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12 anni schiavo - 12 Years a Slave

Regia:Steve McQueen
Vietato:No
Video:
DVD:Raicinema, 01 Distribution
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti Umani - La libertà, Diritti umani - La politica e i diritti, Minoranze etniche, Razzismo e antirazzismo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:dall'autobiografia di Solomon Northup
Sceneggiatura:John Ridley
Fotografia:Sean Bobbitt
Musiche:Hans Zimmer
Montaggio:Joe Walker
Scenografia:Adam Stockhausen
Costumi:Patricia Norris
Effetti:
Interpreti:Chiwetel Ejiofor (Solomon Northup), Michael Fassbender (Edwin Epps), Brad Pitt (Bass), Benedict Cumberbatch (William Ford), Paul Dano (Tibeats), Sarah Paulson (Sig.ra Epps)
Produzione:Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Bill Pohlad, Steve Mcqueen, Arnon Milchan, Anthony Katagas per River Road Entertainment, Plan B Entertainment, New Regency Pictures, in associazione con Film4
Distribuzione:Bim
Origine:Usa
Anno:2013
Durata:

133'

Trama:

Nel 1841, Solomon Northrup - un nero nato libero nel nord dello stato di New York - viene rapito e portato in una piantagione di cotone in Louisiana, dove è obbligato a lavorare in schiavitù per dodici anni sperimentando sulla propria pelle la feroce crudeltà del perfido mercante di schiavi Edwin Epps. Allo stesso tempo, però, gesti di inaspettata gentilezza gli permetteranno di trovare la forza di sopravvivere e di non perdere la sua dignità fino all'incontro con Bass, un abolizionista canadese, che lo aiuterà a tornare un uomo libero.

Critica 1:La schiavitù è una cosa mostruosa, che esiste ancora, che andrebbe cancellata dal mondo. Ma 12 anni schiavo affronta il tema con un doppio difetto. Il primo è ideologico: per sostenere l'abominio del sistema schiavista in vigore nel Sud degli Usa prima della guerra di secessione, racconta un mondo in cui tutti i neri sono buoni e tutti i bianchi (tranne Brad Pitt, nel finale) sono feroci assassini con la bava alla bocca. Di più. Non è solo un problema di «buoni» e «cattivi» (che già renderebbe il film schematico). Il problema vero, che inficia qualunque buona intenzione da parte degli autori, è che quasi tutti i padroni bianchi che nel corso della trama vessano il protagonista sono degli psicopatici, sessualmente e psichicamente tarati. Ridurre la schiavitù ad una patologia è una bizzarra «diminutio» del problema: la schiavitù era un sistema sociale, su cui l'economia del Sud in buona parte si basava; e il sistema era governato da uomini tutt'altro che tarati (che, fra parentesi, punivano ferocemente gli schiavi recalcitranti e fuggiaschi ma per lo più si guardavano bene dal martirizzare quelli docili: in quanto forza lavoro, certo non per umanità). L'altro problema è strettamente estetico: 12 anni schiavo è visivamente bello. Molto bello. Troppo bello. II titolo giusto sarebbe 'Cartoline dalla schiavitù'. Il regista Steve McQueen, che non a caso viene dalle arti visive, e il direttore della fotografia Sean Bobbitt «firmano» ogni inquadratura, imbellettando i paesaggi del Sud come se stessero girando un promo per la Film Commission della Louisiana. Se da un lato è encomiabile la fantasia con la quale McQueen costruisce le sequenze, dall'altro l'eleganza formale stride con la sostanza drammatica delle scene. Il contrasto tra la violenza della narrazione e la cura formale delle inquadrature funzionava assai meglio in Hunger, il primo film di McQueen dedicato allo sciopero della fame di Bobby Sands e di altri militanti dell'Ira. Ma un conto è trovare la bellezza in un ambiente sordido come il carcere, tutt'altro - assai meno originale - è rendere «bello» il lavoro degli schiavi nei campi di cotone: lo aveva già fatto Griffith in 'La nascita di una nazione', con scopi diametralmente opposti (l'elogio razzista del Ku-Klux-Klan) ma usando gli stessi espedienti estetici. (…)
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte criticaL’Unità
Data critica:

