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Eclisse (L') -

Regia:Michelangelo Antonioni
Vietato:16
Video:Art House
DVD:Mondo Home
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra
Sceneggiatura:Michelangelo Antonioni, Elio Bartolini, Tonino Guerra, Ottiero Ottieri
Fotografia:Gianni Di Venanzo
Musiche:Giovanni Fusco
Montaggio:Eraldo Da Roma
Scenografia:Piero Poletto
Costumi:Bice Brichetto, Gitt Magrini
Effetti:
Interpreti:Monica Vitti (Vittoria), Alain Delon (Piero), Lilla Brignone (Madre di Vittoria), Francisco Rabal (Riccardo), Louis Seigner (Ercoli), Cyrus Elias (L'ubriaco), Mirella Ricciardi (Marta), Rossana Rory (Anita)
Produzione:Inteuropa Film, Cineriz Roma, Paris Film Produc-Tion Parigi
Distribuzione:Collettivo dell’Immagine – Cineteca Nazione
Origine:Italia
Anno:1961
Durata:

125'

Trama:

Poco dopo la rottura di una relazione amorosa, Vittoria si lega ad un giovane procuratore di borsa, Piero. Gli appuntamenti tra i due si succedono, fornendo alla ragazza fugaci evasioni dalla noia di una vita monotona. Allorché un ubriaco ruba l'auto di Piero e quindi muore accidentalmente, Vittoria ha modo di constatare il cinico comportamento del giovane procuratore, che si preoccupa soltanto della carrozzeria danneggiata. Dopo uno dei loro soliti incontri, Vittoria riceve da Piero l'invito per un ulteriore appuntamento, al quale nessuno dei due si recherà perché in essi, e soprattutto in Vittoria, si va affermando un'amara certezza: quella della invincibile solitudine degli uomini.

