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Paura mangia l'anima (La) - Angst essen Seele auf

Regia:Rainer Werner Fassbinder
Vietato:No
Video:Number One Video, Cecchi Gori Home Video (Gli Ori), Biblioteca Rosta Nuova
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Migrazioni
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Rainer Werner Fassbinder
Sceneggiatura:Rainer Werner Fassbinder
Fotografia:Jürgen Jurges
Musiche:Motivi africani (Brani d'archivio)
Montaggio:Thea Eymesz
Scenografia:Rainer Werner Fassbinder
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Brigitte Mira (Emmi), El Hedi Ben Salem (Ali'), Barbara Valentin (Barbara, la barista), Irm Hermann (Krista), Gusti Kreissl (Paula), Margit Symo (Hedwig), Marquard Bohm (Gruber), Rudolf Waldemar (Brem), Rainer Werner Fassbinder (Eugen), Peter Gauhe (Bruno), Karl Scheydt (Albert)
Produzione:Tango Film Production - Filmverlag Der Autoren
Distribuzione:Imc - Ventana
Origine:Germania
Anno:1973
Durata:

93'

Trama:

Emmi, una sessantenne vedova e con figli sposati, incontra una sera in un bar Alì, un marocchino immigrato per lavoro in Germania. L'uomo, dopo un po' di chiacchiere, l'accompagna a casa, dove la donna vive sola: essa apprende che egli abita lontano con altri cinque compatrioti in una sola stanza e gli offre un letto per la notte. Nasce così un bizzarro "ménage", ma ciò che manda fuori dei gangheri figli, nuore, fornitori, condomini e compagne di lavoro (Emmi si occupa delle pulizie nell'edificio in cui abita) non è tanto la clamorosa differenza di età tra lei ed il marocchino, quanto il fatto che una "buona tedesca" si sia scelto un uomo di colore. Poi, poco a poco, le cose si appianano: i figli e i fornitori si adeguano, le amiche tornano a venire in visita e toccano estasiate i lucidi bicipiti dell'arabo il quale, da parte sua, ha trovato un vero nido, anche se a volte ne svolazza fuori, per concedersi più soddisfacenti evasioni con una vichinga bionda, la proprietaria del bar vicino a casa. Un giorno però, e proprio in questo locale, Alì cade sul pavimento, viene ricoverato in ospedale: ed Emmi pazientemente lo assisterà, fiduciosa nel proprio affetto e nelle capacità di recupero di quel gigante, tanto più giovane di lei.

