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Fuoco fatuo - Feu follet (Le)

Regia:Louis Malle
Vietato:No
Video:Domovideo, Biblioteca Rosta Nuova
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo “Le feu follet” (Fuoco fatuo) di Pierre Drieu La Rochelle
Sceneggiatura:Louis Malle
Fotografia:Ghislain Cloquet
Musiche:Erik Satie
Montaggio:Suzanne Baron
Scenografia:Bernard Evein
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Maurice Ronet (Alain Leroy), Bernard Tiphaine (Milou), Bernard Noel (Dubourg), Jeanne Moreau (Jeanne), Alexandra Stewart (Solange), Tony Taffin (Brancion)
Produzione:Nouvelles Editions (Parigi) - Arco Film (Roma)
Distribuzione:Ambasciata di Francia
Origine:Francia - Italia
Anno:1963
Durata:

110’

Trama:

Il film narra gli ultimi due giorni di vita di Alain, un uomo intossicato dall'alcool e stanco della propria inutile esistenza. Gli incontri che ha con alcuni amici gli danno l'esatta sensazione dell'assoluta estraneità esistente tra lui e il prossimo. Dopo essere fuggito esasperato dall'amico Doubourg, che gli consiglia di trovare una qualsiasi sistemazione, Alain incontra Jeanne: un incontro doloroso che gli conferma la sua impotenza di vivere e dal quale ha la percezione precisa della fine imminente. Neanche l'incontro con Solange, una donna bella e generosa, riesce a placare l'angoscia di Alain. Chiuso nella sua stanza, Alain tira fuori una pistola e compie infine il gesto risolutore.

