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Jules e Jim - Jules e Jim

Regia:François Truffaut
Vietato:18
Video:L'Unità video
DVD:Bim
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura:Jean Gruault, Henri-Pierre Roché, François Truffaut
Fotografia:Raoul Coutard
Musiche:Georges Delerue
Montaggio:Claudine Bouché
Scenografia:Fred Capel
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre, Vanna Urbino, Boris Bassiak, Anny Nelsen, Sabine Haudepin
Produzione:Les Films du Carrosse, Sédif Productions
Distribuzione:Bim
Origine:Francia
Anno:1961
Durata:

100'

Trama:

Parigi, 1907. Nel quartiere di Montparnasse, due studenti, uno austriaco, Jules, e uno francese, Jim, sono legati da una profonda amicizia, perchè accomunati dagli stessi gusti artistici e letterari. L'incontro casuale con Caterina, una giovane in cui ritrovano lo strano sorriso di una statua che li aveva molto colpiti, non rompe la loro amicizia, anche se la donna, pur sentendosi legata ad ambedue, sposa Jules. Durante la guerra Jules e Jim sono costretti a combattere sui due fronti opposti, ma appena questa è terminata, Jules e Caterina, che vivono in uno chalet delle Alpi austriache, invitano l'amico a tornare con loro. Jim accetta, e accortosi che l'amore tra i due, benchè sia nata una bambina, è diminuito per il carattere insoddisfatto e passionale di Caterina, a poco a poco ne diventa l'amante. Jules è al corrente di questa situazione, ma si rassegna. Questa relazione registra continue ripicche e riconciliazioni. Durante una gita in macchina, Jim e Caterina muoiono per un incidente provocato dalla donna. Desolato Jules li piange entrambi.

Critica 1:Ormai è un archetipo, al punto che se in un film si racconta di una donna che ama contemporaneamente due uomini non si sa più se sia una sua citazione o il ricorso a un modello già classico e "astratto" (come recentemente si è visto nelle recensioni da Cannes a Marie-Jo et ses deux amours di Guédiguian, in cui appunto vi è una vicenda "alla Jules e Jim").
Ma il vero
Jules e Jim, che all'epoca fece scalpore, e in Italia faticò ad uscire proprio per quello scandaloso amore a tre - e che ora riappare in una riedizione "rimasterizzata" ma senza "bonus" o "extra", lunga uguale, bella uguale, così come François Truffaut lo fece e lo volle allora - non è solo una storia di libertà e spregiudicatezza. E' una storia d'amore o d'amori, certo, ma anche di guerra (quella 1914-18, il che dimostra fra l'altro che si poteva fare "nouvelle vague" anche in costume e senza obbligatoriamente stare nell'attualità). E' una storia d'arte e di artisti: scrittori, pittori, appassionati di letteratura e archeologia e forse anche dell'amare inteso come opera d'arte. E' una storia di amicizia e solidarietà fra persone diverse ma attratte dagli stessi valori e dalle stesse bellezze. E anche una storia di morte, perché apertura mentale e anticonformismo, quando dal mondo delle idee entrano nella vita e nella carne, fanno male e possono essere insopportabili.
Ma anche quando diventa più angoscioso, quando più i suoi personaggi soffrono, o comunque quando propone una morale come minimo problematica, Jules e Jim trasmette sempre sensazioni di freschezza e di leggerezza. Quelle che avevano colpito il giovanissimo Truffaut in un romanzo d'esordio scritto da un signore di settantasei anni, da cui aveva pensato di trarre un film ancor prima di iniziare I quattrocento colpi. Leggerezza che egli riprodurrà in questo suo terzo film e accentuerà con la disinvoltura, tutta nouvellevaguista appunto, del suo stile, che unisce una veloce e "fredda" voce narrante a dialoghi brillantissimi, filmati di repertorio, ricostruzioni d'ambiente e squarci en plein air, buffonerie e momenti di riflessione, senza che mai si avvertano fratture o salti di tono, trasportati come si è da un'onda narrativa ed emotiva continua e inarrestabile, attraverso gli anni, i confini, i paesaggi, le traversie dei personaggi. I quali, anche per chi si voglia leggere poi il romanzo di Pierre-Henry Roché (allora Oscar Mondadori, adesso Adelphi) sono ormai indissociabili dagli attori del film, quegli attori a cui Truffaut teorizzava doversi adeguare i personaggi, all'opposto di quanto previsto dalle tradizionali pratiche di regia. Attori che "funzionano" più che per bravura per simpatia: col sorriso triste del biondo Oskar Werner, la mobilità nervosa del francese Henry Sarre e soprattutto la sfuggevolezza e l'enigmatica bellezza, insieme da statua greca e da garçonne parigina, di Jeanne Moreau, la "femme fatale qui me fut fatale" come lei stessa canta, con la sua voce appena roca, in 'Le tourbillon de la vie', la splendida canzone di Bassiak che del film è come un sottotitolo sonoro, la perfetta sintesi di forme e contenuti.
Autore critica:Alberto Farassino
Fonte criticaKwcinema
Data critica:



Critica 2:Il romanzo di Roché ha affascinato Truffaut per la sua grande innocenza e per la straordinaria semplicità del suo linguaggio che, paradossalmente, giunge a conseguire effetti di grande preziosità e raffinatezza. Disponendosi ad affrontare la trasposizione, il regista si impone anzitutto di restare fedele allo spirito del testo, restituendone il carattere impressionistico delle annotazioni, la struttura apparentemente dispersiva che mira all’accumulazione dei dettagli e di appunti fuggenti, alla costruzione di un mosaico esistenziale dal quale è bandita ogni pretesa di interpretazione psicologica, sociologica o storica. Il problema dell’adattamento è risolto mediante il ricorso ad una sorta di lettura filmata che alterna scene ricostruite (ma in funzione nettamente anti-teatrale), a brani di commento off, riproducenti interi passi del testo. “È un principio non molto difendibile ma che mi conviene; consiste non già nel fondere intimamente il libro con ciò che gli si vuole aggiungere, ma nel far alternare brutalmente una scena tratta con grande fedeltà dal libro, dunque assai letteraria, assai scritta, con una scena inventata, molto realistica, molto dialogata. Si tratta di restituire la parola al libro e di riprenderla di quando in quando; può essere forse urtante ma produce contrasti che mi piacciono”. Questa sorta di equivalenza che si stabilisce tra lo stile del film e quello del libro, risponde a una esigenza profonda, giacché conservarne lo stile significa in effetti conservarne la morale, che è l’espressione di un determinato modo di vedere il mondo e le persone: ed è quanto Truffaut ha in animo di restituire attraverso il film. Ciò che si tratta di “imporre” in maniera convincente con Jules et Jim è precisamente l’idea di una donna più forte degli uomini che incontra, una donna incapace di appartenere ad uomo solo, decisa a inventare la propria esistenza istante per istante, a dispetto delle costrizioni che la vita impone, disposta a fare “tabula rasa” di tutte le leggi, incominciando da quelle naturali, per raggiungere la libertà assoluta, per reinventare l’amore. Catherine, apparizione per tutti, incarnazione dell’assoluto, forza elementare che riunisce in sé i quattro elementi – l’acqua, il fuoco, la terra e l’aria – rappresenta tutto quanto di magico e di misterioso le donne di Truffaut possiedono. Il film è l’esperienza della libertà alla quale Catherine tende, il luogo privilegiato della sua realizzazione. In realtà si dovrebbe dire: Jules et Jim non è un film sull’esperienza della libertà assoluta, ma un film assolutamente libero su di un’esperienza fallita. Ma anche sull’impossibilità di non tentare nuove esperienze. Catherine per affermare la propria libertà deve giungere sino a negare se stessa: la morte, con cui unisce di forza il proprio destino a quello di Jim, è il gesto coerente ed estremo, l’espressione definitiva di una libertà sino in fondo contrapposta all’ottusità del reale. L’idea iniziale del film è che in amore la coppia non sia l’ideale, che la struttura monogamica e familiare non corrisponda più alla realtà: la conclusione è che, d’altra parte, non esistano soluzioni diverse, essendo ogni altra soluzione votata allo scacco. Ma è impossibile non tentare di costruire qualcosa di meglio, come ha fatto Catherine, rifiutando di adeguarsi alle regole esistenti, rifiutando l’ipocrisia e la rassegnazione. Questa dialettica di liberazione e di fallimento, che può apparire sterile solo agli spiriti rassegnati, è un’autentica dialettica della trasgressione. Il fascino del film è il fascino della trasgressione che esso mette in scena: “È bello voler riscoprire le leggi umane, ma come deve essere pratico conformarsi alle leggi esistenti. Abbiamo giocato con le sorgenti della vita e abbiamo perduto”, dice Jim nel finale. Il sogno di una purezza infinita, il folle tentativo di sfuggire alle leggi umane, attraverso l’utopia di un’infanzia prolungata come condizione di innocenza e di felicità, si scontra inevitabilmente con la dura realtà della vita, con la tragica banalità dell’ordine costituito. Operare la trasgressione, metterla in scena, significa per Truffaut anzitutto mostrare l’irriducibile contraddizione tra “l’innocenza del possibile e l’astuzia del reale” (Lino Miccicchè). Ma affermare l’effettiva, reciproca estraneità