Critica 1:Un'anziana donna delle pulizie vedova sposa un immigrato marocchino, di vent'anni più giovane. Doppio scandalo. Non è soltanto un film sul razzismo quotidiano e sulla normalità, ma anche sull'amore e la felicità. Il personaggio che più interessa non è Alì, trasparente e monolitico nella sua araba semplicità di cuore e di comportamento, ma Emmi cui l'amore non basta a farle superare i pregiudizi, l'educazione piccoloborghese, l'innata tedescheria. L'impasto di melodramma e di critica sociale funziona perché il primo è al servizio della seconda come la circolazione del sangue alimenta un organismo. Tenero, asciutto, un po' schematico. Noto anche come Tutti gli altri si chiamano Alì.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(…) Nell'intento di abbandonare lo strumentalismo delle occasioni narrative e la predeterminazione della messa in scena, Fassbinder è aiutato dalla rilettura di alcuni film di Douglas Sirk, grande costruttore di melodrammi immigrato a Hollywood dalla Germania. A lui il regista dedica un saggio dal titolo significativo Imitation of Life, che si richiama a un'opera di Sirk del '59 (in Italia: Lo specchio della vita). Lo stesso La paura mangia l'anima è un dichiarato «omaggio a...», rifacendosi per il contenuto a All That Heaven Allows (Secondo amore, 1956).
Fassbinder pare imporsi in questo caso soprattutto la filosofia di un motto sirkiano: «Non si può far dei film sulle cose. Si possono soltanto fare film con delle cose, delle persone, della luce, dei fiori, degli specchi, del sangue...». Come dire che l'attenzione deve spostarsi da un approccio «esterno» alla messa in scena, resa funzionale rispetto a un certo «dire» (questo l'effetto prodotto dai raggelati kammerspiel del primo Fassbinder) a un lavoro dentro di essa, teso a sviluppare tutte le possibilità dell'«esprimere», a creare
certi diapason che risuonano da un episodio all'altro, certe focalizzazioni del personaggio, che debordano rispetto all'intenzionalità narrativa: la messa in scena è strutturata dalle connessioni interne, è luogo di interazioni più che di azioni.
Tale acquisizione diventerà definitiva per Fassbinder; verrà anzi estremizzata al punto che i suoi ultimi film si possono ritenere di pura messa in scena, costruiti a partire da stereotipi d'epoca con un'ironia che si esercita sul gioco, reso consapevole, dell' orchestrazione. Ne La paura mangia l'anima siamo ancora nel territorio di mezzo del melodramma, fra accentuazioni di struttura e modi di rappresentazione naturalistici. Il dato nuovo è comunque l'eliminazione di ogni esteriorità drammatica o gesto esemplare - al limite brechtiano - e un turgore diffuso in tutto il racconto, quasi che la morte di Emmi, che già era stata esclusa come atto concluso nel progetto del film, si riverberasse ora, echeggiata e struggente, in tanti scorci del quotidiano e del sociale: nell'arredamento kitch della casa di lei che vorrebbe simulare un decoro borghese, nella sua adesione ingenua e atrocemente incosciente agli stereotipi di una sottocultura («In questo ristorante ci veniva Hitler. Sai chi è Hitler?», chiede ad Alì con una punta di orgoglio), nel suo sforzo di darsi un piglio giovanile, subito raggelato dallo sguardo di compatimento di qualcuno, nel breve gesto di ribellione all'accerchiamento della gente, soffocato nel pianto della vittima impotente.
L'intensità di Brigitte Mira, che Fassbinder reimpiegherà nel ruolo principale di Mamma Küster e, per una breve apparizione, ne Il diritto del più forte, sta tutta nella sua impossibilità fisica di figurare come protagonista di una storia romantica; ciò che le fa incarnare la poesia della goffaggine nei timorosi abbandoni ai sentimento e negli slanci sempre a metà fra il disarmato e il protettivo-materno.
Il regista, come altre volte, gioca sulla spudoratezza della passione per spingere il personaggio a brancolare alla cieca, oltre la definizione voluta dall'habitus sociale (cfr.: la ricca e sofisticata disegnatrice di moda de Le lacrime amare di Petra Von Kant che si consuma e si degrada nel legame tormentato per una donna; l'omosessuale proletario de Il diritto del più forte che, per compiacere all'amico elegante, tenta di contrarre abitudini che non sono le sue; la cantante Lili Marleen, portavoce del Reich, che si presta per amore di un uomo ad aiutare la Resistenza). Il momento più forte de La paura mangia l'anima è forse quello in cui Emmi, momentaneamente abbandonata da Alì, si lascia andare a un'accorata dichiarazione d'amore al giovane marocchino nello sporco di un'autorimessa davanti ai suoi compagni di lavoro tedeschi. In questo caso però la «scopertura» riguarda entrambi i personaggi, ritagliati nella loro duplice emarginazione su uno sfondo che vieta qualsiasi intimità. La situazione non è più quella dello sbilanciamento nel vuoto del singolo, di un andar sopra le righe che è spesso sottolineato grottescamente da Fassbinder; siamo qui nel pieno di uno svolgimento melodrammatico, che sottrae i personaggi al mondo e li isola nel viluppo della loro vicenda privata. L'episodio insomma rientra in un'articolata tessitura narrativa: il punto di partenza è che i due protagonisti «abbiano un'occasione di vivere insieme», il che vieta al regista la scorciatoia del finale dimostrativo o la comodità dell'apologo, e lo costringe a misurarsi con una storia fatta di risonanze interne e di continui sfalsamenti rispetto a una possibile conclusione. Il melodramma si regge appunto su uno scarto rispetto alla normalità e al mondo e sulla seduzione del pubblico attraverso ripetuti accenni, regolarmente frustrati, a una ristabilizzazione nella norma e nella società. (…)
«I film di Douglas Sirk - scrive Fassbinder nel suo saggio - sono descrittivi. Molto pochi primi piani. Perfino nei campi-controcampi l'interlocutore non appare per intero nell'inquadratura. Il sentimento profondo dello spettatore non è il risultato di un'identificazione, ma viene dal montaggio e dalla musica. È per questo che noi proviamo alla fine di questi film un senso d'insoddisfazione. Ciò che abbiamo visto è capitato ad altre persone. E se qualcosa là dentro vi riguarda personalmente, vi resta la piena facoltà di ammetterne il significato o di riderne».
Fassbinder coglie qui, nella disponibilità a opposte reazioni, il senso della simulazione del melodramma, la marginalità in esso del racconto rispetto ai meccanismi di captazione dell'emotività dello spettatore. Il voyeurismo del quale è premiato dalla sicurezza che il fatto «è capitato ad altre persone», in modo che l'immedesimazione avviene sugli effetti (musica, montaggio), non sul narrato.
La paura mangia l'anima, pur con le sue riprese geometriche e funzionali, rovescia in qualche punto questo procedimento: gli attori guardano in macchina, incorniciati da stipiti di porte o di finestre che rimarcano il loro ruolo di osservatori/giudici verso il pubblico. Gli episodi in cui ciò accade (la scena al ristorante; quella di Emmi colpevolizzata dalle compagne di lavoro) segnano il punto di massima vittimizzazione dei personaggi e quindi di maggior voyeurismo dello spettatore, ed è appunto lì che il regista rovescia il rapporto guardante/guardato.
Il melodramma fassbinderiano non vuole riconciliare nessuno; serve, in quanto struttura artificiale, a far risaltare un'implosione, a stimolare attese per frustrarle secondo un'arbitraria legge del contrappasso: Emmi si innamora di Alì, tutti gli altri sono contro; la gente accetta il matrimonio dei due, Emmi ed Alì si distaccano; la coppia ritrova un'intesa, un'improvvisa malattia (che, sebbene di origine sociale, funziona come colpo del destino) rende impossibile la risoluzione del rapporto.
La struttura del melodramma non viene però irrisa da Fassbinder in una banale parodia. il regista anzi la assume col massimo rispetto per renderla funzionale alla propria «cattiveria»; esalta così il feticismo di un'organizzazione a porte chiuse, fatta di continui echeggiamenti, con elementi di dettaglio che ritornano ossessivi a condannare i personaggi a una situazione claustrofobica. Facciamo un esempio: nel primo incontro tra i due, Emmi consiglia ad Alì di «indossare vestiti chiari». La frase sarebbe gratuita se non si inserisse in una catena di associazioni: il bianco è opposto al nero della pelle, è simbolo di reintegrazione sociale; candido, ma inesorabilmente ridicolo, è l'accappatoio indossato dal marocchino una volta stabilitosi nella casa di lei; dello stesso colore è il camice bianco che lo soffoca in un letto d'ospedale. Le buone intenzioni producono esiti perversi. Rispetto al progetto del film e al suo larvato ottimismo c'è un ulteriore cambiamento: niente liberazione.
Autore critica:Ludovico Stefanoni
Fonte critica:Cineforum n. 211
Data critica:

1-2/1982

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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