Critica 1:Cronaca angosciosa e lucida delle ultime trentasei ore di un uomo che deve morire. Deve perché l'ha deciso lui, Alain Leroy, convinto che il suicidio sia l'ultimo, e l'unico, atto che gli resti da compiere. Rigorosa parafrasi di un romanzo (1931) di Drieu La Rochelle, postdatato di trent'anni con qualche sfasatura, è uno dei migliori e più personali film di L. Malle e, in assoluto, il migliore di M. Ronet in un formidabile monologo.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Prima di ripiegare sul Feu follet, Malle aveva tentato di calare la sua insofferenza in un paio di sceneggiature - Assez de champagne e Trente ans, ce soir - delle quali almeno la seconda porta un titolo decisamente significativo. Con Le feu follet gli è però agevole prendere le distanze dal contingente e dall'autobiografico; e insieme, fatto essenziale per un cineasta che aveva sempre voluto oggettivare in altro la propria sensibilità, parlare di ciò che conosceva senza cedere nel rischio di una riscrittura del privato. Nel caso del Feu follet l'assioma del lasciarsi scivolare in un soggetto si traduce infatti in progressiva immedesimazione.
Ma perché proprio il suicidio? Debbono essere accantonate le spiegazioni particolari - l'emozione per la morte di un amico, il rimorso per non essere riuscito a impedire che si uccidesse - se non per il peso che questo può avere avuto sulla lettura del libro. Né il regista sembra preso dall'intricato nodo dei rapporti tra Jacques Rigaut e Drieu: tra quegli che, suicidandosi, era stato il modello del romanzo e l'uomo che aveva non poche responsabilità nella sua morte (al punto che la stesura del Feu follet è anche un modo per liberarsene, per scaricarsi di un peso). Quando Malle osserva che il libro cristallizza tutta una serie di cose per lui importanti, è chiaro che non allude soltanto alla sua componente ambigua. Volendo intessere l'elegia di quelli che stanno da una certa parte, diciamo di una razza ormai in procinto di sparire, Le feu follet è il calco che permette l'operazione nel modo piú soddisfacente. Altro è invece parlare di film al terzo grado (Robert Benayoun in «Positif») visto che l'intervento di Malle si trova a integrare nel proprio tessuto anche certune peculiarità di Drieu, che a sua volta volta non aveva potuto totalmente affrancarsi dalla vicenda di Rigaut. E poiché il cinema è in alcuni casi anche un'arte collettiva, in questo complicato processo di embricazione deve riconoscersi il contributo di Maurice Ronet: il quale, già per quella sua figura svigorita ma soprattutto per avere vissuto una esperienza assai simile a quella del personaggio, dà della accoratezza malliana una versione persuasivamente personale, sebbene non priva di una certa deliquescenza.
Per tornare comunque al suicidio, non bisogna dimenticare che esso è una costante della piú irrequieta letteratura borghese del '900, quella che si colloca velleitariamente all'opposizione. Da Jacques Vaché a Rigaut, da Crevel allo stesso Drieu c'è nella cultura francese una sorta di filo oscuro che la percorre dal primo al secondo dopoguerra. Se Rigaut nel '20 aveva scritto in «Littérature» che il suicidio dev'essere vocazione, la «Révolution surréaliste» poneva cinque anni dopo il quesito se esso potesse apparire una soluzione, l'autentica soluzione; e cosí sino all'autoannientamento eroico del Mythe de Sisyphe. Evidentemente, tutto questo era noto a Malle. Il quale ad ogni modo si serve del suicidio per sottolineare la situazione estrema del personaggio. Il rapporto con Drieu - e con Rigaut - non esclude un distacco dai presupposti del libro. Drieu ha disprezzo per il suo protagonista e lo inquadra per ciò stesso in un contesto meschino e sordido; narrare sino in fondo una vicenda squallida è per lui una sorta di transfert, la rimozione del complesso di colpa. Malle al contrario partecipa elegiacamente dell'ultima giornata di Alain Leroy, del quale condivide gli abbandoni, le ripulse, le rivolte improvvise. La sua malattia, l'orrore della maturità e della vita, è la stessa che egli avverte in maniera forse edonistica, intellettualistica: è la linea d'ombra alla soglia dei trent'anni di Conrad, cui non a caso Malle si è richiamato.
La consonanza sentimentale con il personaggio del film è d'altronde trasferita nello stile e nel ritmo interno delle sequenze. Per esemplificare, si potrebbe portare il modello di una composizione musicale costruita inizialmente su accordi indecisi, e districantesi poi secondo strutture e un crescendo che amplifica lo sviluppo ad andante. La parabola in calare, con il graduale allentarsi della tensione e un allargamento dei sintagmi narrativi, conchiude l'unità del testo. Altrimenti detto, è il problema della qualità tradizionale del discorso filmico di Malle, di quel suo relativo anacronismo che qui vuol soprattutto puntare a un doloroso estraniamento dalla dialettica contemporanea. (...)
La giornata di Alain si conclude senza che niente o nessuno abbia potuto trattenerlo, senza che alcuno dei suoi amici si sia provato a impedire un suicidio ormai dichiarato. Le chiusure, la gentilezza opposta alla sua disperazione, contano naturalmente anche nello schema di un film intimistico e sentimentale. Sono in altri termini quella parte di critica sociale che anche da differenti prospettive ideologiche (vedi ad es. un Sadoul o uno Chapier) è stata sottolineata nella produzione malliana. Ciò che è vero, se solo si intenda quella critica come interna alla borghesia; e la polemica contro l'aridità morale non come demistificazione dei presupposti e degli effetti dell'alienazione, ma contrapposizione di una autenticità di sentire che esula consapevolmente da ogni possibile implicazione strutturale. Se il caso di Malle è quello dell'espressione di un disagio, del rilevamento di un malessere che poi trapassa in irrequietezza, in solipsismo, in isolamento, la sua polemica antiborghese è allora di segno indubbiamente aristocratico. La paura di diventare vecchio, l'imborghesimento esemplato in tanto che integrazione nell'ordine sociale, l'avversione verso una normalità che mai coinvolge il campo ideologico e intellettuale: tali i termini di un contrasto che non si saprebbe piú romantico e decadente. Per questo si può anche dire che l'elegia di Alain Leroy è una sorta di «confession d'un enfant du siècle» passata al vaglio delle tensioni dei nostri anni. E il suo suicidio un paradosso estetico, una sfida alla volgarità, alla inconsistenza della vita, alla massificazione.
Ciò non toglie che Malle abbia talmente avvertito le lacerazioni e gli interrogativi esistenziali da costruire con Le feu follet uno dei suoi film piú sofferti e, in ogni caso, il piú emblematico della sua carriera. Sul piano espressivo, lo stile aderisce alla materia, senza quegli exploits e quei rialzi che s'impongono altrove, in altre opere. Senza mai giungere ad una articolazione scarnificata ed essenziale, ma con una scrittura che ripercorre la filigrana dei sentimenti e le frustrazioni del personaggio principale. Ogni cosa è funzionale a questo: dai primi piani che dilatano l'intensità e l'ossessione del dramma a movimenti non gratuiti, non narrativi nel senso esteriore. Mai insomma come in questo caso lo stile ha servito la poetica e gli intenti di Malle. Anche per questo Le feu follet è il suo film piú sincero e disarmato.
Autore critica:Gualtiero De Santi
Fonte critica:Louis Malle, Il Castoro Cinema
Data critica:

6/1977

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Fuoco fatuo
Autore libro:Drieu La Rochelle Pierre

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