20/2/2014

Critica 2:Per 12 anni Salomon passa di mano in mano, senza poter comunicare con nessuno e tantomeno provare la sua identità. Come tutti i suoi compagni di sventura, anche se sa leggere e scrivere (ma guai a farsi scoprire), viene venduto, battuto, frustato fino all'abominio, seviziato e umiliato in ogni possibile modo. Senza mai perdere la sua doppia prospettiva di vittima e testimone. Testimone di quegli orrori che racconterà in un libro di grande risonanza destinato a uscire nel 1853, un anno dopo La capanna dello zio Tom, e ora riscoperto grazie al film (…). Benché ridotto in condizioni bestiali, Solomon infatti non si limita a patire ma sa, capisce, elabora, riflette. Insomma è il ponte ideale fra quella massa bruta e oggi quasi inconoscibile di atrocità e violenza che fu lo schiavismo, e noi, con la nostra sensibilità moderna. In apertura lo vediamo tentare disperatamente di scrivere usando succo di mora come inchiostro. In un altro grande momento, una delle sue lettere brucia a lungo, dolorosamente, con lentezza quasi ipnotica. Metafora naturale quanto potente di tutto ciò che McQueen si affanna a descrivere e raccontare. Riuscendoci davvero, però, solo quando si affida fino in fondo alle immagini. Mentre convince assai meno, paradossalmente, quando articola le esperienze di Solomon all'interno di un racconto più classico e convenzionale. Non a caso la critica Usa, esaltando '12 anni schiavo' (9 nominations all'Oscar), ha sottolineato il salto di questo cineasta nato artista, che qui passa dai film 'da festival' come Hunger e Shame, al racconto epico. Eppure McQueen, inarrivabile narratore del corpo (del martirio), risulta molto meno incisivo quando deve orchestrare un racconto più ampio e ricco di ambienti, personaggi, psicologie. Si capisce che l'America, così vergognosamente in ritardo sul tema, anche al cinema, si inginocchi davanti a un film comunque nobile e destinato a fare data.
Autore critica:Fabio Ferzetti
Fonte critica:Il Messaggero
Data critica:

20/2/2014

Critica 3:Un film sulla schiavitù 12 anni schiavo, con nove candidature all'Oscar, del resto l'identità postcoloniale è elemento centrale nell'opera di Steve McQueen. Insieme al corpo, carne, nervi scoperti, sangue, su cui l'artista inglese traccia, come in una cartografia di dolore e violenza, i passaggi della Storia. Era il corpo scarnificato l'arma e il luogo simbolico di resistenza agli inglesi dell'irlandese Bobby Sands in Hunger. È ancora il corpo come macchina sessuale compulsiva – e mai desiderante – il segno di un contemporaneo malato in Shame. Ed è il corpo, la carne nera aperta dalle frustate su cui il rosso del sangue acceca con moltiplicata violenza, che ci racconta qui la sopraffazione di un uomo sull'altro. Disumana eppure replicabile. Sappiamo che la storia di Solomon Northup è «vera», i titoli di coda ci dicono che dopo la liberazione, Solomon sarà un attivista per i diritti degli african americani fino alla morte. McQueen nella sua messinscena va oltre però l'esperienza reale, e trasforma il «romanzo di formazione» di Solomon nell'esplorazione mentale della schiavitù: cosa significa essere schiavi nella testa prima che nel corpo, nella perdita del sé, nella rassegnazione alle «regole» del sadismo (Lo schiavo americano di Comolli ci aveva già detto molto). Le linee lungo le quali si muove sono quelle di un paesaggio americano visto nel «rovescio» del mito, come conquista e massacri – (Solomon a un certo punto incontra due nativi americani). Popolato di figure archetipe, da una parte come dall'altra, tra gli schiavi come tra i padroni. Il coro degli schiavi alle spalle di Solomon, la schiava che vuole essere come i bianchi ... E il padrone condiscendente (Benedict Cumberbatch) – che come dice a Solomon una giovane schiava è sempre uno schiavista difatti li tiene prigionieri. E quello sadico (l'icona del regista Michael Fassbender) che somiglia a un SS e la notte costringe i suoi schiavi ai festini. Ha una sua «favorita» ma non esita a frustarla a morte. Le paludi, i campi di cotone, le «capanne dello zio Tom» che frontalmente McQueen visualizza nel film (con la fotografia di Sean Bobbitt), disegnano con angosciosa precisione l'universo concentrazionario e le sue dinamiche di annientamento. La schiavitù viene messa a nudo nell'essenza profonda, mostrandone la trama a venire: colonialismo, società postcoloniali, la lotta delle Panthers in America, e dei neri in Gb, l'odierno razzismo quotidiano. Senza retorica né consolazione.
Autore critica:Cristina Piccino
Fonte critica:il manifesto
Data critica:

20 /2/2014

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
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