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Lezioni di piano - Piano (The)

Regia:Jane Campion
Vietato:No
Video:Vivivideo, De Agostini, Panarecord
DVD:L'Espresso
Genere:Drammatico
Tipologia:La condizione femminile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Jane Campion
Sceneggiatura:Jane Campion
Fotografia:Stuart Dryburgh
Musiche:Michael Nyman
Montaggio:Veronika Jenet
Scenografia:Gregory Keen, Andrew Mcalpine
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Peter Dennett, Holly Hunter, Harvey Keitel, Sam Neill, Anna Paquin, Te Whatanui
Produzione:Mark Turnbull per la Jan Chapman e Ciby 2000
Distribuzione:Mikado
Origine:Australia - Francia
Anno:1992
Durata:

119'

Trama:

La quarantenne Ada, partita per l'Inghilterra nel 1852, con la figlia Flora di 9 anni, frutto di un precedente legame, e col suo adorato pianoforte, col quale si esprime appassionatamente, perché non parla da quando aveva 6 anni, raggiunge la Nuova Zelanda, per sposare lo sconosciuto Amstair Stewart. Quando questi giunge coi suoi maori sulla spiaggia, dove Ada, Flora e bagagli lo hanno atteso a lungo, si rifiuta di far trasportare il pianoforte fino a casa sua, attraverso la jungla fangosa, nonostante le insistenti richieste di Ada, che comunica a gesti con Flora e l'abbandono del prezioso strumento sulla riva, provoca l'ostilità insanabile della moglie, che si rifiuterà ostinatamente al marito. Un vicino di casa, maori convertito, l'aiuta a recuperare il piano che il marito rifiuta, e diventa il suo amante tra lo scandalo della piccola comunità locale.

Critica 1:Terzo film della neozelandese J. Campion (1955), è un dramma che coniuga il romanticismo gotico di Emily Bronte con l'acceso erotismo di D.H. Lawrence, filtrandoli attraverso la sensibilità e la lucidità di una donna di oggi che rifiuta l'ipoteca del pessimismo tragico. Al risultato complessivo di alta maestria stilistica contribuiscono attori eccellenti, i sontuosi paesaggi semitropicali percossi dalla pioggia e immersi nel fango, le musiche di Michael Nyman. Palma d'oro a Cannes ex aequo col cinese Chen Kaige (Addio, mia concubina) e premio della migliore attrice a H. Hunter che vinse anche uno dei tre Oscar; gli altri due alla piccola A. Paquin e alla Campion come sceneggiatrice.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Opera terza di Jane Campion, sospesa con invidiabile padronanza tra il ritmo disteso e maestoso di Un angelo alla mia tavola e quello spezzato e crudele di Sweetie, contemporaneamente un momento di fusione e un punto d'arrivo nell'opera della regista neozelandese. Infatti Lezioni di piano, se da un lato chiarisce il passaggio dal taglio innovativo, quasi "sperimentale" del primo film a quello all'apparenza più tradizionale del secondo, dall'altro arriva a una costruzione cinematografica che è insieme classica e originale, affabulante e inconsueta. In pratica, Lezioni di piano è forse il film che aspettavamo da un decennio, quello capace di coniugare il grande spettacolo con l'asprezza linguistica, di ridare vigore a una concezione romantica del cinema attraverso una serie di invenzioni formali che mettono all'improvviso sotto una luce radicalmente nuova il suo contenuto di passione, sensualità, rigenerazione amorosa.
Un tentativo al quale negli ultimi anni si è azzardato solo Francis Coppola con Dracula, prevedibilmente snobbato dalla maggior parte della critica.
In realtà, a parte le evidenti differenze sul piano della composizione dell'inquadratura, dell'uso degli effetti speciali (quello della Campion, rispetto a Dracula, resta un film a costo contenuto, o comunque nella norma) e del senso generale dell'opera (Lezioni di piano è un romanzo, Dracula una tragedia), i due film hanno alcuni elementi in comune che vale la pena di sottolineare: un'evidente passione per il dolly condivisa dai due autori, che ogni tanto alzano il loro sguardo e accompagnano con un movimento maestoso l'azione dei personaggi, giù in basso; una visionarietà innata, perfettamente sviluppata dalla maturità e dai mezzi in Coppola e via via più percettibile nel cinema della Campion, che arriva attraverso una voluta disarmonia a composizioni mozzafiato, raggiunte da Coppola con il suo violento classicismo; un impeccabile istinto cromatico, che per quanto riguarda il cinema di Coppola non ha certo bisogno di essere spiegato e che per quanto riguarda la regista neozelandese si manifesta con estrema drammaticità lungo le tre parti di Un angelo alla mia tavola e con penetrante rigore in Lezioni di piano, quando i toni bruni, terrosi e grigi che segnano tutto il film all'improvviso si illuminano nella sequenza finale, chiara e solare, di Ada pacificata.
