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Essere e avere -

Regia:Nicolas Philibert
Vietato:No
Video:Bim
DVD:Internazionale
Genere:Documentario
Tipologia:Il mondo della scuola - Bambini
Eta' consigliata:Scuole elementari; Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura:
Fotografia:Fatell Djian,Laurent Didier,Christian Guy
Musiche:
Montaggio:Nicolas Philibert
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Georges Lopez (il maestro), Alizè, Axel, Guillaume, Jessie, Johan, Johann, Jonathan, Julien, Laura, Lètitia, Marie-Elisabeth, Nathalie, Olivier (gli alunni)
Produzione:Maïa Films - Arte France Cinéma - Les Films D’ici - Centre national de documentation
Distribuzione:Bim
Origine:Francia
Anno:2002
Durata:

104'

Trama:

Anche in Francia, in alcune zone isolate, alle scuole elementari ci sono ancora esempi di "classi uniche", cioè di classi dove un solo maestro insegna contemporaneamente a bambini che frequentano dalla prima all'ultima classe del ciclo. Questo film racconta la vita di una di queste classi nella regione dell'Auvergne.

Critica 1:Essere e avere, prima di diventare un dilemma esistenziale o un rompicapo irrisolvibile, sono una filastrocca buffa e faticosa che si impara alla scuola elementare.
Ed è proprio lì che Nicolas Philibert (il regista) è andato a rintracciarli: un ritorno all’origine della conoscenza e alla formazione della coscienza, con il desiderio (questa seconda volta) di testimonianza.
Philibert ha messo la sua macchina da presa dentro l’unica aula di una scuola elementare della campagna francese, e ha osservato l’intero anno scolastico dei bambini e del loro maestro.
La prima cosa che si nota è la bravura estrema con cui è riuscito a mimetizzare, “nascondere” il suo strumento: la macchina da presa, che in quanto strumento, segna in ogni caso, almeno la distanza (focale) tra chi guarda e chi è guardato. Invece in questo lavoro lo sguardo è delicato, attento a non far rumore o intromettersi troppo precipitosamente negli affari altrui, per poter cogliere con pienezza e autenticità le emozioni in gioco.
La mimetizzazione della macchina da presa è talmente riuscita che fa pensare a quelle scene da fumetto in cui i rapinatori entrano nella casa da razziare, e riescono a ingannare il cane da guardia coprendo con la carne il proprio odore e quello delle loro armi; ecco in questo film la macchina da presa è come se fosse avvolta in una immensa polpetta di carne…, di giocattoli.
L’autenticità che Etre et avoir ci mostra non è quella ricostruita del cinema, ma quella pura della “realtà”: questo è un documentario, e non una rappresentazione, un film. Ma non è un documentario dal semplice profilo cronistico, un reportage. E’ un’indagine svolta con attenzione e immedesimazione, un viaggio dentro le emozioni dei protagonisti che non sono attori, nel senso che non interpretano un ruolo, ma sono se stessi, mentre giocano (vivono) quel ruolo.
Un viaggio alla prima coniugazione dei verbi, al rapporto magnetico che sempre si istaura fra allievi e maestro, dentro il loro profondo e fertilissimo scambio di umanità.
E, alla fine, per noi (i grandi), è un viaggio a ritroso, a scuola, dove la coscienza si è formata, quando essere e avere erano solo una filastrocca.
Autore critica:Andrea Scaccia
Fonte criticacentraldocinema.it
Data critica:



Critica 2:Nevica e soffia il vento. Nella bufera, due uomini e qualche cane, con gesti, fischi, urla, guidano una mandria dal pascolo verso la stalla. Subito dopo siamo nel caldo confortevole di un'aula scolastica, ancora vuota di presenze umane. Da dietro un mobile spunta improvvisamente il muso antico di una tartaruga, che a passi lenti e microscopici avanza sul pavimento. Quasi nello stesso momento un altro animale della stessa specie percorre un pezzo di cammino. Di fronte alle tartarughe, inquadrato secondo un piano ravvicinato che sembra tanto una soggettiva, sta un mappamondo. Il tempo di una frazione di secondo e Être et avoir, l'ultimo film di Nicolas Philibert prende forma concreta con l'ingresso in scena dei suoi protagonisti, un maturo insegnante e i suoi giovani allievi. Ma l'inizio del film è sintomatico delle intenzioni del suo autore. Da una parte presentare il teatro dell'azione - il fuori, condizionato dalle difficoltà ambientali; il dentro, dove con lentezza e tenacia si può conoscere il mondo - dall'altra dettare le regole del gioco - quelle di una macchina da presa che osserverà tutto e dal tutto estrarrà le immagini che servono a guidare il discorso: non secondo un progetto preconcetto, ma secondo quello che si è venuto formando proprio attraverso l'osservazione.
L'idea che ne esce è quella di una messa in scena che non si vuole imporre aprioristicamente al soggetto, ma quella di un'attenzione costante e curiosa verso l'ambiente che si esplora, per coglierne le sue linee guida e leggerle in senso universale. D'altronde è stato sempre questo il procedimento di Philibert, soprattutto da La ville Louvre in poi: affrontare un universo circoscritto, un po' misterioso e marginale, per scoprire al suo interno le regole della convivenza, del rispetto, della comunicazione e trasmissione del sapere. Un procedimento che spesso arriva, nei film del regista francese, al suo esito più bello ed emozionante: cogliere l'illuminazione della coscienza nel momento stesso in cui essa si manifesta.
Qui - un po' come avveniva ne Il paese dei sordi e in La moindre des choses l'esperienza è quanto mai "commovente" - piena di una complicità di sorriso e di pianto - perché il racconto di Philibert si muove nel territorio che formerà l'uomo cogliendone la tenacia e la fragilità, la dolcezza e la forza, l'incertezza del futuro e il dolore del presente. Tutto questo - insieme a una produzione quanto mai coerente a livello di messa in scena - fa di questo regista una delle figure più importanti del panorama contemporaneo, proprio mentre una non giustificata interpretazione del cinema lo chiude nel limbo del "genere documentario".
Interpretazione quanto mai errata, perché basterebbe guardare con attenzione al suo lavoro, alle modalità con cui lo svolge, ai risultati che ottiene, per non trovarvi alcuna differenza rispetto ai canoni che caratterizzano il "cinema" tout court.
Incominciamo con la preproduzione, non diversa da quella prevista per una qualsiasi fiction. Nella primavera del 2000 Philibert ha in mente un progetto riguardante il mondo rurale. Nel corso di una serie di sopralluoghi e colloqui con famiglie contadine, prende invece piede nella sua testa l'idea di girare un film sul microcosmo di una scuola di villaggio, le cosiddette "classes uniques", nelle quali un solo maestro deve sopperire al sapere di allievi di differenti età, dai 4 ai 12 anni. Il motivo di questa scelta resta misterioso nella sua testa anche se confessa di essere stato a lungo attratto dall'idea di filmare le tappe di un apprendimento - e finisce per coincidere con il vero motore di ogni film: il desiderio e la curiosità di entrare in contatto con gli altri. Sono elementi che sovrintendono anche alla scelta del luogo e delle persone. Philibert individua prima una regione di media montagna - il Massif Central, dal clima rude , dai paesaggi magnifici - poi, per cinque mesi passa in rassegna un centinaio di piccole scuole, senza riuscire a trovare veramente quella che ha in testa: «Una classe con un numero di allievi abbastanza ridotto (fra i dieci e i dodici), in maniera che ciascuno di loro possa diventare un "personaggio", disposti secondo un ventaglio di età il più ampio possibile e guidati da un maestro dotato di un certo peso».
Alla fine opta per la scuola di un villag­gio del Puy-de-Dôme, Saint-Etienne sur Usson, sedotto dalla personalità dell'insegnante - un uomo dai metodi antichi, autoritario e gentile allo stesso tempo, ai limiti della pensione - e da quella dei suoi studenti. Installatosi sul posto, convinti il maestro e le famiglie dei bambini, Philibert ci resta sei mesi, nel corso dei quali accumula 60 ore di materiale filmato. Durante le riprese egli adotta il metodo dello scambio alla pari. Prima permette ai bambini di capire quale sarà il lavoro della troupe e poi chiede a loro di mostrare il loro. Pur essendo sempre presente, la macchina da presa resta il più discreta possibile, mantenendo quella distanza che permetterà al film di prendere forma. Un risultato che può dirsi acquisito dopo sei mesi di montaggio, durante il quale Philibert sceglie cosa mostrare non in funzione della bella immagine, della scena riuscita o dell'aneddoto simpatico, ma in direzione di una linearità di racconto che ponga l'accento sulla formazione degli individui, sul rapporto con la legge - l'autorità del maestro - sul costituirsi di quello che potremmo definire un patto civile, di rispetto e di solidarietà; secondo le due coordinate dell'essere e dell'avere, che non sono solo degli ausiliari della comunicazione verbale, ma anche le stampelle su cui si basa la vita.
Non sorprenderà allora sapere che Nicolas Philibert è stato uno degli artefici del sostegno organizzato ai sans-papier nel corso delle inique misure repressive decise dal governo francese nel 1997. La sua coscienza vigile si trasmette a Être et avoir come un'anima insufflata dal creatore alla creatura. Il suo mentore è il maestro Lopez - un ragionatore tranquillo, dalla voce dolce e profonda, che non trascende mai la sua autorità. E gli esseri nei quali il cinema letteralmente "si scioglie" sono i piccoli protagonisti Alizé, Jojo, Marie, Jessie, Létitia, Johann, Axel, Laura, Guillaume, Jonathan, Olivier, Julien, Nathalie - che dividono la loro vita collettiva con la difficoltà del lavoro nei campi, che ridono e piangono, che sperano e soffrono. A noi, che li guardiamo vivere sullo schermo, ricordano i bambini che siamo stati. E l'uomo che vorremmo essere.
Autore critica:Luciano Barisone
Fonte critica:Cineforum n. 416
Data critica:

luglio 2002

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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