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Racconto d’autunno - Conte d’automne

Regia:Eric Rohmer
Vietato:No
Video:RCS
DVD:Bim
Genere:Commedia
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Eric Rohmer
Sceneggiatura:Eric Rohmer
Fotografia:Diane Baratier
Musiche:Claude Martì; Gérard Pansanel, Pierre Píeyra, Antonello Salís
Montaggio:Mary Stephen
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Marie Rivière (Isabelle), Béatrice Romand (Magalì), Alain Libolt (Gerald), Didier Sandre (Etienne), Alexia Portal (Rosine), Stéphane Darmon (Leo), Aurélia Alcais (Emilia), Matthieu Davette (Grégoire), Yves Alcais (Jean-Jacques)
Produzione:Margaret Menegoz, per Les Films du Losange -La Sept Cinéma -Canal Plus –Sofilinka -Rhône-Alpes Cinéma
Distribuzione:Bim
Origine:Francia
Anno:1998
Durata:

111’

Trama:

Provincia francese. Due amiche intorno ai quarant’anni. Isabelle, libraia, decide di trovare per la viticultrice Magalì un compagno. Dopo averlo scelto e conosciuto grazie ad un annuncio, di nascosto dall’amica, le farà incontrare un distinto signore che sembra l’uomo giusto. Anche Rosine, giovane studentessa universitaria molto legata a Magalì, tenta per conto suo di far nascere l’amore tra l’amica e il suo ex, un colto quarantenne insegnante di filosofia. Ma lui è fermo alle ventenni. E Magalì si trova, suo malgrado coinvolta.

Critica 1:Nella valle del Rodano Magali (B. Romand), viticultrice di quarantacinque anni e vedova con due figli grandi, si trova al centro di una duplice, affettuosa macchinazione, messa in atto dall'amica libraia Isabelle (M. Rivière) e da Rosine (A. Portal), la ragazza di suo figlio, che vogliono trovarle un marito. Quando viene a saperlo, s'infuria, ma poi la collera le passa. E il più solare dei "Racconti delle quattro stagioni", ciclo iniziato nel 1990, tutto imperniato sul sentimento dell'amore e abitato da personaggi, adolescenti o adulti, autori del proprio destino. "I balletti sentimental-amorosi di questi adulti che alternano saggezza e istintività sono osservati da Rohmer con occhio bonario e compiaciuto." (Mariachiara Pioppo). Sempre uguale a sé stesso (cinepresa quasi invisibile, dialoghi di squisita naturalezza, rinuncia al commento musicale, punteggiatura sonora affidata ai rumori ecc.), eppure sempre diverso e sorprendente nella sua arte della modulazione, il cinema di Rohmer (1920) tocca qui una delle punte più alte della sua grazia.
Autore critica:
Fonte criticaKataweb Cinema
Data critica:



Critica 2:Come non schierarsi dalla parte di chi ha gioito per questo nuovo film di Rohmer? Nel suo ciclo sulle stagioni mancava solo questo Autunno, che puntualmente tiene fede alle promesse. Rohmer ci ha addestrati, in quasi quarant’anni di cinema, a raffinate orchestrazioni di personaggi che riflettono a voce alta di filosofia, di religione e di teorie sull’amore mentre ci mettono al corrente (assieme ai loro intimi interlocutori) dell’ultimo risultato del proprio lucidissimo lavoro d’autoanalisi.
È un cinema dell’introspezione, non sempre facile da accettare soprattutto per la densità – a rischio di artificiosità – dei dialoghi, e per l’abitudine mai persa a narrare due volte, cioè mostrando le azioni dei personaggi, ad esempio i momenti di pausa meditabonda, e riprendendo il filo dei loro pensieri subito dopo, grazie ad esplicitazioni volutamente teatrali ("sei assorta", dice la matura amica Magalì alla giovane Rosine che abbiamo appena visto mettere in scena il proprio dubbio aggrottando platealmente il volto, quasi a permetterle di prendere il turno previsto. Una ridondanza che, invece di allontanare invita lo spettatore [...] ad ascoltare. Non a caso si tratta di cicli di "Racconti" anche se è trascorso il tempo della voce narrante dei primi "Racconti morali", sembra in fondo imperare una forma orale della trasmissione di esperienze e desideri, una fede inesausta nel dialogo, nella forza delle parole. Parole in continua tensione verso la perfezione di una scrittura meditata, rivisitata, anche se paradossalmente vengono agite con la freschezza delle interazioni che solo un’improvvisazione per quanto guidata, sa dare. Perché non è certo solo verbale, il gioco di Rohmer ma sempre e comunque attento alla posa di un corpo, al taglio di un profilo o di un sorriso accennato dagli occhi. Per questo il premio per la miglior sceneggiatura, assegnato dalla giuria di Venezia ’98, suona quasi di cattivo gusto: si premia la "scrittura scenica", la variazione sapientemente condotta, e si dimentica il sincretismo tra luce, suono e figura, il ritmo pacato e vitale dell’immagine. La rete di dialoghi mai banali, che svuotano gli stereotipi, e un intrigo attorno alle difficoltà degli adulti ad abbandonare le proprie rigidità, per riuscire a ri-innamorarsi, non bastano a render conto del piacere "estetico", legato cioè ad un’estetica dei sensi e degli affetti, di questo racconto maniacalmente curato. Lo spettatore è "preso", reso vulnerabile dalla grazia semplice con cui i corpi e i visi degli attori diventano geografie, si fanno paesaggio, mentre i filari del vigneto disegnano regolarità e rettilinei che li accomunano alle strade del mondo, quelle stesse strade che, asfaltate o meno, amano condurci in più film di Rohmer dalla città alla campagna, di solito in silenziose riprese in soggettiva. Oppure è preda della dimensione passionale nella configurazione della luce della capacità di rendere la luminosità diffusa dei pittori impressionisti, o l’intensità della luce autunnale che a seconda delle diverse ore della giornata sa portare sensazioni di caldo o di freddo, l’incanto e la solitudine della campagna francese a fine settembre l’umido o il secco, il suono in presa diretta dei rumori del vento sulle viti e sull’erba o tra i rami frondosi impregna i cromatismi e le luci calde del tramonto di una propria, materica, verità. Il vento di campagna increspa e trasforma la massa di scuri riccioli di Magalì, viticultrice "biologica", mentre luci ed ombre li scolpiscono in geometrie impreviste, aprono il gioco delle similitudini, verso un loro divenire grappoli, come fosse la cesta d’uva nera che lei stessa offrirà all’amica. Simbolismi? La presa in carico della preparazione al "colpo di fulmine" che segnerà la svolta nella vita di Magalì, spetta proprio a lei, l’amica libraia, donna di mondo, accomunata dall’essere ormai giunta nell’età dei figli grandi; una signora di città, spaurita o, piuttosto, distratta rispetto all’infinità di particolari del mondo della natura scelto dalla coltivatrice come una missione (altro che "sfruttare la terra", dice seria Magalì, "io la onoro"). La raffinata Isabelle, interpretata da quella Marie Rivière che ne Il raggio verde anelava all’amore come ad una risposta, annulla la divisione tra caso e destino, si fa creatrice della felicità dell’amica, e rovescia così la provvidenza in una libera (e pascaliana) scelta.
