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Alamo Bay - Alamo Bay

Regia:Louis Malle
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Razzismo e antirazzismo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Alice Arlen
Sceneggiatura:Alice Arlen
Fotografia:Curtis Clark
Musiche:Ry Cooder
Montaggio:James Bruce
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Cynthia Carle (Honey), William Frankfather (Mac), Ed Harris (Shang), Martin Lasalle (Luis), Amy Madigan (Glory Scheer), Donald Moffat (Wally Scheer), Lucky Mosley (Ab Crankshaw), Ho Ngueyen (Dinh), Truyen V. Tran (Ben), Rudy Young (Skinner)
Produzione:Louis Malle - Vincent Malle
Distribuzione:Columbia
Origine:Usa
Anno:1984
Durata:

103’

Trama:

Nell'aprile del '75 finite le ostilità nel Vietnam, circa mezzo milione di Vietnamiti, già alleati degli Americani, si trasferirono negli Stati Uniti. Centomila di essi invasero le coste del Texas, alla ricerca di una vita finalmente pacifica ed operosa. Lavoratori tenaci, portatori di una solida cultura. ma pronti ad identificarsi con il nuovo Paese, poverissimi ma anche coraggiosi, essi erano destinati a scontrarsi con diffidenze, rancori ed una palese ostilità, soprattutto per ragioni economiche: si rilevarono, infatti, pescatori fortunati e provetti, suscitando indubbi problemi di coesistenza con i locali padroncini di pescherecci in una zona non molto ricca. La concorrenza esplose alla fine in un autentico conflitto, non più a sottofondo economico, ma razziale. Da qui risse, riesumazione dei riti del K.K.K., distruzione di battelli, incendi e sparatorie. Gli ospiti indesiderati furono perfino (proprio loro!) tacciati di.... comunismo. La quasi totalità degli immigrati fu, in conclusione, obbligata a trasferirsi in altri lidi (ma, probabilmente, con analoghi problemi). Solo negli anni più recenti, attenuatesi la rabbia e la tensione, un dieci per cento dei profughi tornò a vivere ed a lavorare sulla Costa. Il film getta luce su queste tristi vicende, innestandovi quella che coinvolge Dihn, l'onesto, allegro e cocciuto Vietnamita (e la barca che con il proprio sudore e la sua viva intelligenza egli è riuscito ad acquistare), il violento e coniugato Shang, un americano padrone a sua volta di un magnifico battello da pesca e Glory, amante di Shang e proprietaria del magazzino del pesce ed emporio di Alamo Bay. La storia, in un quadro di diffidenze, di risse di odii viscerali, narra di Dinh, che con i compatrioti lavora presso Glory e suo padre Wally, ambedue favorevoli agli immigrati. Ma egli incorre soprattutto nella acerrima opposizione di Shang, a cui non solo la Banca fa sequestrare il battello (è un debitore moroso), ma la stessa Glory, che sempre ha amato, sembra togliere affetto e comprensione. Campeggiano nello sfondo lugubri croci fiammeggianti del K.K.K., finché Shang (sensibile anche alle meno politico- sindacali di un agitatore andato "in loco"), mette in atto un radicale programma di distruzioni e delitti. Nel duello finale, armi alla mano, tra lui e Dinh e nel bel mezzo di un incendio (la barca del Vietnamita, che si era rifiutato di lasciare il paese), questi ha la peggio e sta per essere finito, quando Glory piomba nel suo magazzino e, per salvare Dinh, spara sull'uomo amato.

