa sequenza in cui la madre scende alla scogliera e posa la bimba a ridosso di uno scoglio, avvolgendola con la sua gonna; poi sui due lembi pone con gesti ieratici e affettuosi due pietre perché il vento non sollevi questo involto così importante per lei, per la continuità della vita e della famiglia (un presepe rupestre e marino, senza un rigo di commozione superflua). Oppure si ponga mente alla cadenza con cui è impostata una sequenza stereotipa ma che finisce per assumere un significato profondo: il ritirare la rete, con gesti calmi, monotoni, apparentemente poco energici, prima che sia strappata dal mare che sta andando in burrasca. (…)
In Man of Aran è però sempre prevalente la dimensione umana. Il ritratto della natura è correlato all'uomo, converge verso il sociale non verso l'astratto: i pescatori sono al centro della realtà, come lo erano Nanook e i suoi familiari. È il loro lavoro trasformare la terra, lavoro anche qui rudimentale ma di cui il regista porta alla luce tutti i percorsi di una strategia che riesce a trarre profitto dai più semplici strumenti e dalla terra meno generosa.
La scansione narrativa, la stessa sintassi procedono su una linea molto chiara, consequenziale: senza incidentali, senza inserti arbitrari, senza spostamenti dei nuclei in anticipo o in ritardo. La strutturazione, la sua automodificazione e autoregolazione, sono in sintonia con la natura dei luoghi e delle persone che devono essere rappresentate, comunicate, spiegate nei loro significati ad un pubblico lontano. I punti nodali della narrazione non possono non trovare corrispondenze ed analogie nella posizione che hanno i loro referenti (gli oggetti e gli uomini simbolizzati con i segni figurativi e dinamici del film).
Il documentario è per Flaherty una scuola di prosa, una lingua tutta cose e tutta fatti, che rifiuta ogni slancio platonico, ogni idealizzazione. Anche quando rivela brividi o assume ritmi di poesia, non è un linguaggio d'invenzione ma di rispecchiamento: tende a cogliere con estrema tensione lo sviluppo dei fenomeni, per banali che possano apparire, e a collegarli in una ampia rete insieme con i cerchi concentrici della grande natura che li circonda, li influenza o li determina. Non dà corpo alle ombre (bianche o brune che siano), non amplifica gli «idola» dell'immaginazione, non moltiplica i simulacri della fantasia cara ai viaggiatori che tornano a narrare meraviglie di terre boreali o dell'ultima Thule o di Finis Terrae, ciarlando di mostri, angeli, fantasmi o demoni. Estrae dalla realtà del lavoro e della pena quotidiana i suoi individui attivi e i suoi oggetti, li traduce in segni filmici; li mette a fuoco, li collega senza voli e senza il gusto di una algebra mentale troppo astratta o troppo decantata rispetto al materiale di partenza. (…)
I procedimenti descrittivi di Flaherty, per la loro scarsa tessitura e l'intrinseca qualità realistica, eludono ogni tentazione di estasi per il bello. L'esploratore fa i conti con i fatti che accadono nel corso del suo non breve soggiorno, settimana dopo settimana, minuto per minuto. A lui tocca selezionare solo quelli che sono esponenziali di una situazione più diffusa, di un'abitudine più radicata, di una consuetudine più inveterata. Per un senso di economia narrativa (nonché finanziaria) egli sa bene che il prodotto finale sarà il riassunto di ciò che gli è capitato di vedere con i suoi occhi, sarà la cronaca in profondità delle vicende a cui ha partecipato, presso una popolazione dell'estremo Nord o dell'estremo Sud o presso una comunità isolana a pochi minuti di volo da Londra.
Il suo metodo è radicalmente realista. Nel suo modo di formalizzare la realtà, la natura non viene privata delle sue strutture nucleari; il film diviene strumento dell'atto conoscitivo, senza procedere per astrazioni; il regista sceglie i contrassegni del mondo in maniera che tra visione e cosa vista abbia luogo un'influenza continuativa e reciproca. Le connessioni ricercate sono quelle molteplici e coassiali che sussistono nella realtà, non quelle perimetrali e filtranti di carattere puramente teoretico. Come dicevamo altrove: «I personaggi sono tipi, non figure immobili, le situazioni sono fatti dinamici, non assiomi od operazioni algebriche; sono logaritmi in sviluppo (verso l'esterno o verso l'interno) non numeri dati e fermi».
La posizione di Flaherty di fronte alla realtà è quella di una reattività complessa e colorita. È una situazione di correlazione, di transazionalità che ha solo l'apparenza di un'arbitrarietà soggettiva: è un metabolismo che digerisce lo spazio visivo (l'autore si pone al suo cospetto e lo chiarisce senza scheletrizzarlo in formule e senza sommergerlo con veli di seta o di falsa luce). Il documentarista assume una completa responsabilità nei confronti della realtà, pur scartando le evocazioni di natura sensoriale stimolate dagli oggetti, specie da quelli più strani che sarebbero in un certo senso i più « informativi ». Egli non postula affatto che l'organizzazione della immagine filmica debba dirigersi verso una configurazione dal carattere inaspettato, insolito o addirittura straordinario (concettualmente insostenibile); al contrario, sostiene che il contenuto e le forme di rappresentazione debbono avere affinità col contenuto e le forme di rappresentazione tradizionale (cinegiornali, fotografie) pur superandole e intensificandole nella elaborazione di una tecnica di presentazione (dinamica, compositiva, angolatrice, ecc.) che sia inedita o certamente non di ricalco. (…)
Autore critica:Antonio Napolitano
Fonte critica:Robert J. Flaherty, Il Castoro cinema
Data critica:

7-8/1975

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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