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Vita è bella (La) -

Regia:Roberto Benigni
Vietato:No
Video:Cecchi Gori Home Video
DVD:Cecchi Gori Home Video
Genere:Drammatico
Tipologia:La guerra, La memoria del XX secolo, Razzismo e antirazzismo
Eta' consigliata:Scuole elementari; Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Roberto Benigni, Vincenzo Cerami
Sceneggiatura:Roberto Benigni, Vincenzo Cerami
Fotografia:Tonino Delli Colli
Musiche:Nicola Piovani
Montaggio:Simona Paggi
Scenografia:Danilo Donati
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Roberto Benigni (Guido), Nicoletta Braschi (Dora), Claudio Alfonsi (Amico Rodolfo), Horst Bucholz (Dottor Lessing), Sergio Bustric (Ferruccio), Giorgio Cantarini (Giosué), Pietro De Silva (Bartolomeo),Giustino Durano (Zio Eliseo), Amerigo Fontani (Rodolfo), Francesco Guzzo (Vittorino), Hannes Hellmann (Caporale Tedesco), Raffaella Lebboroni (Elena), Giuliana Lojodice (Direttrice Didattica), Carlotta Mangione (Eleonora), Marisa Paredes (Laura), Nino Prestel (Bruno), Gina Rovere (Giorgia)
Produzione:Melampo Cinematografica
Distribuzione:Cecchi Gori
Origine:Italia
Anno:1998
Durata:

110'

Trama:

Arezzo, 1939. L’ebreo Guido Orefice incontra la maestrina Dora in circostanze curiose e se ne innamora. Raggiunto lo zio Eliseo, cameriere al Grand Hotel, si dedica anch’egli a tale attività in attesa del permesso per aprire una libreria. Si inimica il funzionario locale, fidanzato ufficiale di Dora a cui Guido riserva una corte fantasiosa e assidua. Conquistata infine la donna, dalla loro unione nasce Giosuè. All’inasprirsi delle leggi razziali e della guerra si accentuano le difficoltà, fino alla deportazione in campo di concentramento, dove Dora – sebbene non ebrea - seguirà i suoi cari. Per non traumatizzare il figlio, Guido si inventa un complicato gioco a punti che spiegherebbe la realtà del lager. Durante la smobilitazione che precede l’arrivo delle truppe statunitensi, Guido troverà la morte, dopo essere però riuscito a mettere in salvo il piccolo che rincontrerà la madre lungo la strada verso casa.

Critica 1:Questo era dunque il nocciolo dello scatenato fantasista, del fluviale monologatore, del fucinatore d'ilarità: ora sappiamo che dentro Roberto Benigni si nascondeva (o stava crescendo?) un grande attore. La novità di La vita è bella è l'esplosione di un talento recitativo che finora non si era palesato in tutto il suo fulgore. È vero che il copione scritto con Vincenzo Cerami ardisce e non ordisce, nel senso che sbilancia alla maniera dell'ultimo Chaplin la farsa verso il cinema di idee; ed è vero che Benigni regista rivela un'inedita autorevolezza anche nell'avvalersi degli apporti sapienti (per citare solo tre nomi) di Danilo Donati, scenografo, Tonino Delli Colli, operatore e Nicola Piovani, musicista. Il tentativo, invero, acrobatico, è di coniugare il frù frù di Lubitsch che percorre la prima parte (magari con l'occhio al grottesco antinazista Vogliamo vivere) con la spoglia eloquenza di Rossellini nella raffigurazione del lager: ma cuciti insieme dal filo rosso di una follia tutta benignesca, magari corroborata dall'attraversamento dell'universo di Fellini. Ho messo così in fila una serie di nomi che possono costituire altrettanti legittimi riferimenti per chi ama chiedersi che cosa c'è a monte di un'opera riuscita. Il panorama è comunque scombussolato da una sorta di moto perpetuo di stampo surrealista: la trovata del furto del cappello, le uova in testa al gerarca, il cavallo “ebreo” dipinto di verde, il trionfo della “torta etiope”, il campo di sterminio trasformato in un gioco che a chi farà mille punti assicurerà in premio un carro armato (e il “tank” americano arriverà puntuale). Si aggiunga l'impegno nel nobilitare il contorno con attori veri, una scelta controcorrente rispetto all'abituale faciloneria: un Giustino Durano di annata, Giuliana Lojodice, Lidia Alfonsi, Horst Bucholz. Peccato che l'impaginazione del film, lodevolmente asciutta, sacrifichi un po' i personaggi minori. Tuttavia ciò che tiene insieme La vita è bella, lo giustifica e ne esalta la qualità poetica è la presenza scoppiettante e ispirata del protagonista: romanticamente buffo nei colloqui con la “principessa” Nicoletta Braschi al suono della “Barcarola” di Hoffmann, paternamente protettivo nel duetto con il piccolo Giorgio Cantarini. Nel quale trova finalmente un senso l'ormai vetusto slogan sessantottino “L'immaginazione al potere”. Numeri da applauso: Benigni in piedi sulla macchina scoperta che anticipa l'arrivo di re Vittorio Emanuele a una cerimonia paesana; Benigni che fingendosi l'ispettore venuto da Roma intrattiene una scolaresca con un pazzo discorso ridicolizzante la difesa della razza; Benigni che simulando di sapere il tedesco traduce alla sua maniera il minaccioso proclama di un kapò; Benigni alle prese con un'incudine pesantissima simboleggiante i lavori forzati del lager; Benigni travestito da deportata alla ricerca della sua Principessa. E infine il passo marionettistico che il nostro eroe abbozza, per un'estrema finzione agli occhi del bimbo, mentre viene sospinto da un militare armato verso il luogo del sacrificio. Si può solo augurarsi che in una società dove si arriva a qualificare come un “flop” il fatto che un milione di persone abbia seguito in tv il Macbeth della Scala, contrapponendogli gli ascolti di trasmissioni di intrattenimento, Benigni non venga considerato un perdente se il suo capolavoro incasserà una lira meno di Pieraccioni.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaCorriere della Sera
Data critica:

