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Radio days - Radio Days

Regia:Woody Allen
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video, Cecchi Gori Home Video (Winners)
DVD:
Genere:Commedia
Tipologia:Mass media
Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Woody Allen
Sceneggiatura:Woody Allen
Fotografia:Carlo di Palma
Musiche:Dick Hyman
Montaggio:Susan E. Morse
Scenografia:Santo Loquasto
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Mia Farrow, Seth Green, Julie Kavner, Josh Mostel, Dianne Wiest
Produzione:Jack Rollins E Charles H. Joffe - Orion Pictures
Distribuzione:Cdi
Origine:Usa
Anno:1987
Durata:

98'

Trama:

Un ragazzo - Joe - rivive una parte della propria vita, legata soprattutto ai ricordi radiofonici (le voci, gli avvenimenti e le musiche, dagli anni '30 alla fine della guerra). La sua famiglia (ebrea) è numerosa e bizzarra; la sua casa piena di movimento e di amenità: un padre che vivacchia alla meglio sempre pronto a piccole iniziative sballate; una madre brusca e litigiosa, ma affettuosa; lo zio Abe, gran pescatore: una sorella della madre - Bea - zitella e sognatrice. Nei ricordi di Joe passano svariati personaggi della radio, dello spettacolo e della vita quotidiana, celebrità ignote come ciccioni intraprendenti quanto pavidi, oppure la graziosa e querula sigarettaia, tutti più o meno direttamente legati a quei microfoni imperanti, dai quali fluiscono la notizia di Pearl Harbour, come le immortali canzoni di Glenn Miller.