Tutti e tre questi elementi (e altri, come per esempio la precisione millimetrica nei gesti e nell'abbigliamento dei personaggi e nei particolari d'epoca, il cappello da dandy di Dracula e i capelli ostinatamente pesanti e stretti di Ada, aderenti più all'iconografia storica che a quella cinematografica), tutti riconducono al punto di partenza: al coraggio del romanticismo autentico, torbido e non edulcorato, inzuppato di sangue (Dracula) e urina (Lezioni di piano), capace di incrinare le barriere del buon gusto e della misura perbenista con i suoi imperativi amorosi e sessuali. E curiosamente, d'amore parla soprattutto il vampiro sanguinario di Coppola, e di sesso la piccola signora, con le trecce strette intorno alla testa, di Jane Campion.
Qualcuno dei rarissimi sostenitori nostrani di Sweetie è rimasto un po' perplesso di fronte a Lezioni di piano, forse per l'armonia complessiva della narrazione, per la bellezza percettibile delle immagini, per la sua appartenenza non a un cinema di confine, dichiaratamente provocatorio, ma a un cinema che ha tutte le carte in regola per richiamare il grosso pubblico internazionale. È stato definito, con una punta di critica, un film che piacerà molto alle signore e alle signorine. Ma a dir la verità, nella sala in cui l'ho rivisto ero circondata da signore, signorine (e signori) che, alla fine del primo tempo sembravano lì più che altro per dovere d'informa-zjone, visibilmente perplessi rispetto all'andamento della storia e alle motivazioni psicologiche dei perso-naggi. Esistono infatti nel film (oltre ai tantissimi che riguardano la composizione propriamente visiva) alme-no due elementi decisamente spiazzanti per lo spettato-re di oggi. Il primo è implicito nella stessa scelta di fare di Ada una donna che non parla, ma che agisce moltis-simo con le mani, gli occhi, i movimenti del capo, fa co-se imprevedibili e scelte azzardate. Questo film è fatto per essere visto con gli occhi, non ascoltato con le orec-chie; la sua sceneggiatura è nelle immagini più che in qualsiasi battuta di dialogo, negli sguardi di Ada, nelle manone impacciate di Baines, nel nervosismo guardin-go con cui Stewart si pettina, nelle apparizioni silenzio-se dei maori e nell'invadenza epica degli elementi natu-rali. È perciò in esatta antitesi al nostro pubblico, cui ormai la televisione più stupida del mondo ha insegna-to ad aprire la conversazione ogni volta che i personag-gi smettono di parlare. Lezioni di piano, a parte tre o quattro battute (la figlia di Ada che all'inizio rifiuta di e chiamare papà Stewart e poi all'improvviso lo chiama papà proprio quando lui sta murando la mamma in casa, la sconsolata dichiarazione d'amore di Baines e la domanda di Stewart a Baines, “Ada ti ha mai parlato?”, potrebbe essere un film muto e non perderebbe nulla nella definizione dei caratteri e della storia.
Ma, oltre che con gli occhi, Lezioni di piano è un film che va visto con la pancia, al quale cioè abbandonarsi più con l'istinto che con la testa. Personalmente credo che tutto il cinema vada vissuto come un piacere istintivo, ma soprattutto in questo caso la distanza razionale, la separazione della tecnica, della bella immagine da tutto quello che essa implica, svuoterebbe completamente di senso un film che non ha un momento di contemplazione gratuita, un particolare irrilevante, un movimento di macchina superfluo. La Campion non si compiace della propria eleganza tecnica, ma la rovescia addosso agli spettatori soltanto nei limiti di un preciso significato: non mette in scena la recita natalizia vittoriana per puro gusto del colore d'epoca o per farci vedere quanto è brava, ma per ricondurla alla presenza degli "alieni" maori e per richiamare noi a un rapporto più intenso con il cinema, nel corso del quale possiamo credere che BarbabIù stia ammazzando per davvero le sue mogli, possiamo piangere, appassionarci, vivere come vera la storia che ci sta passando davanti agli occhi (e qui è evidente un'altra analogia con il Dracula di Coppola, con la sua bellissima sequenza sul cinema dei primordi).