19/12/1997

Critica 2:E' un gioco, un gioco emozionante e fin troppo veritiero, nel quale bisogna fare 1000 punti, per vincere e portarsi a casa un carro armato vero. Un gioco nel quale non bisogna assolutamente piangere, chiamare la mamma, chiedere la merenda. Chi ha paura perde punti; chi si fa vedere viene squalificato e scompare in qualche misterioso edificio; e, a differenza di quello che succede a casa, al momento di fare la doccia è meglio nascondersi. È il gioco terribile che si costringe a giocare, sempre con il suo sorriso improvviso stampato sulla faccia e con una disperata capacità di bluffare, Orefice Guido, cameriere e poi libraio toscano, fantasioso e generoso, che nell'Italia del ventennio, provinciale e, all'apparenza, paciosa e un po' ridicola, ha un solo neo: Orefice Guido, che ha sposato la maestrina ricca che gli è apparsa davanti come una principessa, è ebreo, come il suo vecchio zio (che un bel giorno, nel campo di concentramento, va a fare la doccia, con gli altri vecchi e i bambini), e come Orefice Giosué, il suo bambino, piccolo piccolo, che invece la doccia, per sua fortuna, non vuole farla mai. Come tutti gli ebrei, i tre un bel giorno sono stati caricati su un camion, poi su un treno, e portati in un campo di concentramento. Dove Guido, con un coraggio da leone, inventa il gioco, perché Giosué non si spaventi e riesca, magari, a sopravvivere. Ha coraggio anche Roberto Benigni, che, da grande comico, sa quante denunce possano passare dalla risata, e ambienta tutta la seconda parte di La vita è bella , appunto, in un campo di concentramento. E in un campo di concentramento, ci vogliono misura, equilibrio e un esemplare rigore narrativo per non strafare, non predicare, non eccedere (in retorica ed effettacci). Il tono scelto da Benigni diventa una scommessa equivalente a quella del suo protagonista: un sottotono che ci fa intuire gli orrori senza praticamente mostrarceli (a parte quella terribile apparizione notturna, nebbiosa e "bruegheliana", intravista dal protagonista e prontamente sfuggita), un tentativo agghiacciato di trasformare l'urlo in risata, con la consapevolezza che la risata, il sorriso, possono essere solo strozzati e inorriditi, un crescendo attonito dell'amarezza, una meraviglia straziante davanti all'infamia indifferente cui gli uomini si adattano (che culmina quando il civilissimo, cortese dottore tedesco non pensa neppure di offrire aiuto a Guido e alla sua famiglia, ma gli chiede invece aiuto, perpetuando il giochetto agli indovinelli che facevano insieme, anni prima, al Grand Hotel). Benigni vince la scommessa del tragicomico, con una sceneggiatura elaboratissima e sottile, con un lungo incipit disseminato di segnali fastidiosi e inquietanti, con la sua recitazione sempre un po' straniata, sperduta, sorpresa (ma che altra reazione può avere uno, davanti alla sola idea del massacro di una razza?), e con quella del bambino, che sta sempre in bilico tra la paura e l'eccitazione del gioco, tra la fiducia nel babbo (che ostinatamente ride) e la sensazione che, invece, qualcosa non funzioni. E, in almeno due scene, piega alla tragedia la sua genialità monologante: la finta, disperata traduzione dal tedesco, all'arrivo nel campo, quando trasforma le regole della sopravvivenza in quelle del gioco, e, prima, nella scuola, l'illustrazione del manifesto della razza ariana, per la quale prende a prestito particolari anatomici della propria, inarrivabile bellezza. Un film che lascia il segno.
Autore critica:Emanuela Martini
Fonte critica:Film TV
Data critica:

1/1/1998

Critica 3:“Questa è una storia semplice. Eppure non è facile raccontarla. Come una favola c’è dolore, e come una favola è piena di meraviglie e di felicità”. Nell’Italia delle leggi razziali, spiegate ai bambini nelle scuole da un prefetto, arrivato da Roma per l’occasione, come se fossero la più recente scoperta scientifica, l’antisemitismo è una realtà quotidiana che diventa sempre più difficile ignorare. Giosuè Orefice è un bambino fortunato, amato e coccolato, figlio dell’unione felice di due genitori affettuosi e affiatati. Ma suo padre Guido è ebreo e questo condanna inesorabilmente lui e la sua famiglia all’emarginazione e alla discriminazione, dapprima strisciante, poi palese ed esibita.
Guido, libraio dalla fervida immaginazione e capace di elaborati giochi di parole, cerca nella sua abilità immaginativa il modo per tenere il figlio lontano da quella che considera una follia insensata ma destinata a cessare. Alla domanda di Giosuè che legge nella vetrina di una pasticceria “Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani”, Guido risponde che se il piccolo vuole, loro possono vietare nella loro modesta cartolibreria “l’ingresso ai ragni e ai visigoti”.
Nel fermo proposito di proteggerlo, imbastisce per lui racconti fantasiosi e divertenti e all’arrivo delle guardie che vengono a portarlo in questura per l’ennesima vessazione, si allontana apparentemente tranquillo mimando un passo buffo che mette in ridicolo agli occhi di Giosuè il passo militaresco dei due. Ma presto arriva per loro la deportazione in campo di concentramento: quando Guido, Giosuè e il vecchio zio vengono prelevati con la forza, Dora, nonostante sia al sicuro non essendo ebrea, sceglie di seguirli e di affrontare anche lei il destino della sua famiglia.
Messo di fronte alla brutalità e alla violenza del lager, Guido inventa un complesso gioco a punti, il cui primo premio è un carro armato vero. Con questo motiva le regole di stretta sopravvivenza che si trova via via costretto in modo sempre più pressante a imporre al bambino che, dapprima incuriosito, poi stanco e affamato, vuole andarsene. Con l’astuzia e l’abilità che lo contraddistinguono, Guido riesce a mantenere viva l’attesa del figlio, fornendo di ogni evento una lettura che apparentemente dimostri quanto siano vicini a raggiungere i fatidici mille punti che daranno loro diritto al tanto sognato mezzo blindato. Non demorde neppure di fronte alla montagna di cadaveri scheletriti, intravisti in una notte nebbiosa, che lo pongono davanti oltre ogni ragionevole dubbio alla morte eretta a sistema.
Ogni cosa si trasforma in un gioco ogni volta diverso e più difficile. All’avvicinarsi dei soldati americani, il lager viene evacuato in un viaggio senza ritorno. Guido raccoglie le ultime forze e riesce a trovare un nascondiglio sicuro per Giosuè. Quando la mattina, dopo l’ultima fatidica notte in cui padre è stato ucciso, un carro armato americano entra nel campo ormai deserto e fa salire Giosuè a bordo, il bambino non crede ai suoi occhi e spalanca la bocca dalla felicità. Lungo il cammino dei prigionieri ormai liberi che si avviano a una nuova destinazione, Giosuè riconosce fra i tanti volti quello di Dora e può così riabbracciarla e comunicarle la loro “vittoria”. “Questa è la mia storia. Questo è il sacrificio che mio padre ha fatto. Questo è stato il suo regalo per me”.
Autore critica:Azzurra Camoglio
Fonte critica:Aiace Torino
Data critica:



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