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Anno vissuto pericolosamente (Un) - Year of Living Dangerously (The)

Regia:Peter Weir
Vietato:No
Video:Cic Video
DVD:
Genere:Commedia
Tipologia:Mass media
Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Christopher Koch,Peter Weir, David Williamson dal romanzo"The Year of Living Dangerously" di Christopher Koch
Sceneggiatura:Christopher Koch, Peter Weir, David Williamson
Fotografia:Russell Boyd
Musiche:Maurice Jarre
Montaggio:William M. Anderson
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Mel Gibson, Sigourney Weaver, Linda Hunt, Noel Ferrier, Dominador Robridillo
Produzione:McElroy Production
Distribuzione:Uip
Origine:Usa
Anno:1982
Durata:

115'

Trama:

Nel 1965 un giovane giornalista australiano, Guy Hamilton, è inviato in missione da Sidney a Giakarta in Indonesia, ove il governo del presidente Sukarno, fondatore del partito nazionalista, sta vacillando. Sarà difatti rovesciato nel 1966 dal gen. Suharto, rappresentante dei generali di destra, dopo il fallimento di un colpo di stato comunista. Su questi avvenimenti ha scritto un libro C. Koch, al quale si è ispirato Peter Weir, inserendovi una storia d'amore, che non altera la tematica principale del film. Guy Hamilton si rivela un giornalista coraggioso, appassionato della sua professione e corre tutti i rischi pur di conoscere la realtà socio-politica indonesiana, inerte e corrotta nelle alte sfere, colma di miseria, di desolato abbandono, di tristissima rassegnazione nel povero popolo. Balza subito agli occhi il contrasto fra Guy Hamilton e i suoi colleghi giornalisti occidentali, che sciupano il tempo in orge disgustose e, per le notizie, si attengono alle comunicazioni addomesticate del governo. A fianco di Guy compare Billy, un misterioso nano di origine cinese, abilissimo fotografo, intelligente, ricco di sentimenti umani e religiosi. È Billy che procura ad Hamilton un'intervista esclusiva con il segretario clandestino del partito comunista; è ancora Billy che fa conoscere a Guy una giovane inglese, Jill, segretaria dell'addetto militare all'ambasciata e della quale il giornalista australiano si innamora. E proprio Jill confida a Guy una notizia segreta: l'arrivo di una nave carica di armi da Shangai, destinata ai comunisti. Per Guy è il colpo giornalistico, lo "scoop" che lo farebbe trionfare nella sua carriera, ma sarebbe anche un tradimento nei riguardi di Jill e di Billy, il quale conosce la notizia, ma la tiene segreta. Per motivi morali e di amicizia Guy sceglie il silenzio. La sommossa comunista scoppia, ma viene soffocata nel sangue. Billy espone allora da una camera d'albergo uno striscione rivolto a Sukarno, invitandolo a sfamare il suo popolo. Interviene la polizia e Billy, scaraventato dalla finestra, precipita al suolo e muore. Guy corre all'aeroporto, riesce a salire su uno degli ultimi aerei, ove lo attende Jill, con la quale coronerà il suo sogno d'amore.

