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My name is Joe -

Regia:Ken Loach
Vietato:No
Video:Biblioteca Panizzi - Medusa
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti umani - Esclusione sociale, Sport e salute
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Paul Laverty
Sceneggiatura:Paul Laverty
Fotografia:Barry Ackroyd
Musiche:George Fenton
Montaggio:Jonathan Morris
Scenografia:Martin Johnson
Costumi:
Effetti:
Interpreti:David Hayman (Mc Gowan), Lorraine McIntosh (Maggie), Scott Hannah (Scott), Paul Gillan (Davy), Stephen McCole (Mojo), Paul Clark (Zulu), James McHendry (Perfume), David Peacock (Hooligan)
Produzione:Channel 4 - Bim Distribuzione - The Glasgow Film Fund - Road Movies Vierte Produktionen
Distribuzione:Columbia Tristar Film Italia
Origine:Gran Bretagna
Anno:1998
Durata:

105’

Trama:

A Glasgow (Scozia), durante una riunione degli Alcolisti Anonimi, Joe, che non beve più da quasi un anno, dichiara che è pronto a cominciare una nuova vita. Nella squadra di calcio che allena, composta da improbabili “atleti” emarginati, gioca anche Liam, sposato con Sabine, dedita alla droga, e il loro figlioletto Scott. Grazie a loro, Joe conosce Sarah, l’assistente sociale che deve tenere sotto controllo la famiglia di Liam, e se ne innamora, ricambiato. Liam, che è perseguitato dagli uomini di McGowan – uno spacciatore, al quale non ha pagato i propri debiti – confessa a Joe di non avere i soldi necessari. Per aiutare l’amico, Joe accetta di saldare il debito guidando verso un porto scozzese una macchina piena di droga. Sarah accusa Joe di non averle detto la verità su questo “affare” con lo spacciatore e decide di andarsene. Per non perderla Joe le promette che non eseguirà la seconda parte del “lavoretto”. Lo va a dire a McGowan, che però non ammette rifiuti e minaccia vendette.

Critica 1:Sullo schermo finzione e realtà sono facili da confondere e a volte impossibili da distinguere. Sembrano veri Joe e Sarah, impegnati in un insolito duetto amoroso nella cornice della Glasgow operaia: lui è un ex alcolista che fa l’allenatore di calcio per una squadretta di dilettanti, lei lavora nell’assistenza medica. Si direbbero davvero prelevati dalla vita di quel sottomondo che Loach rispecchia con sociologica fedeltà e irrinunciabile senso dello spettacolo. In realtà abbiamo davanti due attori: esperto lui, Peter Mullan, una sorta di Paul Newman dei poveri, attivissimo in teatro e laureato sulla Croisette; e degna di tenergli botta lei, Louise Goodall. Non inganni nella prima parte il tono leggero alla Monicelli (penso al sottovalutato episodio populista di Boccaccio 70). Andando avanti l’amoretto fra Joe e Sarah, fino a un certo punto turbato solo da problemi personali, si rivela impossibile da vivere decentemente in un contesto dove tutti sono umiliati e offesi dai ricatti della mala. Joe ha preso a proteggere Liam, un giovanotto drogato e balordo, malamente incastrato dal gangster McGovern. Emerge un problema di vita e di morte, di fronte al quale, per salvare Liam dalle grinfie degli sgherri, Joe non ha altra scelta che di prestarsi a fare una consegna di droga; ne ricava un guadagno con il quale compra per Sarah un anello, prontamente rifiutato dalla donna che, stando così le cose, non vuol più saperne di lui. Allora Joe in preda a furore va nel covo di McGovern e spacca tutto; e Liam per salvare a sua volta l’amico dalla vendetta mafiosa si acconcia a una scelta fatale. La commedia muta in tragedia, sempre sotto il segno di una verità che l’arte di Ken Loach fa toccare con mano. Un film forte e lucido come gli altri dello stesso autore e forse ancora di più.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaIl Corriere della Sera
Data critica:

5/12/1998

Critica 2:Joe non somiglia per niente a Babbo Natale, e forse verrebbe bocciato se si presentasse nei grandi magazzini londinesi offrendosi per impersonare Santa Claus (nonostante la penuria di volontari, che è finita pure nei TG). Eppure, se avrete il coraggio di rischiare un Natale cinematografico insolito, Joe potrebbe diventare vostro amico. Essendo protagonista di un film di Ken Loach, Joe è un rappresentante della working class britannica: è un proletario di Glasgow, Scozia, che grazie alle riunioni degli Alcolisti Anonimi sta uscendo faticosamente dalla schiavitù della birra. Non beve da quasi un anno e forse sta “per farcela”, grazie anche alla squadretta di calcio che ha messo su con gli amici ex beoni: sono schiappe allucinanti, ma giocano con le magliette della Germania campione del mondo del 1974 (quella di Müller, Overath, Beckenbauer...) e trovano nelle ruvide partitelle di periferia un modo per stare insieme e per sentirsi vivi. Un giorno mentre stanno andando a giocare, Joe conosce in modo brusco la donna della sua vita: Sarah, una giovane assistente sociale, a momenti investe il loro pulmino. Dopo una bella litigata, fra lei e Joe scocca la scintilla, ma non sarà un amore facile: Sarah sta seguendo la famiglia di Liam, il più talentuoso – ma anche il più disperato, con una moglie tossica e un bambino piccolo – della squadra di Joe. E Liam è perseguitato da McGowan, il potente spacciatore locale. Per aiutare Liam, e per rabbonire McGowan, Joe si presta a fare un “lavoretto” che Sarah trova inaccettabile. Ora tutto sembra crollare attorno a lui. Tornano i fantasmi: l’alcool, la disoccupazione, il terrore di non poter più avere una vita normale. Finché… Da vivace ritratto, qua e là spassoso, del proletariato di Glasgow My Name is Joe diventa ben presto un dramma con venature thriller: infatti, per la prima volta da anni, gli autori – ovvero Ken Loach e il suo sceneggiatore Paul Laverty – chiedono ufficialmente di non svelare il finale, e noi ci guarderemo bene dal farlo. Si può dire invece, senza danneggiare il film, che My Name is Joe riporta Loach ai temi, e ai livelli, di Piovono pietre, che assieme a Riff-Raff e a Ladybird resta probabilmente il suo capolavoro. Anche stavolta, l’interrogativo morale è: può l’uomo commettere un reato, o ciò che è comunemente percepito come tale, per salvare i propri cari, o un proprio amico? Curiosamente in Piovono pietre la colpa era più estrema (un omicidio, anche se quasi involontario), ma la risposta era netta e arrivava addirittura dal prete del quartiere, quindi dalla Chiesa; stavolta, il peccato è assai più veniale ma la risposta è sfumata, perché il dilemma morale di Joe si confronta con valori quotidiani e “banali”: l’amore, la famiglia, l’onestà. My Name is Joe è l’ennesimo morality play di quel grande moralista del cinema (nel senso più nobile del termine) che è Ken Loach. Un film bello, intenso, e nella prima parte selvaggiamente divertente: da vedere senza dubbio alcuno. Inutile dire che il doppiaggio, per quanto eroico, non può restituire l’aspro dialetto scozzese dei personaggi: almeno a Roma, ogni lunedì e martedì al Nuovo Sacher, chi vuole può confrontarsi con l’originale. E apprezzare la grandezza di Peter Mullan (premiato a Cannes), che nei panni di Joe è qualcosa di più di un attore: è una vera forza della natura.
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte critica:L’Unità
Data critica:

5/12/1998

Critica 3:
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