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Road To Guantanamo (The) -

Regia:Michael Winterbottom; Mat Whitecross
Vietato:No
Video:
DVD:Cecchi Gori
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti umani - La politica e i diritti, La guerra
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura:
Fotografia:Marcel Zyskind
Musiche:Molly Nyman, Harry Escott
Montaggio:Michael Winterbottom, Mat Whitecross
Scenografia:Mark Digby
Costumi:Esmaeil Maghsoudi
Effetti:Mohsen Roozbehani
Interpreti:Farhad Harun Ruhel, Arfan Usman Asif, Riz Ahmed Shafiq Rasul, Waqar Siddiqui Monir, Shahid Iqbal Zahid, Mark Holden (Interrogante), Jacob Gaffney (Interrogatore), William Meredith (Guardia), Adam James (Agente Segreto), Ruhel Ahmed, Shafiq Rasul, Asif Iqbal, Ian Hughes (Agente Segreto), Payman Bina (Guardia), Duane Henry (Guardia), Jason Salkey (Interrogatore)
Produzione:Michael Winterbottom, Andrew Eaton, Melissa Parmenter per Revolution Films – Screen West Midlands
Distribuzione:Fandango
Origine:Gran Bretagna
Anno:2006
Durata:

95’

Trama:

Settembre 2001. La madre di un ragazzo pakistano che vive a Tipton in Inghilterra, trova una sposa per lui, così, Asif e altri suoi tre amici partono per il Pakistan. Mentre si trovano in Pakistan visitano una moschea, dove, l'Imam invita i giovani ad aiutare la gente dell'Afghanistan. I ragazzi partono, ma sono catturati dalle forze statunitensi e dopo qualche giorno vengono trasportati segretamente a Guantanamo con l'accusa di essere membri di Al-Qaeda. Da quel momento non si ebbe più notizia di Monir. Dopo oltre due anni gli altri tre furono liberati senza nessuna imputazione.

Critica 1:La superprigione di Guantanamo, dopo 4 anni di impunità, deve essere immediatamente chiusa. Dalle prime anticipazioni stampa di ieri, queste sono le conclusioni del rapporto della commissione d'inchiesta Onu, reso noto proprio in concomitanza con l'anteprima mondiale dell'instant-movie britannico, in concorso, The road to Guantamano (La strada per Guantamano), diretto da Michael Winterbotton e Mat Whitecross, che dettagliatamente racconta, con indignazione ma senza abusare «pornograficamente» delle immagini (forse un po' dei suoni e dei ritmi), utilizzando per metà la forma-intervista e per metà una «messa in scena» piuttosto ben documentata, come in quel luogo si maltrattano, umiliano e torturano (ancora adesso) 500 prigionieri. Ecco un caso di «apartheid giuridico» scandaloso, un «buco nero» per la democrazia, la catastrofe del «pensiero unico». Il supercarcere più intoccabile e impunito del mondo ha infatti - spiega il rapporto Onu - ignorato sprezzantemente, fossero o meno i prigionieri autentici combattenti islamici, la convenzione di Ginevra e la carta dei diritti umani. Come possono, d'altra parte, dei nemici giurati e fanatici della «più bella e libera democrazia del mondo» essere considerati degli esseri umani? E poi, dopo il 9/11 non sarà il caso di mandare in pensione la signora Roosevelt, il suo idealismo demodé e tutti i pavidi traditori dell'occidente cristiano, da pii fedeli della signora Fallaci? Nel film, altamente «veritiero», perché sceneggiato dai protagonisti stessi di questa odissea tragica, si decostruisce infatti proprio la degradazione scientifica del nemico «a subumano» - un numero, un cappuccio in testa, una gabbia da gallina dove stare accucciato se no botte da orbi, degno solo del dileggio danese o dell'urina sul Corano - attraverso la storia, raccontata dal punto di vista delle vittime innocenti, di tre ragazzi rappettari di origine pakistana residenti a Tipton, Birmingham. Recatisi in Pakistan poco prima dell'invasione dell'Afghanistan, per un matrimonio di confine, fissato ahimé nella data sbagliata, i «tre di Tipton» si sono visti piovere addosso micidiali ordigni di guerra (un quarto ragazzo, il loro amico Munir Alì, risulta tuttora disperso), poi, in fuga dai bombardieri, sono stati catturati, malmenati e mitragliati dagli uomini della coalizione del generale Dostrum, e, quasi in fin di vita, passati ai marines che, in base a ridicole rassomiglianze video e fotografiche, li hanno scambiati per alti dirigenti di al Qaeda, visto anche il loro inglese era fluente e dunque più che sospetto. Infine, trasferiti a Guantanamo per tre anni, alla mercé di un potere totale e incontrollabile, solo nel 2004, Rhuel Ahmed, Asif Iqbal e Shafiq Rasul (fossero pure stati agnostici, una certa gran voglia di diventare islamici gli sarà pure venuta: non successe lo stesso a Malcolm X?) sono stati liberati senza incriminazioni (i servizi segreti inglesi sono stati costretti a intervenire perché nel 2000 Rasul & C. non potevano essere stati ripresi dal video nel famigerato campo di addestramento al-Faruqh: lavorava al Birmigham Currys) e trasferiti nel loro paese, senza che Blair, il neosocialista, avesse fatto troppo per porre fine all'ingiustizia (come non muove dita per gli altri 8 cittadini del Regno Unito ancora a Guantanamo). Ma, proprio come avviene nel calcio, e come la Thatcher spiegò anche ai sassi, ci sono cittadini di serie A e cittadini della «seconda divisione», diritti umani di serie A e diritti umani per i quali mr. Galliani non pagherebbe nemmeno una lira.
Ora, dopo 18 mesi di lavoro, i 5 (coraggiosi, e speriamo che sopravvivano) commissari Onu hanno provato gli abusi e le ripetute violazioni delle leggi internazionali nei confronti dei prigionieri del carcere «clandestino» americano, situato, per ironia della sorte, proprio nella baia, tuttora colonizzata, di Cuba, l'isola vetero socialista. E per arrivare a queste conclusioni i 5 dell'Onu selvaggio hanno fatto lo stesso lavoraccio dei due cineasti, intervistando gli altri sopravvissuti (oltre ai «tre di Tipton» sono 38 le «belve feroci» rilasciate perché innocenti, e 250 quelle liberate perché «non rappresentano alcun pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti d'America»), e poi medici, avvocati e membri della Croce Rossa, focalizzando l'attenzione soprattutto sulla repressione inumana dei recenti scioperi della fame. Intanto il Pentagono e la Casa Bianca smentiscono: piccolo Bush e il suo fido compagno d'affari Rumsfield, che definirono i detenuti «i peggiori dei peggiori» nemici della libertà e della democrazia, fanno rilasciare dichiarazioni nelle quali si assicura che «tutti i prigionieri sono stati sempre trattati umanamente e hanno usufruito di eccellenti cure mediche». Già, quel che si fa nelle carceri di tutto il mondo per coprire i segni di massacri e torture... Quel che conta è che i crimini di questo governo Usa non vengano giudicati da nessuna corte al mondo, e inquisite da nessun arcaico apparato Onu. Almeno, in questi giorni di Berlinale, la giuria del pubblico potrà invece giudicare i crimini che la democrazia occidentale sta commettendo contro se stessa.
Autore critica:Roberto Silvestri
Fonte criticaIl Manifesto
Data critica:

15/2/2006

Critica 2:
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Critica 3:
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Libro da cui e' stato tratto il film
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