In questo Lezioni di piano è distante anni luce dal cinema che proverbialmente negli anni '80 è piaciuto a signore e signorine, cinema un po' esangue e molto elegante, troppo spesso perduto nella propria messinscena e nelle proprie considerazioni estetiche ed esistenziali, che tende ad amalgamare qualsiasi dissonanza visiva attraverso il flou della fotografia. Un cinema che purtroppo si è spesso identificato con il lavoro di James Ivory, che in realtà ha al proprio arco molte più frecce di crudeltà e rigore di quanto a volte non usi (e lo dimostra il gelo secco e impietoso di Casa Howard, di gran lunga il suo film migliore degli ultimi anni). Un cinema appagato nella propria superficie professionale, nella bella gente che ha bei vestiti e problemi abbastanza grossi da giustificare il prezzo del biglietto sul piano estetico-intellettuale.
È chiaro che il film di Jane Campion è tutt'altro, emotivamente ricco, visivamente coinvolgente, psicologicamente aspro, anche se in maniera del tutto anticonvenzionale trae ispirazione da un universo letterario affine.
Se per puro piacere di inventario si dovessero elencare titoli e nomi ai quali paragonare il cinema della Campion, quelli di Ivory e di Peter Greenaway (che per qualche misteriosa ragione in passato le è stato accostato) andrebbero immediatamente accantonati. Non foss'altro che per una caratteristica comune a entrambi: la freddezza analitica, che appunto affina e approfondisce i ritratti d'epoca di Ivory (non a caso autore di sensibilità jamesiana, quando è al meglio), e che congela gli affreschi di Greenaway in un superlativo, "rinascimentale" sogghigno d'orrore (rinascimentale ché Greenaway è un artista onnivoro, che prende a man bassa da qualsiasi corrente pittorica, musicale, letteraria, dalla cartografia come dall'enigmistica, dal nonsense e dall'ornitologia, per ritrascrivere tutto in incubi di ghiaccio).
Resta evidentemente la coordinata stilistica in importante, ampiamente sottolineata all'epoca di Sweetie: David Lynch, alla cui sensibilità grottesca e dolorosa certamente la Campion si avvicina. A questo proposito tuttavia era stato del tutto esplicito ed esauriente Alberto Crespi, che all'uscita di Un angelo alla mia tavola, aveva sottolineato che la somiglianza era, appunto, a livello di sensibilità e di "contenuti", perché Lynch non è un regista dal linguaggio cinematografico forte; il suo e un cinema di situazioni, non di stile ...La Campion è geometrica e tecnicamente bravissima laddove Lynch racconta situazioni abnormi con uno stile tradizionale”. Con Lezioni di piano la distanza da Lynch si è ulteriormente approfondita, perché la Campion, nel progressivo raffinarsi del suo linguaggio, dimostra di lavorare principalmente sullo stile (non solo la composizione dell'inquadratura, ma anche la scansione ritmica del montaggio), capace di stravolgere situazioni in superficie consuete.
Al ora, chi altri? Andiamo per atmosfere. Certamente Lezioni di piano per la maniera di trattare un'iconografia tradizionale attraverso angolazioni e particolari stridenti richiama a tratti Via dalla pazza folla, dove SchIesinger passava al filtro delle suggestioni ritmiche e dei movimenti nervosi della Swinging London la classica storia vittoriana di Thomas Hardy. Quanto poi alla sensibilità acuta per la forza delle immagini, all'amore per quei paesaggi sconfinati in cui i personaggi vengono risucchiati e alla precisione con cui le figure umane si muovono nell'equilibrio complessivo dell'inquadratura, rimandano a certi passaggi del miglior Lean epico. Lean che (a differenza di come si tende oggi a liquidarlo) è stato un grande autore della visione: una scena come quella del primo incontro nel deserto tra Lawrence e lo sceriffo Ali, con la macchina da presa fissa su un puntino nero che appare al centro di un'immensa inquadratura del deserto, e si avvicina fino a rivelarsi un cavaliere su un cavallo nero, non è solo matematica cinematografica, ma si ricollega all'impatto suggestivo che ha il deserto sul protagonista. Lean aveva una forte percezione romantica della sensualità della natura, uno degli elementi più dirompenti (anche ai fini della narrazione) di Lezioni di piano.