del primo al secondo, significa nel contempo riconoscerne la sostanziale dipendenza: la contraddizione, si sa, è lo spazio aperto all’interno del discorso dalla trasgressione. Uno spazio che forzatamente unisce nel momento stesso in cui divide: per definizione, la trasgressione è rispetto di ciò che si vuole infrangere, conservazione di che si vuole superare. La libertà non ha senso (non beneficia di una messa in senso), al di fuori di una legge che la limita, l’amore non si realizza se non contro una morale che lo circoscrive e che occorre di continuo eccedere, superare. La trasgressione mantiene un rapporto con ciò che è trasgredito. Il film è questo rapporto: la progressiva scoperta della resistenza della materia al generoso progetto che mira a reinventarne le forme, la progressiva intrusione del principio di realtà in un universo dominato dal principio del piacere. Ai pazzi che non sanno rassegnarsi, non resta che la folle audacia di una trasgressione incessante, “condannata a tendere perpetuamente, senza speranza di raggiungerla, verso questa condizione di pace che rappresenta la fusione dei contrari ma che, una volta raggiunta, non sarebbe che la morte”. (Michel. Delahaye, sui “Cahiers du cinema” n. 129). Ed è appunto una pulsione di morte a istituire la dialettica degli avvenimenti del film, il senso definitivo di questa pratica della trasgressione incessante che esso inaugura: la negazione costante e irriducibile che non approda al superamento dell’ordine costituito (se non nella morte), è forse l’espressione di quell’anarchismo a sfondo pessimistico che si vuole attribuire alla visione del mondo di Truffaut. Tematicamente, è in rapporto all’ordine della socialità e della sessualità che la pratica del superamento della norma si inscrive nel testo. Attraverso il gioco, per esempio. “Il terzetto era conosciuto con il nome di: i tre pazzi”, dice il commento. E la follia prende forma del film con il gioco, inventato da Catherine e battezzato “lo scemo del villaggio”. Il tavolo è il villaggio: ciascuno di loro, a turno, fa la parte dello scemo, imitandone le smorfie. La smorfia, in quanto sovversione delle significazioni normali del volto umano, diviene così forma del rifiuto del concetto stesso di normalità. Dunque, evasione dalle regole che la società si è imposta, perversione e negazione dell’ordinamento sociale del comportamento e della significazione. Attraverso il linguaggio, anche. Ed è allora l’inversione dei generi a manifestare l’idea della trasgressione. Jules ripete due volte: “Catherine, tu es fou”. Il lapsus, annullato dal doppiaggio italiano, scambia il maschile con il femminile. Ancora sul piano del linguaggio, Jules fa notare a Jim che le parole non possono avere lo stesso valore allorché, passando dal francese al tedesco, si invertono i generi: “Noi diciamo in tedesco: il guerra, il morte, il luna, mentre sole e amore sono di sesso femminile: la sole, la amore. La vita è neutro”. Le inversioni del linguaggio sono inversioni sessuali. Ed è soprattutto in rapporto all’ordine della sessualità che la sovversione delle norme sociali si manifesta. Catherine, all’inizio, cambia di sesso travestendosi da uomo: Thomas, che commuove Jim e Jules al pari di un simbolo che non arrivano a comprendere, è “l’androgino che incarna la fusione mitica dei sessi di cui noi conserviamo la nostalgia, che noi continuiamo, divisi, a cercare vanamente, in una ricerca della comunicazione sociale e sessuale condannata per definizione allo scacco” (Michel Delahaye, in una delle analisi più penetranti del film). Thomas, congiunzione ideale del maschile e del femminile, fusione mitica dei contrari, è il simbolo stesso del film, della nostalgia vivissima di un universo privo di leggi e dunque privo di contraddizioni. Ma la frattura dei sessi è originaria, lo sfasamento dei rapporti umani essendo preannunciato sin dall’inizio del film dall’esergo che la voce di Catherine pronuncia fuori campo, mentre lo schermo resta nero per il tempo necessario: “Tu m’hai detto: t’amo. Io t’ho detto: aspetta. Stavo per dirti: prendimi. Tu m’hai detto: vattene”.
Autore critica:Alberto Barbera
Fonte critica:François Truffaut, Il Castoro cinema,La Nuova Italia
Data critica:



Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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