A questa morale dell’individuo artefice dei proprio destino, pur controvoglia, fa da contrappeso un’interpretazione umanistica della natura, d’altronde quasi onnipresente, nella poetica di Rohmer, basti pensare al primo arrivo della protagonista di Conte de printemps (1990) nella casa in campagna della giovane amica, quando spiega la sua goffaggine nel camminare sul prato con un delicato "ho sempre paura di far male ai fiori" Ma va detto che questo Racconto delle quattro stagioni risente anche dell’esperienza ecologista di L’albero, il sindaco e la mediateca (1992) in Racconto d’autunno l’orizzonte non è più (non può più essere) incontaminato, idilliaco, e al di là della linea dei campi non si può evitare di vedere i fumi di due ciminiere – anzi spesso si ode un sottofondo, per quanto naturalizzato, di rumori del traffico. Provocatoriamente proprio il maturo "cuore solitario" che poi incontrerà Magalì si dichiara tutto sommato a favore della rivalutazione dell’architettura industriale. Ma la natura serve anche da pretesto: se l’autunno come stagione si figurativizza in vino-viti-vendemmia (e conseguente "Festa del mosto"), in termini metaforici siamo di fronte al tema della maturità affettiva, alla fase di ripensamento sulla propria vita e sui propri desideri, ben sapendo che le valutazioni sono già, in fondo, un inizio di trasformazione.
Simbolo di trasformazione intesa come "fermentazione" è la giovane savante Rosine che intreccia con Magalì, madre del suo fidanzato, un rapporto di fertile amicizia. Rosine è, come le altre due donne del film, lucida fino al cinismo: sa che la sua storia non durerà, ammette di viverla come una voluta transizione da un estremo all’altro, dal suo appassionato ex professore di filosofia (di cui forse è ancora innamorata) al coetaneo preso dalla sua voglia di autonomia, la ragazza colta, "affabulatrice" che interpreta tutte le relazioni in termini amorosi è un’autocitazione, rinvia direttamente alla combinazione di elementi del primo film del ciclo, il Racconto di primavera (1990). Anche lì un’eterea "sognatrice" tesseva un intrigo per far scoccare scintille tra il seducente padre esperto d’arte e la sua nuova amica, guarda caso insegnante di filosofia, di dieci anni più vecchia di lei. E se Magalì è la madre che Rosine avrebbe voluto, il suo ex professore è in fondo un padre putativo, per quanto incestuoso. Mentre in Conte de printemps le coppie asimmetriche erano due (il padre con una giovane giornalista, la figlia – gelosa – con un coetaneo del padre), in Racconto d’autunno sdoppiano invece i possibili pretendenti di Magalì, manovrati rispettivamente dall’amica giovane e da quella storica. La sottile arte combinatoria, l’inseguimento di una variante – sono modi narrativi di Rohmer fin dalla stesura dei suoi Six contes moraux (1962-1972), che mettevano in scena la scelta dell’uomo tra più amori (e forse vite) possibili. Nel ciclo di Comédies et proverbes iniziato nel 1980 (ricordiamo Le rayon vert, del 1986) l’accento morale si stempera a vantaggio delle regole pratiche dell’amore e del corteggiamento, le variazioni sul tema sono a carico di giovani donne; appare un sottofondo ironico che non si perderà più. In questi ultimi Contes des quatre saisons l’operazione è sapientemente mista: se in Conte de printemps si aprivano piste tra ricerca e indecisioni in Conte d’hiver (1991) l’accento cade sulla separazione voluta, per quanto difficile, e in Un ragazzo... tre ragazze (Conte d’été, 1996) il problema di scegliere tra più amori si risolve infine in una sospensione (con il giovane matematico Gaspard che preferisce dedicarsi alla musica piuttosto che prendere una decisione). Magalì, Rosine e Isabelle hanno in primo luogo un’intensa amicizia femminile, e su questo basano la loro stabilità. La matura libraia, nel tessere l’intrigo amoroso sembra caderci a sua volta, poiché svela i suoi fini altruisti solo al terzo appuntamento con l’uomo conosciuto tramite annunci. Più poeticamente (e non senza autoironia) la saggia e solitaria Magalì si è data per imperativo di dimostrare che il suo è un vino talmente buono da reggere e anzi migliorare con l’invecchiamento. Per uscire dalla propria solitudine lei non ricorrerebbe mai agli annunci, le sembrerebbe di vendersi. Magari rimane legata a un ideale dell’amore come predestinazione, crede nell’importanza del "primo sguardo" come se ci fosse una verità sensitiva che col tempo sfuma e non si può trattenere. Ed è forse per questo che diventa lo schermo su cui le sue due amiche proiettano la loro fede nell’incontro col vero Amore accanto a incertezze amorose inconfessabili perfino a se stesse. In questa visione del mondo, quasi troppo vera per essere credibile, lo spettatore è costretto ad accorgersi delle stonature, ad assistere al dubbio, all’autoillusione che attraversano ogni relazione. Per concludere che tutti sono degli esperti in amore – quando si tratta della vita degli altri – e portare a casa come consolazione il saluto che chiude il film in forma di canzone: "se la vita è un viaggio, buon viaggio figli miei".
Autore critica:Nicola Dusi
Fonte critica:Segnocinema n. 94
Data critica:

11-12/ 1999

Critica 3:
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Fonte critica:
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