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C'era una volta un merlo canterino - Ikho Sasvi Mgalobeli / Zil pevcij drozd

Regia:Otar Iosseliani
Vietato:No
Video:Biblioteca Decentrata Rosta Nuova, visionabile solo in sede
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diventare grandi
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Otar Iosseliani, Dimitri Eristavi
Sceneggiatura:Otar Iosseliani, Dimitri Eristavi
Fotografia:Abesalom Maisuradze
Musiche:Temur Bakuradze
Montaggio:Giulia Bezuasvili
Scenografia:Dimitri Eristavi
Costumi:Elena Landia
Effetti:
Interpreti:Gela Kandelaki (Ghia), Irina Giandieri, Giansug Kakhidze, Marina Kartsivadze, Zurab Nijaradze, Maka Makharadze
Produzione:Gruzija Film - Kartuli filmi
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Georgia (Urss)
Anno:1971
Durata:

82'

Trama:

Guia Agladze è un giovane che abita in una grande città e fa parte, come timpanista, dell'orchestra. Spensierato, amicone di tutti, facile a comunicare e a legare con le ragazze, disperde il suo tempo in cento inezie e giunge regolarmente a teatro all'ultimo atto di "Daissi", uno spartito che gli chiede solamente alcune battute nel finale. I suoi amici sono stanchi di attenderlo angosciati; il direttore d'orchestra non sopporta tale esempio di indisciplina; il direttore del teatro lo convoca per una severa ramanzina, ma, come tutti gli altri, non riesce ad avere un incontro serio con lui. La medesima cosa accade a Lia, la sua amichetta, a degli ospiti che ha invitato in casa propria e poi non accompagna, a vari gruppi di amici con cui dovrebbe passare delle serate. Prima di riuscire a maturare, Guia muore poichè, distratto da due ragazze, attraversa la strada senza avvedersi dell'arrivo di un camion.