Critica 1:100000 dei 500000 vietnamiti che dopo il 1975 si rifugiarono negli USA finirono in Texas, in cerca di pace, lavoro e benessere. Cosa trovarono? Crisi economica, diffidenza, rancore, razzismo. Dramma sociale all'insegna del più meticoloso realismo sociologico, caratteristica questa che è pregio e difetto a un tempo. Diligente più che ispirato, Malle è poco energico quando si cimenta coi problemi sociali.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(…) L'approccio di Malle è diretto: il film si apre sull'arrivo del profugo sudvietnamita Dinh a Port Alamo e su una didascalia che ci informa dell'autenticità dei fatti che vengono raccontati. Nei primi 5 minuti abbiamo tutte le informazioni necessarie non solo a individuare il «tema» ma addirittura a immaginarne, almeno per grandi linee, lo svolgimento. Dinh fa l'autostop, una vecchia si ferma ma quando vede che lui è un «giallo» tira via. Un camionista gli dà un passaggio e commenta così le sue impressioni sul Vietnam: «Donne bellissime e droga quanta ne vuoi». Sulla polvere che copre il camion una mano ignota ha disegnato le fatidiche tre K. Dinh smonta dal camion e attraversa un giardino; il proprietario (Shang) gli dice che avrebbe potuto ucciderlo per questo. La moglie di Shang dice che i vietnamiti abitano a Fogna City.
Tutto chiaro subito, dunque. Non si tratta nemmeno di quelle che potrebbero essere considerate «anticipazioni», nel senso che non anticipano un vero e proprio svolgimento drammatico, ma al contrario lo esauriscono. Quello che segue è solo ripetizione, variazione sul tema, insistenza, accumulazione, catalogo. Il rapporto è fra la ricerca dell'integrazione passiva di Dinh e il terrorismo degli abitanti di Port Alamo e non cambierà. Non ci stupiscono così le violenze ripetute dei locali né la croce data alle fiamme del Ku Klux Klan. Più avanti, due ragazze vietnamite camminano per strada, un’ auto si avvicina e dei ragazzi americani rivolgono loro alcuni commenti «pesanti»; sopraggiunge lo sceriffo e allontana le ragazze dicendo che non devono dar fastidio ai giovani del luogo; poi le osserva allontanarsi, lo sguardo fisso all'altezza del sedere, e commenta fra sé: «Cristo, possibile che non ci sia più un po' di senso morale». In altre occasioni, i vietnamiti sono accusati, di volta in volta, di essere comunisti, sporchi, ladri, approfittatori, e via dicendo. Che gli USA fossero un paese razzista, lo sapevamo. Che la politica protezionista di Reagan trovasse largo ascolto nella popolazione, sapevamo anche questo. Tutto ciò che Malle ci mostra corrisponde indubbiamente a verità, ma è tanto verosimile da apparire stucchevole. Le ragioni sono probabilmente da ricercarsi nell'estrema, didascalica precisione con cui le diverse pedine vengono mosse, e nell'eccessiva condensazione drammatica che questa disposizione mette in atto. I procedimenti narrativi tendono sempre ad una condensazione dei fatti, che è poi la forma drammatica degli stessi. La struttura fondante del mélo (cui Alamo Bay non è certo estraneo) è la condensazione in scene madri, ovvero una tecnica dell'esplosione semantica che non ha paura di esprimersi nella forma della coincidenza, del riconoscimento fatale e via dicendo; allo stesso modo, nel racconto d'avventure, è questa condensazione a portare protagonista e antagonista di fronte in occasione del duello finale. Tutto ciò è scontato, fa parte delle regole. (…) Non ha niente a che vedere col verosimile, è semmai una questione di stile. Malle, al contrario, non si cura minimamente di questo limite: accumula le «disgrazie della virtù» come se fossero semplici fatti di cronaca, senza trasformarli in storia. Da un lato abbiamo sempre l'integrazione passiva (la fuga dei vietnamiti dopo le angherie dei texani) o quella critica di Dinh che vuole conoscere le regole, vuole lavorare e diventare americano nel senso più positivo del processo. Dall'altro abbiamo il rifiuto dei locali, ora isterico (la crisi della cassiera al supermarket), ora terroristico (la guerra di Shang), ora politico (le attività del KKK). La sola figura «dialettica» è quella di Glory che fa della emancipazione dei vietnamiti una parafrasi della propria emancipazione di donna.
La struttura oscilla su questo bipolarismo manicheista e su un duplice processo di spettacolarizzazione di chiara derivazione televisiva. I modelli sono infatti il docu-drama e la soap opera: nel primo si insiste sulla drammatizzazione di elementi reali e documentabili dalla messa in scena stessa; nella seconda sulla riconoscibilità del quotidiano come forma essenziale di stereotipizzazione. Non sempre i personaggi sono chiaramente motivati, agendo in realtà più da funzioni argomentative che da personaggi, e questo perché lo stereotipo non tollera ambiguità. Non c'è mai provocazione, ma una continua autodichiarazione di autenticità.