Critica 1:Quando la radio, medium caldo, regnava negli anni '30 tra Brooklyn e Manhattan: la storia di una vivace famiglia ebraica della piccola borghesia e quella di una sigaraia che vuole diventare una star. Tenero omaggio, quasi una dichiarazione d'amore, ai tempi ingenui e fantasiosi della radio: un mosaico nostalgico di amori, illusioni, speranze, fantasie con brividi di malinconia. Deliziosa compilation di vecchi tunes sentimentali e fotografia di Carlo Di Palma.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(...) Si sarebbe tentati di pensare che Allen ha rinunciato allo spessore “verticale” di La rosa purpurea per una sorta di coltura estensiva, un affresco tanto largo quanto occasionale e bozzettistico. Ma sarebbe vero soltanto a metà.
Sì, Radio Days non vanta implicazioni “postmoderne” (siamo già alle virgolette, fra un po' sarà una parola sussurrata solo nei diurni) della pellicola del 1985; ma è anche un'opera attentamente costruita che, come al solito, il regista offre su piani diversi al grande pubblico e all'intenditore.
Come prodotto di intrattenimento esso è più sconnesso di La rosa purpurea (probabilmente il film più compatto che Allen abbia girato nel corrente decennio): la sua struttura sembra fatta a sketches, e la voce narrante stessa si compiace di frammentarne la costruzione con dichiarazioni relative a storielle, divagazioni, curiosità, ecc., tutte concernenti la radio. La radio dunque è il punto di riferimento, l'epicentro o il termine d'arrivo di tutto ciò che la pellicola mostra: fonte di cultura e di costume, quando il protagonista vede il sommergibile nazista pensa subito che soltanto Biff Baxter gli crederebbe (cioè che la sua fantasia avrebbe riscontro solo in un medium creatore di fantasia); e Sally, coinvolta in una storia coppoliana, si ritrova davanti ad un microfono radiofonico invece che in fondo all'East River. Ogni cosa, insomma, porta alla radio, essa è il nucleo, il perno dei racconti del film.
Ecco dunque un buon coefficiente di unità per questa pellicola così ostentatamente frammentaria. Non si tratta soltando di rievocare i tempi in cui si ascoltava la radio, ma di rivedere avvenimenti ad essa strettamente connessi.
La connessione, però, si rafforza molto di più se si riflette su un aspetto implicito del film. Ciò che noi vediamo sono immagini che l'orecchio a quel tempo (così come ora, del resto) doveva limitarsi ad ascoltare. Il Vendicatore Mascherato, cioè, così come Abercrombie, non avevano volto (e l'unica volta che quel volto si mostra - nel personaggio dei ragazzo-prodigio - la rivelazione ci fa rimpiangere l'anonimato), ma nella pellicola quei volti sono mostrati. Tralasciamo l'ironia scontata delle forme della loro immagine (il Vendicatore un omino basso e calvo, Abercrombie un vecchio scimunito, Irene & Roger due mummie incartapecorite, ecc.) e evidenziamo che l'operazione è condotta ad esclusivo beneficio del pubblico, in modo cioè da esibire uno dei temi centrali del film: l'opposizione fra i due mondi, quello degli ascoltatori e quello degli “artisti”. È un'opposizione indicata quasi subito nel film dalla voce narrante quando parla di “due mondi completamente diversi, persone e luoghi che noi potremo solo sognare” e che viene magnificamente e semplicemente ribadita dalla madre verso la fine, durante la notte di Capodanno: “Ci sono quelli che bevono champagne nei locali chic, e noi lo beviamo a casa”. I due mondi sono inaccostabili, l'unica forma di comunicazione fra di essi è univoca: la radio, per chi ascolta, a Rockaway o altrove, è ricevente ma non trasmittente. L'unico feedback è accennato da Roger quando si rifiuta di divorziare dato l'indice d'ascolto che ha il programma condotto da lui e sua moglie. Ecco, questa è tutta l'umanità che la radio sa esprimere, o meglio, che i suoi programmi regolari possono proporre. L'unico momento dolente e umano è il reportage del bambino nel pozzo; lì per un attimo la radio diventa cemento di una nazione, non suo semplice mezzo di intrattenimento. La macchina da presa scruta i locali più diversi, l'opposizione fra ricco e povero crolla, i volti intenti sono quelli di operai, marinai, ragazze, ricconi. Non è un'illusione aclassistica, l'America rimane il paese delle differenze e delle contraddizioni che è; ma è indiscutibilmente un momento di umanità che porta tutti a una dimensione finalmente vera della realtà come patrimonio comune, una morale scipionica per cui tutto ciò che accade a chiunque ci riguarda, un rilancio del famoso pensiero di John Donne finalmente liberato dalla pelosa letterarietà hemingwayana. È giusto che questo segmento trovi luogo appena prima delle sequenze sul Capodanno; è un omaggio che Allen fa al medium, garantendogli, all'occorrenza, una dignità che troppo spesso gli