Critica 1:Curiosa mistura di avventure esotiche e dramma politico con una lieta fine di pura marca M-G-M. Le convenzioni hollywoodiane vi convivono con un sincero interesse per i problemi del Terzo Mondo asiatico. La piccola Linda Hunt, in un ruolo maschile, vinse l'Oscar della migliore attrice non protagonista.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(...) Pochi registi come Peter Weir hanno posto al centro della propria opera l'attrito fra culture, la destabilizzazione dei valori e dei ruoli occidentali nel contatto con una na-tura primordiale e divorante (Picnic a Hanging Rock) o nella confusione con i codici indecifrabili di precedenti, remote civiltà (L'ultima onda). Forse l'essere australiano, membro cioè di una comunità con poca storia e con una grossa rimozione alle spalle, gli ha facilitato la percezione di un “esterno” che schiaccia o relativizza l'azione umana, che incrina l'idea stessa del presente storico e quindi la trasparenza della narrazione cinematografica.
La “metafisica” di Weir, a ben vedere, si è soltanto modificata applicandosi alla ricostruzione di un evento reale della Grande Guerra: ne Gli anni spezzati infatti è proprio la Storia l'immenso palcoscenico, l'insondabile “esterno” su cui si affacciano per una breve apparizione i soldati australiani, inghiottiti dalla morte alla prima uscita da una trincea, a migliaia di chilometri da casa, in una guerra che non è la loro.
Di questa idea della Storia come forza sovrastante e criptico graffito l'episodio più emblematico è quello in cui i giovani australiani appongono sulle Piramidi la loro firma accanto a quella dei soldati di Napoleone.
Giava deve essere apparsa a Weir, alla stregua dell'Egitto, come un fondale eterno, dove il sovrapporsi di iscrizioni (gli olandesi che colonizzarono l'isola nel 1600, i giapponesi che la invasero durante l'ultima guerra mondiale, il governo di Sukarno dopo il 1954, anno dell'indipendenza) non costituisce un retroterra ma una deriva dove la miseria stessa si è fissata in forma, in un “teatro” silenzioso e onnipresente, che l'occhio occidentale, in cerca del sensazionale e dell'immediato, non può più vedere.
Qualcuno ha rinfacciato al regista la debolezza dell'impianto storico del film. Il fatto è che Weir non ha voluto fare un affresco dell'epoca; la ricostruzione dei convulsi avvenimenti che portarono nel '65 al fallito colpo di stato contro Sukarno, al massacro di mezzo milione di militanti comunisti e alla vittoria delle destre militari, è condotta dalla prospettiva parziale e in fondo “cieca” del corrispondente australiano Guy Hamilton. L'evidenza effettistica che il giornalista va cercando non riesce a sondare minimamente il processo politico in corso, ne fa emergere alla superficie del film immagini senza profondità. Sukarno che sorride enigmatico dall'alto del suo palazzo e che sorveglia il suo popolo dalle gigantografie naif che riempiono le strade, è una vuota silhouette o forse la raffigurazione di un padre-feticcio, non comunque un attore di quanto sta accadendo. Il partito comunista è un protagonista anonimo, non solo perché agisce nell'ombra, ma perché appare qui solo nelle sue manifestazioni esteriori: un grande corteo in piazza, tanto colorato da sfiorare una sensazione di falsità; la falce e martello che a un tratto dilaga sui muri. Anche in questo caso abbiamo appena delle rappresentazioni: non per niente il leader dei Pki, intervistato da Hamilton, non ci viene mostrato e il momento dell'insurrezione rimane in fuori campo.
In questo quadro elusivo l'avventura pericolosa diventa quella del vedere, cioè perforare un muro di apparenza e indifferenza. Hamilton alla fine ci perde un occhio e il nano Billie Kwan la vita. Il dramma è che non c'è una verità dietro le quinte: come nel teatro d'ombre Wayang, di cui Billie è cultore, “non esistono definizioni drastiche”; il punto focalizzante non è rappresentato dalla marionetta ma dalla sua mutevole proiezione sul muro. Il nano ha introiettato quel gioco di rimando fra immagini; infatti vede in Hamilton la sua ombra ingigantita, attraverso cui realizzare il sogno d'amore proibito con la bella diplomatica inglese. Non è senza malizia che Weir ha scelto per interpretare la parte di Billie una donna, la fenomenale Linda Hunt; il nano infatti è per lui un catalizzatore dell'ambiguità: ben accetto negli ambienti governativi così come in quelli clandestini, e nello stesso tempo spiazzato grazie alla propria diversità; uno strumento quasi medianico per penetrare i misteri di Giacarta (“lo posso essere i tuoi occhi”, dice il piccolo fotoreporter al corrispondente) e contemporaneamente l'oggettivazione dell'impotenza dello sguardo.
