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Bambini di Rue Saint-Maur 209 (I) - Enfants du 209 rue Saint-Maur, Paris Xe (Les)

Regia:Ruth Zylberman
Vietato:No
Video:
DVD:
Genere:Documentario
Tipologia:Diritti Umani - La libertà, La guerra, La memoria del XX secolo, La storia, Razzismo e antirazzismo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura: François Prodromidès, Ruth Zylberman
Fotografia:Cédric Dupire
Musiche:Nicolas Repac
Montaggio:Valérie Loiseleux
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:
Produzione:Arte France, Zadig Productions
Distribuzione:Lab 80
Origine:Francia
Anno:2018
Durata:

101'

Trama:

La storia di un edificio durante l'occupazione tedesca di Parigi attraverso i ricordi di coloro che vissero lì e sopravvissero alla guerra. Ruth Zylberman ha scelto quest'edificio parigino di cui non sapeva nulla, il 209 di Rue Saint-Maur e per diversi anni ha indagato con l'obiettivo di ritrovare i vecchi inquilini del palazzo, per poter ricostruire la storia di quella che era stata una piccola comunità ebrea durante l'occupazione nazista. Ha ritrovato gli ex abitanti del 209 nelle periferie di Parigi, a Melbourne, New York e Tel Aviv. Li ha filmati insieme all'edificio e alle sue pietre, riprendendoli come un organismo vivente, per poter comprendere che cosa resta delle loro vite "interrotte".

Critica 1:“È stato scoprendo il censimento del 1936 che mi sono accorta che un terzo dei 300 abitanti del 209 di Rue Saint-Maur erano ebrei. Dei 52 deportati, nove erano bambini. I suoni, gli odori, gli oggetti familiari dei luoghi dove abbiamo vissuto impregnano la nostra memoria. Per quelli la cui condizione di sopravvivenza è stata di nascondere ciò che ha spezzato la loro vita, una rampa di scale, il pavimento di un cortile, un corridoio o una finestra sono tante piccole pietre verso un passato ritrovato che, anche se in forma frammentata, essi saranno capaci di trasmettere”.
Autore critica:Ruth Zylberman, regista
Fonte critica
Data critica:



Critica 2:(…) I bambini di Rue Saint Maur 209 muove proprio dalla sfera della memoria personale di chi si è trovato coinvolto nella retata che si svolse nel condominio situato a quell’indirizzo, il 14 luglio 1942; ma per ricostruire, a partire da quella catastrofe capace di disgregare la comunità formata dalle famiglie che abitavano quegli appartenenti, percorrevano quotidianamente quelle scale e quei corridoi, dai bambini che giocavano in quel cortile, la struttura di un microcosmo che finisce per ricomporsi anche al di là dei ricordi dei singoli, per mezzo degli esili ma precisi fili che poco a poco riescono a ricollegarli. Un palazzo si riscopre, oggi, vera e propria figura di un evento storico dalle dimensioni inconcepibili, allora, per chi lo occupava. (…)
Autore critica:Adriano Piccardi
Fonte critica:Cineforum n. 582
Data critica:

3/2019

Critica 3:Al numero 209 di rue Saint-Maur, poco lontano dal Canal Saint-Martin, c’è ancora la stessa porta azzurra che conduce al locale della custode, alla corte interna, alle scale verso gli appartamenti. All’interno, a parte l’acqua corrente, poco è cambiato rispetto agli anni Quaranta. Fuori c’è un quartiere animato, con un’agenzia di viaggi e un’estetista. La scrittrice e regista Ruth Zylberman ha deciso di raccontare in un film la storia di quel condominio, dei suoi fantasmi e delle persone che ancora vivono qui.
All’inizio della Seconda guerra mondiale, al 209 di rue Saint-Maur abitavano circa 300 persone. Un centinaio erano ebrei. Attraverso quella stessa porta azzurra entrarono gli agenti della polizia francese che tra il 16 e il 17 luglio 1942 presero 17 ebrei e li portarono al velodromo d’inverno, dove altri 13 mila ebrei (un terzo bambini) vennero radunati e poi condotti nei campi di sterminio nazisti (solo un centinaio tornarono).
Dopo la retata del Vél d’Hiv francesi collaborazionisti e nazisti continuarono per due anni a cercare ebrei in quel palazzo. Tornavano sempre, e riuscivano a trovare qualcuno da portare via almeno una volta al mese. Alla fine, i deportati dal 209 rue Saint-Maur furono 52, tra i quali 9 bambini.
Ruth Zylberman ha cercato di ricostruire la storia di ognuno di loro, come dei vicini che sono rimasti nel palazzo. Ha stilato elenchi e ingrandito la mappa catastale, ha appeso al muro — come in un’inchiesta all’americana — le foto, i ritagli, i documenti di tutti gli abitanti. Al terzo piano abitava la vicina sospettata di denunciare i bambini nascosti, in fondo al quarto la famiglia che invece rischiò la vita per salvare le persone incontrate per anni sulle scale, qui stavano i Frantz, là i Delaplace, in fondo al corridoio gli Haimovici, e così via.
La storia del palazzo è anche quella della signora ebrea alla quale venne confiscata la macchina per cucire, della donna che ne approfittò diventando proprietaria di quell’oggetto ormai «arianizzato», e del neonato René Goildsztajn che venne lanciato nella braccia di una vicina un istante prima che la madre venisse portate via.
«Mi sono ispirata alla corrente delle microstorie, nata in Italia con Carlo Ginzburg — dice Zylberman —. Ho fatto ricerche per molti anni, la mia amica storica Claire Zalc mi ha aiutato indicandomi le fonti: i documenti del censimento, i rapporti di polizia, gli archivi del commissariato e delle associazioni».
Vedere Les enfants du 209 rue Saint-Maur - Paris Xème è un colpo al cuore. Concetti astratti come «persecuzione» e anche «Shoah» prendono una dimensione fisica, sensibile. «Noi artisti e storici dobbiamo trovare forme che ci permettano di uscire dalle formule generiche sul “dovere di memoria"». Anche Claude Lanzmann in Shoah è partito dai luoghi, «lì era Auschwitz, l’orrore quando si è già consumato. Ma che cosa è successo prima? Persone catturate in luoghi che non solo assomigliano ai nostri, ma che esistono ancora oggi».
La parte finale del film racconta il ritorno di alcuni bambini, ritrovati dall’autrice, nel palazzo della loro infanzia. Ormai ottantenni incontrano i compagni di giochi di oltre settant’anni fa. Qualcuno, come Henry Osman, ebreo nato a Parigi da una famiglia di origine polacca, aveva fatto la scelta di dimenticare tutto. A cinque anni i genitori con l’aiuto dei vicini lo affidarono al «comité Amelot», una organizzazione clandestina ebraica. Dopo la Liberazione, orfano, a 10 anni Henry ha lasciato la Francia per vivere con la parte americana della famiglia. Non parla più francese, la regista è andata a trovarlo in America, lui voleva e non voleva sapere. Ma alla fine ha scelto di rivedere il palazzo di rue Saint-Maur e affrontato il viaggio fino a Parigi. Esita davanti alla porta azzurra, chiede in inglese «è possibile che i miei genitori abbiano toccato questa maniglia?». Entra, fa qualche passo nella corte, chiede ancora «I miei genitori camminavano su questo pavimento?». Si fa avanti nei corridoi, gli viene spiegato che all’epoca non c’era l’acqua corrente e ci si andava a lavare nei bagni pubblici e allora torna, come una folgorazione, l’immagine dei genitori. «Ora ricordo. Ricordo mia madre che mi lavava», la prova che quell’infanzia era esistita davvero.
Autore critica:Stefano Montefiori
Fonte critica:corriere.it
Data critica:

1/6/2018

Libro da cui e' stato tratto il film
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