è stata negata. Ma è anche giusto perché col 1944 un altro mezzo offrirà le notizie in modo più concreto e immediato; da quel momento in poi il pubblico non avrà più opportunità di meditare in silenzio un evento di grande tensione e lutto, le immagini paradossalmente appiattiranno ogni possibilità di risposta, all'infinitamente maggiore quoziente di informazione corrisponderà un'infinitamente minore capacità di presa da parte del nuovo medium. Come scrisse T.S. Eliot, il genere umano non può sopportare troppa realtà. E la televisione è la realtà 24 ore su 24, una realtà senza tregua, che ci insegue sin nelle nostre notti insonni, una riproduzione continua del mondo che ormai ha preso il posto del mondo stesso. “Non dimenticherò mai quelle voci. Con ogni fine d'anno quelle voci sembrano affievolirsi sempre di più, sempre di più”, dice il narratore. Ma non si tratta solo di una chiave memoriale, qui è in gioco la fine della parola davanti al potere dell'immagine, qui è Allen sceneggiatore, entertainer e gagman che lamenta un mutamento culturale di natura radicale, probabilmente una delle ragioni più profonde che a un certo momento della sua vita l'hanno “costretto” a scegliere il cinema come mezzo d'espressione. In questo senso è necessario dargli atto che il suo basso quoziente di messa in scena è motivato da un rigore nei confronti della parola - e dell'aspetto aurale in genere - come componente non inferiore all'immagine. (...)
Evidentemente non sono scelte casuali, come del resto il finale (ma anche l'apertura) con l'immagine di Rockaway sull'aria di “September Song” di Weill, chiaro riferimento a un tramonto, a una decadenza, a una fine; ed anche -preziosità tutta alieniana - la dolce coincidenza dei due assoli canori femminili (che parlano di solitudine e di amore) dei film: la Farrow canta “ I Don't Wanna Walk Without You” sullo sfondo di una manifestazione USO (United Service Organizations) in favore dei militari in guerra e, verso la fine, Diane Keaton canta nel sofisticato locale “You'd Be So Nice To Come (Love)”. È davvero una firma alleniana questa tenera attenzione agli affetti femminili, questa simpatia nei confronti dei propri amori, passati e presenti, questo tributo pagato ai personaggi più importanti della vita del regista. È come una dedica. Solo, fatta nel corpo del testo, e dunque tanto più preziosa e amabile.
Ma non si deve pensare che Allen privilegi la parola sull'immagine. È vero che in questo senso Radio Days è un po' ìa versione radiofonica di un film di Woody Allen, dal momento che il protagonista non vi figura se non vocalmente; ma non si possono sottovalutare le componenti visuali della pellicola. E non tanto l'ammirevole capacità di riprodurre il colorismo dei manifesti e della pubblicità dell'epoca, non tanto i riferimenti interni al cinema dì Allen (il catcher che fugge dopo il lancio dei giocatore cieco, ad esempio, ha la dinamica del litigio fra i due Napoleoni in Amore e guerra, o la parodia del gergo italo-americano, qui in una chiave più coppoliana, era stata già vista nel litigio fra pizzaioli in Provaci ancora, Sam) né quelli esterni (Coppola, l'apparizione felliniana del Rex, il breve brano da Scandalo a Filadelfia di Cukor, la cui funzione - come le notizie su Pearl Harbor, Guadalcanal, ecc. - è di scandire la cronologia), non tanto per le gioiose ricostruzioni ironiche come la stupenda sequenza della cugina che imita Carmen Miranda con i due uomini della famiglia che fanno da coro divertito, non tanto per l'evidente rimando a Cantando sotto la pioggia nella sequenza delle lezioni di dizione (chi ha dimenticato Kathleen Freeman e il suo “No no no no”?) o a My Sister Elleen (1942) di Alexander Hall nella scena delle sorelle che nel più completo caos ballano la conga (mancano solo i sette marinai portoghesi dell'originale), o al momento felliniano del finale sul terrazzo, ecc., ma nell'uso della luce. Non c'è un solo attimo in cui la famiglia venga mostrata, in interni, a luce naturale, ogni ripresa d'interni è sempre pregna di luminosità elettrica e povera, ma va notato che anche i luoghi del contrasto, il locale elegante, le sale radio, ecc., sono in genere più luminosi ma egualmente artificiali, come se la dimensione del passato non potesse godere di alcuna qualificazione naturale. E quand'anche le riprese siano in esterni, il tempo è brutto nuvoloso, coperto, piovoso, e, insomma, intonato a una “canzone di settembre”. La continuità fra i due diversissimi mondi è sottolineata dai passaggi di stacco che continuano la colonna sonora e che impiegano lo stesso angolo di ripresa (ad esempio, la terrazza del locale e i tetti di Rockaway mentre la macchina da presa sta lentamente scendendo in basso, o anche l'identità della colonna sonora musicale la notte di Capodanno).