Alamo Bay è indubbiamente «fatto bene» (ci sarebbe da stupirsi del contrario), ma, come tanti film di denuncia americani e come tanta televisione, si affida interamente alla sceneggiatura; la messa in scena è solo un'accurata illustrazione, condotta con un buon ritmo, ottimamente fotografata, con una musica che a tratti sembra uscita da Nashville, ma non aggiunge nulla a quella che potrebbe essere la trascrizione dei dialoghi. In questo sembra trovarsi quel parallelismo cui si accennava con i modelli televisivi che, come ben sappiamo, sono semplicemente una «radio con figure» e poggiano su un abbassamento del livello di spettacolarità che non è solo dovuto alla pochezza tecnica del mezzo, ma ad un più generale procedimento di semplificazione narrativa.
La prospettiva di Malle è apparentemente provocatoria soprattutto in quanto, raccontando la storia dei profughi vietnamiti dall'interno, induce ad una possibile identificazione fra questa e la propria storia di immigrato; il significato dell'operazione è tuttavia puramente cronachistico, e oltretutto lo spettatore potrebbe non dimenticare che Malle ha sposato Candice Bergen e che forse questo gli ha risolto qualche difficoltà. In ogni caso si tratta di una identificazione che si sovrappone dall'esterno, che possiamo individuare nel «detto» del film, ma certo non nel modo di dirlo. Malle ci aveva abituati a una rilettura garbatamente ironica di alcune moderne mitologie, in particolare americane (si pensi a Viva Maria, 1965, a Pretty Baby, ma soprattutto ad Atlantic City). Anche in Alamo Bay è riconoscibile un approccio culturalmente mediato attraverso l'adozione di modelli narrativi cinematografici. Se in Atlantic City il modello di riferimento era il gangster film, qui esso è il western. Non c'è solo, a dircelo, il riferimento ad Alamo; non c'è solo la struttura narrativa che rimanda alle già viste dispute fra allevatori e contadini; non c'è solo l'immancabile duello finale con fucile e rivoltella; non c'è solo l'arrivano i nostri (la Guardia Costiera in elicottero) a impedire lo scontro a fuoco. Verso la fine l'informazione, per paura di non essere stata compresa, si fa esplicita. Quando gli altri vietnamiti fuggono da Port Alamo, Dinh dichiara: «Non mi piacciono quelli che vogliono spaventarmi» (non era così anche il Van Heflin di Shane?). Allora Glory commenta: «Tu devi essere uno degli ultimi cowboy rimasti nel Texas». È qui probabilmente la grande occasione mancata del film: il rovesciamento che porta Dinh a interpretare, lui, lo straniero, il ruolo tipicamente americano, non ribalta il significato dello stereotipo, ma lo conferma ulteriormente. Se è vero che gli americani possono avere dei difetti (ma vengono puniti per questo), l'America è tanto grande da riassorbirli tranquillamente e la democrazia è tanto forte che persino uno straniero (vietnamita o francese che sia) non può che fare il suo gioco. Non solo nel finale Glory uccide l'amante per salvare la vita a Dinh ed ovviamente la faccia all'America, ma la didascalia di chiusura ci comunica che «oggi più di 15.000 vietnamiti vivono e lavorano sulla costa del Texas». In Atlantic City il rovesciamento dello stereotipo portava ad una conclusione fluttuante, intrisa di malinconia e d'impotenza. Qui conduce al trionfalismo. Non è sufficiente a produrre ambiguità e sospensione di giudizio il brusìo che nel finale accompagna la disfatta Glory verso una casa che presumibilmente non sarà più home. La didascalia-pistolotto chiude inesorabilmente il film in una delle tante autocritiche che diventano autocelebrazioni cui ci hanno abituati il cinema e la televisione USA.
Tutto questo ci riporta all'iniziale discorso sull'integrazione, la quale in Malie sembra essere economica e non culturale, passiva quindi e non critica. La sua accettazione del made in USA è superficiale, simile a quella del suo protagonista che arriva a Port Alamo con una bandierina a stelle e strisce in mano, che vuole la birra Stella del Texas, che chiede gli sia dato il «libro delle regole» perché non vuole sgarrare, che compra un cappellone da cowboy e gioca a baseball. Ma mentre Dinh viene salvato dagli sceneggiatori che ne fanno un nuovo Shane, Malle rimane un estraneo, intento ad imitare con buona calligrafia un modello che non è suo ma dal quale non riesce a distanziarsi ironicamente o criticamente. Il suo confronto con la cultura americana diventa così di accettazione disinteressata anche (o proprio) laddove si veste dei panni della denuncia (…).
Autore critica:Giorgio Cremonini
Fonte critica:Cineforum n. 249
Data critica:

11/1985

Critica 3:
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