Critica 1:Ritratto di Ghia Agladze, giovane suonatore di timpani, individualista incorreggibile, pigro, facile a promesse che non mantiene, gentile ficcanaso, compagnone e sottaniere accanito, allergico a ogni scelta che impegni l'avvenire. E, insomma, uno che gira a vuoto. Film georgiano che ha il merito di essere modellato non soltanto sul comportamento, ma sul ritmo del suo personaggio (parzialmente autobiografico), seguito dalla cinepresa nei suoi andirivieni con una disinvolta scioltezza che diventa spesso sapienza di osservazione.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Il film, costruito sulla figura di un giovane svagato e insieme curioso e sul suo contrapporsi all'ambiente che lo circonda, richiama alla mente parentele illustri: in particolare col Truffaut delle tenere operine su Antoine Doinel e col Forman "cecoslovacco". Ma rispetto al primo, a prescindere dal contesto, risultano subito evidenti le differenze: l'ottica (piccolo-borghese) del regista francese è sostanzialmente omogenea a quella del protagonista e del suo ambito, l'ironia si stempera in una affettuosa benevolenza. Forman è più "cattivo" di Truffaut, il candore un po' imbranato dei suoi adolescenti mette in luce i tic e le miserie di una "middle class" socialista votata a ritualità cretine. Ma anche lui non riesce poi a superare il concetto di "gap generazionale", inteso come categoria universale e astratta, tanto che lo ripropone, (minime) "mutatis mutandis", nel suo primo film americano, Taking off. Cosicché forse l'unico termine di paragone praticabile rimane il simpatico contaballe di Vive questo ragazzo di Sukshin. Ma anche qui, nonostante l'ironia, il protagonista viene recuperato da un quasi casuale fatto di eroismo, anche se poi dilatato dalla sua propensione alla menzogna. In Iosseliani, invece, non c'è spazio per un consolatorio reinserimento sociale del personaggio "diverso", e la sua sconfitta, ben lungi dall'inserirsi in una prospettiva di espiazione, testimonia lucidamente la disperata coscienza dell'ineluttabilità del "sistema". Ghia, il timpanista che arriva sempre in ritardo, che non va agli appuntamenti con le ragazze, o ci va cogli amici, che frequenta la biblioteca non per studiare ma per distrarre che studia, è la rotella dell'ingranaggio che rifiuta di girare, la mela marcia del cesto. La sua irregolarità consiste nella distrazione, nella curiosità ben presto abbandonata, nel rifiuto in sostanza di essere specializzato e produttivo. Il regista non ci spiega il perché psicologico di questo atteggiamento: Ghia è così e basta, la sua natura debitamente simbolica "funziona" in rapporto ad un "mondo" precisamente connotato sia nelle strutture sociali sia nelle sovrastrutture psicologiche. Iosseliani non ne esalta, fortunatamente, le potenzialità fantastiche, non fa di lui uno stucchevole "poeta" destinato ad infrangersi contro gli scogli dell' "arido vero". Certo esiste in lui una creatività (il porta-berretto dell'orologiaio, la molla), ma è casuale, riferita appunto alla dimensione che sembra essere la più congeniale al personaggio. In una società in cui l'organizzazione ha delle regole precise, tutti devono attenersi ad esse. Bisogna essere tempestivi nello svolgere le proprie mansioni, anche ridicole, bisogna rimanere fino alla fine dell'esecuzione in un'orchestra sgangherata per poter dare due colpi ai timpani (bisogna avvitare tutti i giorni lo stesso bullone, rifare meccanicamente ogni giorno gli stessi gesti, riprodurre a livello di psicologia individuale, di comportamento privato, la "filosofia del sistema". Dietro Ghia, dietro il suo "ciabattare stupidamente sulla terra", ci sono tutti gli altri, quelli che "funzionano", e la loro pochezza fa rabbrividire: sono un miserabilmente buffo direttore d'orchestra, un laido burocrate, un medico chiacchierone. Tutti cercano di riportare il "merlo canterino" sulla retta via, ma questo piccolo "uomo senza qualità" semplificato e disintellettualizzato annuisce e continua ad interessarsi a tutto e a niente. Gli unici legami duraturi sono quelli che lo uniscono alla madre e agli ubriaconi, con i quali si trova in perfetta sintonia nei cori e nelle bevute, sono cioè confinati rispettivamente nell'ambito elementare della consanguineità e in quello dell' "irregolarità" (l'ubriacone è dovunque un "dropout", ma in una società socialista è visto come un pericoloso asociale). Non esistono dunque agganci per un recupero sociale, Ghia deve morire. Fin dalle prime sequenze strani incidenti bersagliano lo svagato timpanista: botole aperte sul palcoscenico rischiano di farlo precipitare, mattoni e vasi di fiori gli cadono a pochi centimetri mentre si aggira per le vie della città. Queste minacce, comiche nella loro apparente, imprevedibile casualità, anticipano necessariamente il compiersi dell'assurdo dramma finale. Le cose stesse, investite di una funzione simbolicamente punitiva, minacciano il giovane "straniero", individuandolo come corpo non omogeneo ad una realtà sociale perfetta nella sua allucinante banalità. La pozza di sangue di Ghia arrossa ancora sull'asfalto, quando l'orologiaio, girando una vite, fa funzionare di nuovo una vecchia carcassa. Il meccanismo, riparato l'ingranaggio inceppatosi, riprende la sua corsa e invade lo schermo, iperrealisticamente ingrandito, scandendo col suo ticchettio il ritmo dei titoli di coda. Sullo sfondo delle voci parlano dell'avvicendarsi delle stagioni, della semina, delle attività agricole. L'ordine (biologico) delle cose è stato ripristinato, la vita continua. Nell'incerto bianco e nero di un finto "cinéma vèritè", con le gigantografie "pop" di un improbabile Oldenburg sovietico, Iosseliani è riuscito a farla in barba alla proverbiale sagacia dei censori. Il timpanista è diventato cattivo, ha smesso di suonare e si è trasformato in un giovane Holden che non si limita a scoprire che gli adulti mentono, sublimando in una nevrosi brontolona e un tantino Zen la propria potenziale eversività. Ghia non impreca, si pone come simpatico termine di paragone, ma la sua presenza è ugualmente esplicita. "Déraciné" sceso da una Atalante in navigazione fra il Kura e il Mar Caspio, non può essere gratificato da una liberatoria pioggia di piume anarchiche: Zéro de conduite e l'utopia non hanno diritto di cittadinanza nella Repubblica Socialista di Georgia. Salinger e Vigo sono lontani, probabilmente semisconosciuti, e l'ignoranza (peraltro giustificata) del contesto suggerisce una pericolosa arbitrarietà nei riferimenti analogici. Ma il cinema di Iosseliani esiste, e la sua importanza trascende lo specifico, costituendo uno dei più lucidi e più liberi documenti dell' "impossibilità di essere normali" nell'URSS.
Autore critica:Paolo Vecchi
Fonte critica:Cineforum n. 165
Data critica:

5-6/1977

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



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