In pratica, Lezioni di piano, con tutti gli scarti, le crudeltà e il rigore di uno stile insolito e modernissimo (per esempio, la macchina da presa che inquadra in primissimo piano la mano di Ada nell'acqua, al momento della partenza, che ha lo stesso impatto improvviso della mano di Sweetie che segue il tempo di una canzone fuori dal finestrino dell'auto in movimento), ripropone il lato oscuro, "maledetto" del romanticismo, tutt'altro che tranquillizzante. Rievoca altre immagini, che non sono citate (né tanto meno "copiate"), ma affondano nella memoria collettiva. Il magnifico, lento inabissarsi di Ada, legata al suo pianoforte tra le vesti scure che le fluttuano attorno, rimanda, anche cromaticamente, agli esausti annegati preraffaelliti, e perciò ai due sposi annegati di Donne in amore di Ken Russell o alla Shelley Winters con i lunghi capelli biondi ondulati come alghe in La morte corre sul fiume di Charles Laughton. E le figure che si muovono lontane su certi profili collinari invasi e tagliati da una vegetazione che apre abbia vita e spinto proprio fanno venire in mente quell'immagine stregata dell'arpista che suona in cima al pendio nella Volpe di Powell e Pressburger (tratto da un romanzo vittoriano di ambientazione celtica, e non a caso Ada viene dalla Scozia). È tutta una cultura della quale la Campion sembra riscoprire la forza evocatrice e, in un certo senso, sovversiva, una cultura che partiva dalla più esplicita repressione (i vittoriani) o dal puro estetismo (gli edoardiani) per agitare fantasmi, morbi, inadeguatezze, passioni. Tra l' altro è la cultura che, soprattutto nelle sue forme ritenute "minori" (dal gotico inglese, al romanzo d'avventura alla Fenimore Cooper, al feuilleton francese), ha influenzato più da vicino la nascita e la struttura narrativa del cinema.
Sarà casuale, ma è certamente sintomatico che sia Coppola che la Campion si rivolgano contemporaneamente a quell'universo. E come Coppola rivela la storia d'amore che era sepolta sotto la sensualità della mitologia vampirica, così la Campion materializza visivamente la sensualità che scorreva a fiumi tra le parole d'amore delle scrittrici vittoriane, e proprio attraverso il sesso riscatta la sua eroina dalla morte inevitabile, morte per coerenza e per "differenza". Ada mette il piede nell'intreccio della corda che affonderà con il piano, e va giù in un finale sublime, pittorico, inevitabile. Poi si libera e risale, perfettamente conscia del proprio gesto: “Che morte!”, pensa. “Che occasione! E che sorpresa: la mia volontà ha scelto la vita”. Ha scelto cioè l'unica cosa che le eroine vittoriane non potevano permettersi: di vivere con i propri impulsi, anziché morire per essi. Catherine ha scelto Heathcliff.
Jane Campion è molto lucida a questo proposito. “Credo che l'impulso romantico sia in ciascuno di noi e che faccia parte della vita di ciascuno di noi per brevi periodi; ma non appartiene a uno stile di vita assennato. È un cammino eroico e di solito conduce a sbocchi pericolosi. Io gli attribuisco un grande valore, perché lo considero un cammino molto coraggioso. Ma può anche essere il cammino della pazzia obbligata. Sento molte affinità tra il romanticismo ritratto da Emily Brontë in Cime tempestose e questo film. La sua non è la concezione romantica divenuta abituale, ma è molto aspra ed estrema, un'esplorazione gotica dell'impulso romantico con cui io volevo confrontarmi nel mio secolo. Il fatto che io non scriva ai tempi di Emily significa che posso analizzare un aspetto dei rapporti che a quell'epoca era interdetto. La mia esplorazione può essere molto più sensuale, molto più analitica rispetto alla forza dell'erotismo. Il che aggiunge una dimensione ulteriore”.
