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Alice - Alice

Regia:Woody Allen
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video (Winners)
DVD:
Genere:Commedia
Tipologia:La condizione femminile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Woody Allen
Sceneggiatura:Woody Allen
Fotografia:Carlo di Palma
Musiche:Autori vari
Montaggio:Susan E. Morse
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Alec Baldwin, Diane Cheng, Mia Farrow, William Hurt, Joe Mantegna, Cybill Shepherd
Produzione:Greenhut Robert
Distribuzione:Cdi
Origine:Usa
Anno:1990
Durata:

106'

Trama:

Moglie tradita di un uomo d'affari e madre di due bambini scopre il vuoto della propria esistenza, sbanda per un sassofonista e, grazie all'incontro con un saggio agopunturista cinese, è introdotta nel paese delle meraviglie. Pur nella gravità dei temi, è una commedia a corrente alternata con incursioni nel magico (un volo alla Superman, l'apparizione di una Musa, una pozione che rende invisibili e un'altra che innesca l'amore).

Critica 1:Woody ci ha raccontato ancora una volta, nella sua tipica commistione di immagini della Grande Mela e folate di jazz, quanto è difficile vivere da artista, o semplicemente da fragile essere umano, tra scenari ingannevoli e tensioni insopportabili.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaIl Corriere della Sera
Data critica:



Critica 2:Cinquantacinque anni, opus numero 20. Woody Allen, dopo il fallimento delle sedute dal suo psicanalista, è davvero andato a Lourdes. Per interposta persona, facendosi rappresentare dalla moglie Mia Farrow, che alla fine di questo film - dopo averla vista sullo schermo, dunque dopo averla conosciuta attraverso i “media” - raggiunge Madre Teresa a Calcutta e diventa un'“altra”. Guarita ed apostola di una fede attiva, riconciliata con se stessa e il mondo.
Allora: è ancora e sempre lo stesso film anche Alice, o è lo squillo di un nuovo Allen? Facile, anzitutto, constatare che, sia presente lui stesso sullo schermo, con la sua faccia, i suoi occhiali e i suoi “tics”, oppure no, non fa proprio differenza. Così come non fa differenza avere di fronte un film serio o un film faceto, quand'è firmato da lui; la distinzione l'abbiamo lasciata cadere da un pezzo. Niente rimpianti, si spera. Eccolo, qui, farsi delegare da Mia Farrow, che è una sua perfetta controfigura: persino nel modo di espri-mersi, di manifestare i suoi imba-razzi, nel balbettio faticoso di una incertezza congenita e di una timidezza castrante. Specialmente qui la Farrow è una Woody Allen femmina.
C'è, di nuovo - si dice - il cattolicesimo. Per la prima volta il regista non parla delle sue proprie origini e della sua formazione ebraica, ma di quelle (cattoliche) della moglie.
Dunque un film tutto diverso, tutto originale rispetto a quelli che lo precedono? Non direi. Ecco riaffacciarsi la pregiudiziale dello stesso film ripetuto in circostanze diverse, cosa che proprio non vedo come debba dare fastidio. Ebbene sì, Woody Allen è un “autore”. Fa del cinema per parlare di sé e delle sue ossessioni. Lo avevamo lasciato alle prese con i crimini e i misfatti (ma anche con le piccole vigliaccherie, le meschinità e le colpevoli pigrizie) di una società opulenta e bugiarda, tesa solo al soddisfacimento del proprio bisogno di affermazione a scapito di qualsiasi ostacolo, pronta ad eliminare tutto ciò che si frappone fra le proprie ambizioni e i traguardi da raggiungere. “Era inevitabile che Woody Allen arrivasse a toccare la sfera dell'etica”, scrisse a proposito di Crimini e misfatti Franco La Polla, riconoscendo d'altronde che il nostro regista “ci aveva girato attorno a lungo”. Qui, in Alice, l'etica la fa da sovrana. La protagonista di Un'altra donna - film cui il presente si ricollega chiaramente - percorreva un itinerario verso la conoscenza che la portava a scoprire in se stessa una persona diversa da quella che credeva di essere, e dunque a comportarsi di conseguenza e a nutrire delle speranze circa una possibile sua armonia con il mondo. In Alice, Allen non ha ritegno ad usare termini che è elegante ritenere obsoleti come “valori della vita”. Pare questa, a certe orecchie ben coltivate di quell'“intellighentsja” che si autocompiace di definirsi laica (il laicismo come etichetta, intendiamo, come “griffe” alla moda), un'espressione oscena. “Voglio che i miei bambini crescano con un maggior senso dei valori” - dice Alice al marito ancora incredulo che, come alternativa a Calcutta, le propone un viaggio alle Bahamas.
C'è da crederci? Voglio dire: Allen ha smesso razionalità, scetticismo, pessimismo e tutto quanto forma il suo corredo tipico per prestar fede alle “conversioni”? Crede davvero che ci si possa realizzare nella rinuncia ai “falsi valori” e con l'apertura verso i bisogni del prossimo, il rinnovellamento della personalità, la dedizione ai figli prima trascurati? (anche l'andare a riprenderli all'uscita della scuola per certe madri è un piccolo rito mondano, tanto è vero che vi possono incontrare attraenti signori bruni dallo sguardo acceso). Alcuni prendono questa soluzione come oro colato e magari si infastidiscono, sbuffando per il preteso, inaspettato “moralismo” da parte di un autore che li ha sempre accompagnati col sorriso faunesco del razionalista beffardo per il quale niente è sacro.
Altri reagiscono vedendo nell'impianto del film e nella soluzione fìnale una presa per il bavero proprio del “sacro”, l'esercizio di una sorniona ironia nei confronti del cattolicesimo e delle scelte spirituali della protagonista.
Che qualcosa in più, o di diverso, ci sia in Alice rispetto agli altri lavori alleniani è un fatto. Giornali e rotocalchi, buttatisi ad intervistare il personaggio, sono pieni di sue dichiarazioni sul cambiamento operato nella sua vita dalla presenza di Egli suoi, in aggiunta a quelli che si è ritrovato in famiglia sposando la Farrow. “Mentre cambiavo i pannolini ai miei figli ho risolto più problemi che in vent'anni di sedute analitiche”, palesa ad una intervistatrice di “Panorama”, e all'Irene Bignardi fa eco: “I miei figli hanno portato un enorme cambiamento nella mia vita”. A parte la possibilità concreta che tali dichiarazioni non siano del tutto veraci o comunque corrispondenti alle intenzioni precise di chi le ha rilasciate, anche questi sono elementi che possono servire.