“Che cosa dobbiamo fare dunque?”, si chiede angosciato Billie, avvertendo un'assenza dietro il gioco di magiche proiezioni in cui è irretito: anche Sukarno, che egli ammira e del quale ogni tanto prende il travestimento, è in definitiva un'ombra, una gigantografia muta proiettata sui muri della città. Nessuno guarda veramente alla miseria dei popolo: non il giornalista, che è accecato dalla maschera dell'attualità e dalla finalizzazione allo scoop, non le autorità e i diplomatici, che vivono in un mondo trasognato, preoccupandosi che il gin-tonic sia servito nei modi giusti, senza ghiaccio, organizzando ricevimenti sincronizzati sul coprifuoco e cavandosela con la dichiarazione “un po' melodrammatico” davanti a un reportage sulla carestia.
Ma forse la miseria è uno sfondo tanto immenso, astorico e permeante che non si lascia più guardare, non si lascia comprendere - nel senso di catturare, mettere a distanza - neanche dalle fotografie con cui Billie tappezza il suo laboratorio. Gli appaiono, quelle, immagini di “esseri umani che diventano fantasmi”, volti che divengono l'archetipo della povertà e che, fissati sulla carta, non hanno più rilievo, sono intercambiabili. Il nano è cosciente dell'impubblicabilità di quelle foto che, al contrario delle aspettative di Hamilton, non possono attualizzare nessun dramma; restituiscono semmai lo sfondo alla sua atemporale teatralità. Da qui l'angoscia dei “che fare” e l'inutilità dell'umanitarismo avvertita da Billie di fronte alla morte di un suo piccolo protetto; da qui il clamoroso (nella sua voluta ingenuità) gesto finale, con cui egli rinuncia al teatro d'ombre, alla delega e al perenne travestimento che la sua condizione di nano gli consente.
Si è criticato Weir per l'artificio della storia sentimentale fra il giornalista e l'assistente dell'ambasciatore inglese; in effetti qui il regista rischia un facile esotismo, facendo il verso a certi film “coloniali” degli anni Quaranta, cioè usando l'ambiente come espressione di uno stato di necessità e di pericolo che serve a mettere in rilievo, nella sua indifferenza al contingente, la passione amorosa. In tal senso va visto l'episodio, un po' banale, della fuga notturna in macchina dei due amanti, che forzano un posto di blocco e sfuggono per miracolo al fuoco delle mitragliatrici.
Tuttavia, essendo il contingente in questo film a sua volta molto artificiale e aleatorio, la storia sentimentale funziona come un'ulteriore interpretazione sospensiva del racconto sottolineata dal romanticismo elettronico della musica di Jarre. E infatti Weir cerca di valorizzare soprattutto l'obliqua presenza della donna, la resistenza a una precisa fisionomia della scontrosa e “aliena” Sigourney Weawer. Il lieto fine, con i due amanti che si riabbracciano sulla scaletta dell'ultimo aereo in partenza da Giacarta, è rapido come un flash, anch'esso in qualche modo all'insegna dello straniamento: scontato eppure incredibile.
Certo il meglio dell'obliquità del film sta altrove, nella messa in scena dello sguardo attento e al tempo stesso sfuggente e glaciale degli indigeni, spettatori dei cerimoniali camerateschi e delle volgarità occidentali, pronti a irrompere sulla scena come nuovi attori. Ma il momento dell'esplosione è continuamente rinviato e infine forcluso; rimane nell'aria una sensazione di agguato che trapassa dagli sguardi alle manifestazioni intensificate, accerchianti, “erotiche” della natura e dei paesaggio, fra improvvisi nubifragi, tempi rallentati a misura del caldo umido, scenari che si presentano come diversivo e sottintendono pericolo (la piscina sporca nella vecchia villa olandese). È forse questa percezione dell'ambiente il tratto caratterizzante del film di Weir: il segno di uno sfasamento che, nell'opera in questione, è il corretto atteggiamento di chi non vuol risolvere l'evento storico in materiale d'archivio, ma farlo vibrare sotterraneamente fino a intercettare le possibili proiezioni d'oggi.
Autore critica:Lodovico Stefanoni
Fonte critica:Cineforum n. 228
Data critica:

10/1987

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Year of Living Dangerously (The)
Autore libro:Koch Christopher

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