E che dimensione! La sensualità intreccia tutte le immagini del film e innesca tutti i contrasti: la severità dell'immagine apparente di Ada, dei suoi abiti scuri, delle sue impalcature di sottogonne, delle sue acconciature tirate e dei suoi gesti duri, contro il suo abbandono palpabile alla musica e alla complicità (fatta anche di vicinanza tattile) con la sua bambina. La rozzezza analfabeta di Baines che scopre la passione attraverso la musica e la bellezza dell'immagine di madre e figlia sulla spiaggia; e ancora, il contrasto esplosivo di questo tracagnotto duro delle "mean streets" che pronuncia la dichiarazione d'amore più toccante sentita al cinema negli ultimi anni (“Ada, io non mangio più, non dormo più. Perciò, se sei venuta e non senti niente per me, per favore vattene”. Ma molto ci sarebbe da scrivere sull'abbandono e il dolore 'femminei' che la regista fa emergere dall'attore, e sulla sensibilità di Harvey Keitel, che di colpo fa tornare in mente quell'ultimo, scorato gesto di sconfitta dei Duellanti). C'è la sensualità di Stewart, scoperta all'improvviso attraverso la sua femminile sottomissione alle esplorazioni maschili di Ada, e tanto acuta da consentirgli di "sentire" la voce della donna e di rinunciare perciò alla proprietà, al diritto, alla morale, in uno di quei supremi gesti di abnegazione che il melodramma vuole femminili. E c'è naturalmente l'erotismo palpabile trasmesso continuamente dalle figure dei maori, dalla vegetazione, dall'oceano, dai bambini, continuamente e comicamente velato da tocchi vittoriani, come il lavaggio degli alberi "infangati" dalle esibizioni erotiche di Flora e dei bambini maori. E sopra tutto, a sintetizzare la finezza e la "diversità" di un film che è classico nel senso più puro del termine, c'è quel primo contatto fisico tra Baines e Ada, il dito di lui che tocca la pelle bianca di lei attraverso il buco nella pesante calza nera, un attimo che racchiude un mondo di pensieri, sensazioni, emozioni e (perché no?) perversioni.
Autore critica:Emanuela Martini
Fonte critica:Cineforum n. 325
Data critica:

6/1993

Critica 3:Al di là della storia d'amore tra Ada e George Baines e della conseguente gelosia del marito Stewart, il film descrive - in modo approfondito ma discreto - il complesso rapporto tra Ada e la figlia Flora. La relazione tra la madre e la bambina è di tipo esclusivo poiché le due sono rimaste sole dopo la morte del marito di Ada, ucciso da un fulmine. Costrette a lasciare la Scozia per l'aspra e inospitale Nuova Zelanda, Ada e Flora devono fare i conti con Stewart, un colono che sin dall'inizio dimostra di non saper costruire con loro un rapporto fondato sulla comprensione e sull'affetto. Quando questi si rifiuta di trasportare in casa il prezioso pianoforte della moglie, si crea una frattura insanabile nell'ambito di questa famiglia appena formata. Il legame tra Ada e Flora è di tipo assolutamente unico poiché è caratterizzato dalle difficoltà di comunicazione tra Ada e il resto del mondo. Ada è muta dall'età di sei anni e soltanto Flora è in grado di comprenderne il linguaggio non verbale, un sistema comunicativo fondato su gesti, sguardi e impercettibili segnali che risultano oscuri ai più. A ciò si aggiunge l'elemento determinante della musica che per Ada è un autentico strumento per la trasmissione dei suoi sentimenti e stati d'animo. Anche questa dimensione è esclusiva del rapporto tra Ada e Flora, poiché Stewart non riesce a rendersi conto dell'importanza del pianoforte nella vita della moglie. Non è un caso che sia l'interessamento di Baines nei confronti dello strumento a portare la donna, seppure assai titubante, a sviluppare una passione per l'uomo, l'unico ad aver avuto il coraggio di avvicinarsi a lei utilizzando il suo stesso linguaggio.
La relazione clandestina tra Ada e Baines conduce, a poco a poco, a una separazione tra madre e figlia. Flora è gelosa della passione nata tra la madre e lo sconosciuto poiché pone fine all'esclusività del loro legame. Flora non è più l'unica compagna di Ada, non è più la sola a saper comunicare con lei, deve condividere la figura materna con un'altra persona e deve accettare che Ada non sia più soltanto madre ma anche donna. Questo conflitto spinge Flora a odiare la madre e a farsi delatrice della segreta relazione al patrigno, un uomo per il quale la bambina non prova alcun sentimento di affetto ma che potrà farsi esecutore materiale della vendetta da lei pianificata. L'esplosione della violenza di Stewart, paradossalmente, riavvicina Ada e Flora proprio per la carica dirompente che la caratterizza. La gelosia che lo acceca lo spinge a scatenarsi contro entrambe ed è in questa situazione di crisi che madre e figlia finiscono per coalizzarsi nuovamente. Flora tenta di consegnare a George il messaggio d'amore di Ada e, scoperta, è costretta ad assistere alla mutilazione della madre. L'evento drammatico porta Flora a riconsiderare il proprio rapporto con la madre e ad accettare la presenza di Baines, l'unico uomo che potrà davvero salvarle. Quando i tre potranno finalmente lasciare l'isola e andare a vivere insieme, le cose si sistemeranno e Ada, forse, saprà trovare dentro di sé la forza per superare l'handicap psichico che l'ha separata dal mondo per tanti anni.
Autore critica:Aiace Torino
Fonte critica:
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