Dal momento che questo è un mondo dell'orecchio più che dell'occhio, è anche logico che le immagini non tentino di esprimere particolari luminosità: questa è una realtà di voci più che di forme, e la nitida colonna sonora quasi contrasta con la luministica più o meno fredda e comunque astratta e lontana (una lontananza nel tempo, naturalmente) di Di Palma.
Ovviamente Allen privilegia il luogo principe della cultura ebraica, la famiglia. Vi sono momenti che riportano alla mente le scenette di quel grazioso romanzo autobiografico, sì, ma in realtà finemente improntato ai modelli della sit-com televisiva, Growing Up Bronx di Gerald Rosen. La sequenza citata della conga in famiglia mentre il piccolo protagonista viene inseguito da padre e madre sotto gli occhi di uno zio distratto in poltrona gode dell'iconografia di un'intera tradizione Katzenjammer, e a starci attenti tutto il film è costruito su caricature comiche della realtà (la bellissima cantata del “Tico Tico”, il direttore d'orchestra che evidentemente impersona Xavier Cugat, il suonatore di xilofono che sembra uscito dalla penna di Don Martin, il formidabile satirista di MAD Magazine, per limitarci a un solo minuto di riprese nel locale notturno ancora all'inizio del film).
Ma il simpatico, divertente quadretto - come sempre in Allen - non è mai semplice momento comico. Esso si porta dietro altri risvolti, altre riflessioni. Radio Days è la pellicola più vicina ad Amore e guerra (ma in certa misura, fra i film alleniani dell'inizio, si potrebbe anche aggiungere Bananas) nella presentazione dei personaggi della famiglia, in quella del mercante di pesce ed in genere della stralunata galleria di personaggi-varianti come gli accompagnatori della zia zitella, ma soprattutto si legge in questi caratteri la stessa assoluta incapacità di comprendere la Storia che era il tratto primario di Boris. Persone semplici; legate al presente, alla concretezza del quotidiano, le loro preoccupazioni sono il pesce, l'osservanza del rituale, il ballo, mettere al mondo figli (il rispetto che Allen ha per la maternità quantomeno nella sfera dell'immaginario, perché i recenti pettegolezzi sulla sua vita privata sono di tutt'altro tenore - era già evidente nel finale di Hannah); essi non sanno chi è HitIer e perché in Europa sta succedendo quel che succede, a loro basta che i figli si comportino bene, che frequentino la scuola ebraica (chiunque abbia letto il Chaim Potok di La scelta di Reuven non può non aver ricordato il Rav Kalman guardando il rabbino che parla alla scolaresca, anche se poi tutta la tensione finisce, alla maniera alleniana, nella superba scenetta delle botte al bambino). Esseri travolti dalla Storia, al posto di Sally, appena assunta alla radio, anch'essi si domanderebbero dopo aver udito le notizie del bombardamento di Pearl Harbor - “Che cos'è? Che cos'è? Si torna lunedì?” (una battuta gloriosa, eterna, indimenticabile).
Ma travolti dalla Storia, in fondo, in Radio Days lo sono tutti. Anzi, è questa la “morale” del film. “Le generazioni future si ricorderanno di noi?”, chiede un personaggio radiofonico. “Tutto passa, non importa quanto siamo importanti nelle loro vite”, risponde il Vendicatore Mascherato, che poi uscirà per ultimo dalla scena ammonendo i malvagi a stare attenti, debole, piccolo, inaffidabile, eppure così rappresentativo di un mondo che finisce, di una vendetta che, perpetrata ai tempi della radio, oggi non potrebbe nulla contro un mondo fatto di immagini che ha perso ogni fantasia.
Ma il problema è anche un altro: “Così si riflette e si diventa vecchi”, dice un altro del gruppo sul tetto. Eh già, sappiamo tutti di chi sta parlando: parla di Allen, cioè Allen parla e si interroga su se stesso, sul proprio successo, sulla permanenza di ciò che egli è. E si affida alla memoria. Sinché qualcuno si ricorderà, tutto sarà finito “tranne i ricordi”. Dopo, anch'egli scenderà dal suo tetto illuminato sul quale, dopo le piogge di settembre, incomincia a nevicare. Ma, ricordiamolo insieme al Joyce del bellissimo racconto che chiude Gente di Dublino: la neve che cade (quella neve che cade) seppellisce tutto, i vivi e i morti. In una civiltà della riproduzione, delle duplicazione, della rappresentazione -discutibile conforto per l'omino che vorrebbe svegliarsi dall'incubo della Storia - se la neve cade non cade più su un'epoca, ma su tutti. E a quel punto niente e nessuno - né la radio, né la televisione, né il più sofisticato apparato videoregistrativo - potrebbero mai distinguere i vivi dai morti.
Autore critica:Franco La Polla
Fonte critica:Cineforum n. 266
Data critica:

8/1987

Critica 3:
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Libro da cui e' stato tratto il film
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