Critica 1:L’eclisse di Michelangelo Antonioni conclude la trilogia critica aperta da L’avventura e proseguita con La notte. La compie e la riassume riducendo al minimo, a un fragile gioco del destino, il margine di speranza concesso agli uomini: sul finire, quando il tentativo di Vittoria di spezzare il proprio isolamento con un’estrema illusione di volontarismo fallisce e l’impassibile volto della città vuota risponde alla sua angoscia, qualche coppia, a braccetto, attraversa la scena nella penombra; perché loro sì e Vittoria no? E la loro felicità è una finzione dell’anima o è soltanto la sorte che li ha messi accanto, e sono stati toccati dalla grazia di continuare a capirsi, ad amarsi?
L’eclisse è’ ancora una volta un ritratto di donna, ma di una donna propria di Antonioni, ormai destinata a identificarsi, nella memoria degli spettatori, con la personalità mutevole e perplessa di Monica Vitti. Si chiama Vittoria, come nella Signora senza camelie si chiamava Clara, Anna nel L’ Avventura, Lidia ne La Notte. Abbandonato un uomo che non ama più, si ritrova sola, stanca, avvilita, disgustata, sfasata: sono le sue parole. È giovane, è bella, ha quanto basta per vivere. Ma è un’intellettuale e una sentimentale: cerca negli altri un calore di vita, una facoltà di appassionarsi di cui essa stessa è ormai svuotata. Tenta di fingerseli, e si avventura in un flirt con un giovane agente di cambio, che le dà "la sensazione di essere all’estero", poco più di un ragazzo, tutto l’opposto di lei: cinico, sicuro di sé, donnaiolo, perfetto esemplare, diciamo di giovane sano e normale (l’ottimo Alain Delon). La madre (una Lilla Brignone ben calibrata) è insensibile agli appelli della figlia; anch’essa è inquieta e infelice, ma trova la sua valvola di sicurezza nel gioco in borsa. Il caso vuole che Vittoria si dia a Piero, l’agente di cambio, all’indomani di un crollo in borsa nel quale la madre ha perso una grossa somma della quale resta debitrice al giovanotto. Al di là delle intenzioni di Vittoria, il suo gesto sembra assumere agli occhi di Piero, e poi a quelli di lei stessa, il significato di un tentativo di tacitare il debito della madre. Anche questo è un amore che crolla una strada che si chiude. Né Piero né Vittoria, irretiti dall’equivoco, andranno all’ultimo appuntamento.
Da quando Antonioni ha sconvolto le formule tradizionali dell’intreccio narrativo, affidando al film il compito di rappresentare un momento di crisi della coscienza più che di narrare una storia, e imparentando sempre più strettamente il cinema con la letteratura, le sue pellicole sono andate assumendo sempre più chiaramente il carattere di trattatelli psicologici. Ora ci sembra che con L’eclisse Antonioni abbia dato fondo alla sua teorizzazione dell’amarezza della vita contemporanea propria delle anime troppo sensibili. Un altro passo, e cadrebbe nel paranoico.
Questa Vittoria ancora si salva: è una ragazza che fa una gran fatica a vivere, è una solitaria che cerca nei grandi spazi e nella natura quella pace e quella libertà da se stessa, di cui è priva, si appoggia alle amiche per convincersi che ognuno ha le proprie ansie, ha dissociato l’amarsi dal comprendersi ("Non bisogna conoscersi per volersi bene"), non sa dare risposta a nessuno dei propri interrogativi: insomma è una creatura viva e vera, vittima anche della cultura moderna. Ce ne sono, e il film di Antonioni a noi è piaciuto per la tensione con cui l’ha individuata, per il paesaggio deserto con cui essa coincide, una calda estate romana, per quei trapassi di umore che danno al volto di Monica Vitti la varietà di un cielo nuvoloso. Ma è significativo che Antonioni sia ricorso all’ambiente della borsa, il più forsennato e spietato, peraltro descritto con la cura che il regista mette sempre nelle sue critiche di costume, per contrapporvi il carattere di Vittoria. Il chiaro-scuro è troppo accentuato per non fare sospettare che Antonioni cada ormai nel programmatico.
Se davvero i suoi prossimi film saranno di un genere comico-brillante, come si è detto, vuol dire che Antonioni se ne è accorto, e considera chiusa con la sconfitta della felicità la sua opera di introspezione della coscienza contemporanea. È vero però che l’ha condotta su soggetti-limite che si riscattano dalla rassegnazione dibattendosi prima di autodistruggersi ma hanno nel sangue la condanna al tedio del vivere: un’eclissi dell’equilibrio prima che dei sentimenti.
Autore critica:Giovanni Grazzini
Fonte criticaCorriere della Sera
Data critica:

13/4/1962

Critica 2:Nel film L’eclisse, Vittoria, una ragazza indipendente, che vive in un quartierino elegante facendo la traduttrice, abbandona senza ragioni plausibili l’amante Riccardo, dopo una lunga relazione: è un giornalista politico, un giornalista «engagé». Il giovanotto non riesce a capire l’atteggiamento di Vittoria, e cerca invano di vincerne la ritrosia, di riconquistarne l’animo. Vittoria nel frattempo va in cerca della madre, una donnetta che appartiene a quel ceto sociale della piccola borghesia sempre spaventato dal futuro, sempre in attesa di un mutamento favorevole della vita. Essa con quei pochi soldi che ha a disposizione gioca in borsa, e la cogliamo proprio in un momento di crisi, quando la borsa ha avuto una caduta e la povera donna vede inghiottiti tutti i suoi risparmi. Essa non ascolta la figlia, che l’invita a tornare a casa; Vittoria ha così l’occasione di conoscere un commissionario di borsa, Piero, un giovanotto di simpatico aspetto, attivo, pieno di fiducia in se stesso, forse non cattivo, ma che la vita ha costretto a compromessi con la propria coscienza. Egli non può aver pietà della povera gente che, in cerca di guadagni favolosi, rischia i suoi denari in operazioni troppo spregiudicate, troppo risicate; anzi ha una battuta molto cinica quando avendogli un ubriaco rubato la Giulietta, con essa è finito in fondo a un lago artificiale. La Giulietta viene ripescata, l’uomo è morto. Egli non pensa al morto, ma rivolgendosi a Vittoria le dice:
«Con poche migliaia di lire rimetto a posto la carrozzeria.» un limite di disumanità e Vittoria ne rimane colpita: che sia Piero l’uomo forte, colui che essa attende nel suo animo disorientato e smarrito? Vittoria tenta l’amore con Piero. A un certo punto la loro storia sentimentale sembra perfetta. Uno chiede all’altro: «Ci vedremo domani?» - «No, questa sera alle Otto.» La sera, al luogo del loro appuntamento, non si vede nessuno. Vi sono le cose, palazzi, cortine di bambù percorse da un fremito lieve, perché c’è un vento che dal principio alla fine sembra indicare l’inquietudine dei protagonisti. Una carrozzella di bambino, un autobus che agli angoli delle strade cigola per i freni; ma i due amanti non compaiono: per loro l’avventura è finita. Eppure in quell’attesa delle cose sembra di scorgere una partecipazione delle cose, appunto, alberi, case, vento, alla malinconia degli uomini, quasi che il mondo fisico avesse acquistato un’anima vicina a quella degli umani.
Si può parlare di una sorta di buddismo, della speranza di una vita diversa. Antonioni invita spesso a queste formulazioni. È un regista problematico, un regista che cerca cose nuove; è un regista, se volete, letterario. Però il suo film prende con una sorta di partecipazione dolorosa. Non ha più certi difetti di equilibrio e di non precisa osservazione sociologica che ci disturbavano ne L’avventura e anche ne La notte. Questa volta Antonioni ha come rappreso la sua materia in uno stile unitario senza scompensi. Con grande intelligenza spettacolare egli ha saputo contrapporre alla solitudine delle anime, alla malinconia di Vittoria, il mondo frenetico, agitato, nevrotico della borsa, dove un minuto di silenzio appare più definitivo della scritta mortuaria su una tomba. Sembrano uomini completamente alienati dalla sete del denaro. E nel cinematografo, questa pagina perfetta di Antonioni è ancora più forte della letteratura. Le immagini rendono con un’alacrità unica, con una forza rappresentativa straordinaria, la febbre, l’agitazione, il senso di frustrazione generale che dì il lavoro delle borse. Pochi anni fa, visitando una mostra molto importante dell’Unesco a Roma, nella quale erano rappresentati dal punto di vista figurativo dei grandi artisti dell’epoca