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Quando eravamo re - When we were kings

Regia:Leon Gast
Vietato:No
Video:Einaudi Video
DVD:Gazzetta Dello Sport
Genere:Documentario
Tipologia:Sport e salute
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Leon Gast
Sceneggiatura:Leon Gast
Fotografia:Maryse Alberti, Paul Goldsmith, Kevin Keating, Albert Maysles, Roderick Young
Musiche:Leon Gast, Taylor Hackford, Jeffrey Levy-Hinte, Keith Robinson
Montaggio:
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Cassius Clay, George Foreman, Don King, Malick Bowens, James Brown, Thomas Hauser, B.B. King, Spike Lee, Norman Mailer, Miriam Makeba, George Plimpton, Lloyd Price, Mobutu Sese Seko, The Crusaders, The Spinners
Produzione:David Sonnenberg, Leon Gast, Taylor Hackford
Distribuzione:Mikado – Cineteca Lucana
Origine:Usa
Anno:1996
Durata:

88’

Trama:

Voleva essere la ricostruzione delle ore precedenti all'incontro per il titolo mondiale nel 1974, a Kinshasa nello Zaire, tra il campione dei massimi George Foreman e lo sfidante Mohammed Alì. Ha fiinito con l'essere un "monumento" a Mohammed Alì con riprese d'archivio, interviste fatte successivamente a George Plimpton e Norman Mailer, i più noti reporter dell'evento. Infatti gli allenamenti durarono sei settimane a causa di una ferita di Foreman e la personalità di Alì emerse al punto che il popolo dello Zaire lo ritenne il profeta di una nuova liberazione.

Critica 1:«Lasciammo l'Africa in ceppi, ferri e catene. Ora torniamo in un'aura di splendore e di gloria scintillante.» Così dice l'afroamericano Don King nel 1974, appena giunto in Zaire, dove gli è riuscito d'organizzare l'incontro del secolo, quello tra George Foreman e Muhammad Alì. A raccogliere queste sue parole orgogliose c'è una troupe guidata da Leon Gast. Compito del regista americano è documentare non tanto l'evento sportivo quanto il concerto di cantanti africani e afroamericani a esso collegato. Da allora, passano 22 anni prima che, dalle 400 ore girate, gli sia possibile montare gli 85 minuti di Quando eravamo re. In mezzo, ci sono le difficoltà economiche della casa di produzione, la mancanza d'investitori fino all'86, il rischio che la pellicola si deteriori, il montaggio realizzato nel'94, e poi ancora due anni senza che il film trovi un distributore. Presi dalle immagini di Alì che, sotto i colpi di Foreman, si comporta come da bambini immaginavamo facesse il Piccolo Sarto con il Gigante, ci vien da pensare che il tempo ha contribuito a fare di Quando eravamo re una "narrazione", un grande film epico. Quello che negli anni Settanta sarebbe stato solo un documentario e una testimonianza, ventidue anni dopo è memoria. Così, da protagonisti che sarebbero dovuti essere, James Brown, B. B. King e Miriam Makeba si sono ridotti a comprimari, e la loro musica si è trasformata nella colonna sonora della rievocazione mitica di gesta antiche e meravigliose. Narratori del mito sono, insieme, gli scrittori Norman Mailer e George Plimpton, che il 30 ottobre del 1974 stavano a pochi metri dai due pugili. Con loro c'è anche Spike Lee, il cui cinema è frammento decisivo dell'epica afroamericana. Sullo sfondo del mito, c'è nel film di Gast ancora un residuo di storia. C'è, in primo luogo, lo Zaire di Mobutu Sese Seko, con lo stadio di Kinshasa che, proprio sotto il ring, nasconde un migliaio di prigionieri. C'è poi il giro d'affari pubblicitario che, privilegiando il mercato televisivo d'America, induce gli organizzatori a far svolgere l'incontro alle 4 del mattino. Ma è proprio questo residuo il primo avversario che Ali sconfigge. Basta che la macchina da presa lo inquadri, perché sia non dimenticata ma certo superata ogni bruttura storica, e anche ogni prosaicità economica. «Ho combattuto con un alligatore!», annuncia al mondo. «Mi sono azzuffato con una balena! Ho "assassinato" ( murdered) una roccia!» E intanto sorride, determinato e dolce, coraggioso e indifeso. Non è un banale incontro di pugilato, quello che Ali sta per affrontare, ma qualcosa di iperbolico, al pari della sua magnifica improntitudine. È, ancora, qualcosa di straordinario, come "al di là dell'ordine" è sempre, nel mito e nella favola, l'avventura dell'eroe.
Per preparare questa fuoriuscita dalla storia e dalla cronaca, il montaggio lega il volto e la voce di Alì ora con la musica "ufficiale" e ora con le danze spontanee di uomini e donne e bambini zairesi per le strade. Sembra che non altro si canti e non altro si celebri a Kinshasa, in questi giorni del 1974, se non la sfida che un coraggioso, impaurito Piccolo Sarto ha lanciato al Gigante. E qui il senso strettamente mitico ed eroico di Quando eravamo re: Alì ha paura, e questa paura è la sua propria forza, la sua vera grandezza. Foreman ha appena distrutto Joe Frazier, che a sua volta aveva sconfitto Alì. Ma, oltre a questo dato storico, c'è nel film qualcosa di più implicito e inquietante: Foreman è una presenza incombente e muta, una materialità arcaica e salda come quella della roccia che Alì, con tenera spavalderia, giura d'avere murdered. In realtà, l'aspirante eroe sa che quel che gli toccherà d'affrontare ha la caparbietà del fato, il silenzio minaccioso della morte. Se così non fosse, come potrebbe mai aspirare a esserlo, eroe? Nella favola come nel mito, eroe è solo il piccolo uomo che, contro ogni ragionevolezza, esce dall'ordine, affronta il mostro, sconfigge la morte. Dimostra di saperlo bene Mailer quando, dello spogliatoio di Alì, dice che «was like a morgue», somigliava a un obitorio. E ora eccolo, Alì, di fronte alla forza caparbia e muta di Foreman. Per ottenere una vittoria impossibile, si offre alla forza mostruosa, lascia che la roccia consumi se stessa nella sua propria cecità, rischia deliberatamente l'annientamento. Poi, avendo visto in faccia la morte, il Piccolo Sarto la gioca d'astuzia: improvvisi, una serie di destri alla testa abbattono il Gigante stremato...
Questo è il nucleo dell'avventura eroica, il "fatto" che merita d'essere narrato e rinarrato. Ma Muhammad Alì non sarebbe l’uomo grande che è, se il suo tenero coraggio non si fosse nutrito d'un sogno: dar vita a un mito capace di restituire splendore e gloria scintillante a uomini e donne umiliati da ferri, ceppi e catene.
Autore critica:Roberto Escobar
Fonte criticaIl Sole-24 Ore
Data critica:



Critica 2:(...) È troppo bella, contraddittoria, emozionante e simbolica la parabola di Muahammad Alì, alias Cassius Clay, per non commuoversi nel ripercorrerla. E oggi nei cinema italiani arriva il film che ha vinto l'Oscar, Quando eravamo re: dura 88 minuti e negli ultimi 20, non c'è niente da fare, l'emozione ti prende alla gola. Sono i minuti del match, quel match : Alì-Foreman, mondiale dei massimi, a Kinshasa, il 30 ottobre del 1974. nella boxe si parla spesso, e quasi sempre a vanvera, di «match del secolo»: ebbene, a distanza di vent'anni, e di fronte al film di Leon Gast, viene da dire che probabilmente il match del secolo fu quello, e non per motivi strettamente pugilistici. È una storia che racchiude troppe contraddizioni, troppi simboli del nostro tempo. Alì e Foreman andarono a sfidarsi in Africa perché Don King, manager-gangster di entrambi, convinse il dittatore dello Zaire Mobutu a sborsare 14 milioni di dollari (di allora) per finanziare l'incontro. Per Mobutu fu un colossale investimento promozionale. Alì e Foreman furono strumenti di questa spudorata propaganda. Ma se Foreman visse il tutto in modo silenzioso e obbediente (solo dopo anche lui sarebbe diventato un grande personaggio), Alì sfruttò il tutto per propagandare, a sua volta, se stesso e il ritorno all'Africa, alle radici, dei neri americani. La cosa più straordinaria di Quando eravamo re è proprio l'impatto dei campioni con la madre Africa. Basta vedere le scene dell'arrivo all'aeroporto dei due: per Alì ci sono folle osannanti, per Foreman sì e no 100 persone. Nelle settimane che precedettero il match, Alì divenne il Mito di tutta la popolazione zairese, mentre Foreman, poveretto, si trovò a incarnare tutta l'odiata prosopopea dello zio Sam. E nacque il grido «Alì, boma ye», Alì ammazzalo, che accompagnò i due per tutta la permanenza zairese. Dice il regista Spike Lee, uno dei personaggi intervistati da Gast: «Prima di quel match, se chiamavi "africano" un nero americano dovevi prepararti a fare a botte con lui. Era un insulto. Alì insegnò a tutti noi ad essere orgogliosi delle nostre radici». E l'Africa fu altrettanto orgogliosa di lui, adottandolo. (...) Il film forse è un po' enfatico, ma bellissimo. Da vedere. È forse un po' ingiusto con Foreman, che poi sarebbe diventato un predicatore e sarebbe tornato sul ring a 40 anni suonati spaccando la faccia a tanti giovanotti che avrebbero potuto essere suoi figli: anche Foreman è un grande mito americano, e la sua presenza vicino ad Alì, la notte degli Oscar, è stata bella e commovente. Ma è inutile dire che Alì spicca nel film come un divo assoluto, un geniale manipolatore dei media, un inarrestabile, logorroico, simpaticissimo press-agent di se stesso. Capace di battute fenomenali, fino al paradosso, come quando gli chiedono perché Foerman gli stia tanto antipatico. Prima gli vomita addosso i soliti insulti di prammatica, infine, sguardo sornione, gli dà la stoccata finale: «E poi, parla troppo!». Detta da Alì, il colmo dei colmi. Chapeau, vecchio campione.
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte critica:l'Unità
Data critica:



Critica 3:(…) Il film di Leon Gast, che ci ha messo ventidue anni ad essere completato, anche per una serie di problemi legali sul materiale, fa la cronaca della preparazione dello storico incontro che portò in Africa i due campioni, seguiti da una coorte di musicanti e di giornalisti, a battersi per una borsa di diecimila dollari offerti dal presidente dello Zaire (commenta Alì: gli stati mettono il loro nome sulle carte geografiche con le guerre, che costano però ben più di diecimila dollari). Per Foreman si trattava solo di guadagnare cinquemila dollari. Per Alì, che si era giocato il titolo mondiale con il suo rifiuto a farsi arruolare come protesta contro la guerra nel Vietnam, era una rivincita. Una ferita all'occhio di Foreman in allenamento rinviò di sei settimane il match, con comprensibile nervosismo generale della spedizione, anche perché erano nel frattempo in arrivo le grandi piogge... Gast a suo tempo girò quasi 90.000 metri di pellicola: i duellanti, gli allenamenti, con Foreman che scava buchi nel sacco su cui si scatena e Alì che danza come sempre, parlando parlando, e poi lo Zaire, Mobutu che incede con feroce eleganza sotto il suo berretto di leopardo, la musica locale e quella degli artisti che seguirono la spedizione, il match. E, trovati i soldi grazie al produttore musicale David Sonenberg e a Taylor Hackford, li ha cuciti con un montaggio vorticoso e brillante, completandoli con alcune interviste ai testimoni dell'evento, tra cui Norman Mailer, oggi settanduenne, singolarmente simpatico, che spiega con l'efficacia e la passione di un critico d'arte il miracolo dello stile e della strategia del trentaduenne Muhammad Alì (il nome musulmano scelto da Clay significa, guarda caso,"degno di lode"). Ma dal film esce soprattutto il ritratto del personaggio Alì: affascinante e travolgente, irresistibile e pieno di invenzioni, appassionato e ironico, intelligente e articolato. Se i cultori della boxe si entusiasmeranno per i suoi colpi da quattro decimi di secondo ("un battito di ciglia" spiega lui sempre immaginifico), gli agnostici (in materia sportiva) dovranno riconoscere che il grande campione - oggi malato di Parkinson, piegato, ma non domo - era nei suoi anni d'oro, oltre che un brillante combattente per la causa della gente di colore, anche un ironico poeta. "La settimana scorsa ho ucciso una roccia. Ferito una pietra. Spedito all'ospedale un mattone". O forse, semplicemente, un genio della comunicazione. Come quando, invitato a recitare qualche suo verso a Harvard, il dislettico Alì batté il record della poesia più corta della storia e disse soltanto :"Me, We". Io, noi. Scatenando l'entusiasmo generale.
Autore critica:Irene Bignardi
Fonte critica:la Repubblica
Data critica:

19/4/1997

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