della grande crisi europea, in parole povere il ‘600, restammo ammirati dalla bellezza di un Caravaggio, che è a Malta e che è stato restaurato a Roma, e di un Vermeer, il pittore che piaceva a Proust. Incontrammo poco dopo un famoso critico d’arte, nostro amico, che cercammo di far partecipare al nostro entusiasmo. Il critico d’arte sorrise e ci disse: «Ma tu, che t’interessi tanto della storia della cultura, del corso delle idee, non hai visto quel quadro piccolo dove appare la luna?» Lo avevamo visto ma non gli avevamo dato troppa importanza. E il critico riprese: «È la prima volta che si vede in un quadro una luna realistica, osservata dal vero, non una luna decorativa, una luna mitologica.» Era il Seicento ansioso di nuove cose, il Seicento scientifico, il Seicento che apriva l’età moderna. Un secolo drammatico, un secolo tra i più problematici, un secolo che sembra cupo eppure è come una fiamma di fucina nell’antro tenebroso di un vecchio fabbro. Con Bruno e con Campanella si intravede il pensiero di domani; con gli scienziati ci si libera dei ceppi del passato e con la musica si cerca di esprimere quelle idee che la controriforma detestava.
Ebbene, anche adesso, come nel Seicento, si assiste, secondo noi, a un fenomeno di rivoluzione spirituale. Non si sa che cosa ci attende ma si sa che c’è. Facendo un paragone terra terra, un paragone di esperienze individuali, è come quando, in certi giorni di primavera, si è inquieti, amorosamente inquieti, e poi appare una donna che per poco o per molto accontenta i nostri desideri e i nostri sogni. Ma senza quell’attesa, non l’avremmo riconosciuta per via. Ora l’umanità attende, attende qualcosa, ed è giusto che siano l’arte e il cinema artistico a precedere con l’analogia, con l’intuizione, una verità che forse non è ancora molto lontana dalla sua piena apparizione. Ne L’eclisse questo mondo curioso, questo mondo di attesa, c’è. L’incomunicabilità protagonista è soltanto verso due uomini e una donna con i quali non riesce a organizzare una relazione sentimentale coerente e profonda; ma in compenso sembra essere d’accordo con le cose. I suoi momenti di pace sono nel prato in cui decollano e giungono gli aeroplani, oppure nelle gente della periferia romana dove sono le case della gente agiata, dove passano carrozzelle con bimbi, dove c’è sempre gente in attesa, sconosciuti e pure uomini come noi.
Espresso il nostro consenso a L’eclisse, resta un’osservazione d’ordine generale. Il cinema hollywoodiano s’è affermato negli anni trenta, vincendo la concorrenza europea, perché proponeva racconti rapidi, succosi, che non lasciavano il tempo di riflettere. Tutto era fulmineo, allusivo: si trattava insomma di un cinematografo d’azione. Ora la gente preferiva quel tipo di pellicola, con le eccezioni dei film di Carné e di Renoir, alle nostre lentezze, ai nostri compiacimenti estetici. Lo stesso Rossellini, iniziando la polemica neorealistica con Roma città aperta e Paisà, mai si dimenticò di essere breve e conciso. Con Antonioni i tempi lunghi contrastano la rapidità delle opere hollywoodiane. Si va controcorrente, tanto è vero che una parte del pubblico non riesce più a orizzontarsi. È tipico in questo senso l’inizio, d’altronde assai bello, de L’eclisse. Vittoria non vuol più saperne di Riccardo. Ma prima di congedarsi perde una quantità di tempo: gira per la stanza, guarda fuori, ha alcuni gesti. Niente di più giusto, intendiamoci. Perché, tra l’altro, la gente perbene, quando lascia qualcuno, si comporta proprio così.
Il punto è altrove. Non in Antonioni che è un regista originale, con uno stile suo. Il punto è in coloro che dicono: questo è il cinema di domani, il cinema di papà, è morto.
Autore critica:Pietro Bianchi
Fonte critica:
Data critica:



Critica 3:Antonioni è indubbiamente il più colto, raffinato, sensibile, letterariamente educato ingegno del nostro cinema. È naturale che questo lo porti ad essere anche il più inquieto e più problematico. Un bel saggio di problematismo è anche il suo nuovo film, L’eclisse. Problematismo non vuol dire problema. Il problematico, come emozione artistica, precede il problema. Quando il problema è, non dico risolto, ma già solamente annunciato, non è più problematico, perché la semplice enunciazione, suggerendo un’ipotesi, è già una forma di soluzione. I personaggi di Antonioni, qui ancor più che nei film precedenti (o almeno i due precedenti, L’avventura e La notte, dai quali è partito per la nuova ricerca), sono costituzionalmente senza soluzione.
Perciò essi, per definizione, “non sanno”. “Non lo so, non lo so”, continua a ripetere indolentemente Vittoria a Riccardo, l’amante che sta per lasciare, e che implora invano una spiegazione, un perché. “Non lo so, Piero”, risponde al nuovo amante quando questi le dice: “Credo che andremo d’accordo”. Dice ancora: “Non so perché si facciano tante domande... Non bisogna conoscersi per volersi bene...”. Esistono naturalmente, accanto a questi, anche altri personaggi non problematici, i personaggi che credono di sapere o che vogliono sapere, come la patetica e sfasata mamma di Vittoria (felicemente caratterizzata da Lilla Brignone), la quale sa che il ribasso in borsa è tutta opera dei socialisti, o quel cliente di Piero, giovane aiutante di un agente di cambio, che vorrebbe sapere in tasca di chi andranno precisamente a finire i milioni che lui sborserà per i riporti: ma costoro appartengono a una categoria di semplici, poco interessanti, con la quale gli altri, i detentori del problematico, convivono senza partecipare.
Problematiche per eccellenza, in Antonioni, sono le donne. Ricordatevi le donne del L’Avventura, le donne del La Notte. Sono donne assolutamente disancorate, oppresse da una nostalgia folle, ma indistinta, di qualcosa di concreto e di vero, e insieme da un’organica insofferenza e incapacità di cercarlo. Tipico della tattica narrativa di Antonioni è di introdurre questi esseri senza tempo nel tempo, ossia di farli passare attraverso casi e avvenimenti esteriori in modo che la loro esistenza è registrata soltanto attraverso la effimera traccia lasciata su di essi dal loro passaggio: un po’, se così è lecito dire, come l’esistenza degli elettroni è rivelata soltanto dalla scia condensata che essi producono attraversando le molecole gassose della camera di Wilson.
È facoltà peculiare dello stile di Antonioni quella di legare degli stati d’animo senza dimensioni alle dimensioni reali, facoltà che mi pare arrivi qui, nel L’Eclisse, alla sua compiutezza espressiva. Ho trovato magistrale, da questo punto di vista, il grandioso e, nella sua epilettica e grottesca drammaticità, potente episodio della burrasca collettiva in Borsa, e il modo come vi isola la figura di Vittoria, la sua impossibilità di capirla e di parteciparvi, con quella deliziosa, sardonica boutade finale: il disegnino idilliaco del giocatore sfortunato e picchiatello. Così, il terzetto notturno delle tre amiche coinquiline che si riuniscono per passare il tempo, e il piccolo estroso intermezzo esotico, e la corsa fuori nei viali deserti a cercare i cani, e all’ultimo, il silenzio rotto da quella musicale, arcana vibrazione delle aste metalliche nel vento. Io non amo completamente il film: mi pare che caschi un po’ nell’incontro amoroso. Però straordinario è per me il modo con cui Antonioni è riuscito a dare corpo e presenza a un personaggio completamente assente come quello di Vittoria, mantenendogli al tempo stesso tutta la sua irrealtà e la sua indeterminatezza. A un certo punto, addirittura lo cancella. Gli ultimi centocinquanta metri del film sono completamente a scena vuota. Sfumati i personaggi, l’obbiettivo torna sui luoghi: il crocicchio del primo bacio, la casa in costruzione, il bidone dell’acqua, il passaggio zebrato. Prima e dopo sono diventati la Stessa cosa.
Monica Vitti ha retto la difficilissima prova di portare il personaggio di Vittoria. Difficilissimo perché si trattava di restare ininterrottamente, si può dire da principio alla fine, sotto l’occhio dell’obbiettivo, rifiutandosi ostinatamente al suo interrogativo, e al tempo stesso concedendosi, esprimendo senza esprimere, deludendo senza deludere, in una dosatura di apparente insensibilità e di inconscia disperazione. Difficilissimo perché bisognava reggere alla prova di quelle interminabili deambulazioni a cui Antonioni (è una mania) sottopone i suoi personaggi: qualche volta senza senso del ridicolo, come quando, dopo che abbiamo visto Vittoria e Piero percorrere mezza Roma, proprio nel momento in cui finalmente decidono di andare a casa, fa dire alla ragazza: “Camminiamo un po’”, Ebbene, Monica Vitti ha portato il suo personaggio benissimo. Ha vinto.
Autore critica:Filippo Sacchi
Fonte critica:
Data critica:

29/4/1962

Libro da cui e' stato tratto il film
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