Naturalmente è l'oggetto-film ad imporre una lettura sufficiente. Consideriamo allora quel finale, precipitosamente, sommariamente risolto. C'è la dichiarazione di Alice al marito, la sua decisione di andare a Calcutta, due o tre inquadrature della città indiana (prese a prestito dal film che Louis Malle vi ha girato nel 1969) e un altro paio di Alice che gioca con i bambini in un parco pubblico, con la voce fuori campo delle amiche che ci dicono della scelta della donna (la povertà, la dedizione, la felicità). È vero, il tono della fotografia qui è mutato nettamente, alle luci pastose cui Carlo Di Palma ha fatto ricorso per le due dimensioni esistenziali di Alice (la realtà e la fantasia) è subentrata di colpo una luce fredda, precisa, pulita, dai contorni ben delineati. Ma quella Calcutta è una Calcutta da film, quella constatazione è demandata ai pettegolezzi delle amiche perdigiorno.
Se poniamo mente a tutto intero il tono del racconto, alle sue aperture verso il favolistico e il fantastico, ai numerosi sberleffi, dobbiamo convenire che Allen non ha indossato di colpo l'abito del moralista ma continua semplicemente il discorso che lo ha sempre interessato, esprimere se stesso con i mezzi della comunicazione (cinema, ma anche monologo, dialogo diretto con il pubblico, gioco di battute umoristiche, pagina scritta, commedia, sketch, spettacolo). A lice è pieno di riferimenti allo spettacolo, non ci fa mai dimenticare che stiamo assistendo ad una rappresentazione. L'incontro con l'ombra del fidanzato morto, nel locale in cui Alice e lui si erano dichiarati, è immerso nel cono di luce di un riflettore, riflettori in vista sono accesi durante l'incontro fantastico della protagonista con la madre (che faceva l'attrice; e anche Alice ha lavorato nello spettacolo); il solito cono di luce segue la Musa biancovestita e occhialuta che dà consigli sullo
scrivere alla nostra eroina, e nell'appuntamento di Alice col sassofonista il raggio del riflettore inquadra quest'ultimo che prova col suo strumento (luce in cui Alice entra trionfalmente, illudendosi; l'uomo le comunicherà invece che intende tornare dalla moglie da cui ha divorziato).
Allen ha fatto un film, insomma, e noi siamo invitati a guardarlo. Tutto qui. Alice vede Madre Teresa al cinema, in un “reportage” (l'avrà incontrata a Calcutta? Ma c'è stata poi a Calcutta? Quanto c'è stata? Cosa ha fatto?). L'incontro con il suo sassofonista (quello immaginario, che nella realtà non è mai avvenuto) ha luogo in un acquario, una specie di lente che enfatizza lo sguardo; il disco in bianco-e-nero con la spirale rotante, specie di meccanismo cinepreistorico sull'illusione della rétina, induce Alice alle visioni; nel loro incontro al caffé, Alice e il sassofonista sono visti riflessi nello specchio; un'amica di Alice e la moglie del sassofonista si occupano di comunicazioni visive. E quando Alice diventa invisibile, è per vedere meglio, per raggiungere il massimo del voyeurismo, poter osservare e non essere osservata, come le dice il dottor Yang, il grande illusionista.
Chi ricorda il pirandelliano mago Cotrone di I giganti della montagna o il prestigiatore della edoardiana La grande magia (ma per il gioco ambiguo fra realtà e fantasia giova richiamarsi anche, a proposito di Eduardo, alle Voci di dentro), può, volendo, allacciare fili sottili tra quei copioni e il film di Allen (il cinema di Allen, anzi).
Dunque “le réel est étroit, le possible est immense”, diceva Lamartine. Ma Allen dichiara i limiti del possibile, cioè dei sogni ad occhi aperti. Alice è “sbagliata”, nel mondo cui appartiene per avere sposato un arrivato uomo d'affari con relazioni che contano. Sua sorella e le sue amiche sono “giuste”, cioè adeguate. Sotto la superficie di Alice donna di mondo, che fa lo shopping da Krizia, va dalla pettinatrice, frequenta il salone di bellezza (per signore, ma anche quello per i cani) e i salotti, sussiste sempre la Alice timorata e affettuosa, semplice e trepida. Tanto è vero che, se riconosce la falsità della sua esistenza reale, non accetta neppure la verità della sua fantasia, sollecitata magari dai trucchetti e dalle pozioni allucinogene del dottor Yang (sostituto del confessore e dello psicanalista: ma anche qui il personaggio va preso con distacco, Allen esercita nei suoi confronti l'ironia che suscita in lui la nuova moda americana delle erbe e delle polverine miracolose).
Voglio dire che Alice si sente “sbagliata” anche nel mondo dei desideri, fino a quando questi non assumono i contorni palingenetici del finale. L'uso dei colori cui prima si accennava ha qui un peso determinante. Mentre la rappresentazione dei falsi valori (i luoghi d'incontro, gli studi editoriali, la scuola per diventare scrittori, i ricevimenti) è schematica, la raffigurazione dei luoghi deputati della crisi di Alice è piuttosto sottile. La casa d'abitazione è un rifugio molle, una conchiglia dove tutto si ottunde, si placa, con i suoi colori arancione, la luce soffusa, vellutata, i divani e i cuscini, ma anche con il lungo corridoio sul quale si aprono tante porte come in un albergo-clinica. Anche dalla pettinatrice i toni sono gli stessi (Alice vi indossa un ampio kimono, mentre in casa ci è stata presentata in una vestaglia bianca. Non sono questi i suoi colori, non è questa la sua “mise” più appropriata: quando si reca per la prima volta dal cinese, dunque quando comincia a lavorare per diventare un'“altra donna”, è vestita di rosso, e rosso è il cappellino tondo, un po' buffo, da personaggio fiabesco, che ha in capo).
Dallo “stregone” orientale c'è penombra, la luce è di toni bruno-rossastri, caldi, da antro metafisico. In netto contrasto, il colore dominante della fantasia è il blu. Il blu notturno domina l'incontro con l'ombra del fidanzato, azzurro è l'acquario, un cielo blu (artificiale) domina l'ultimo incontro con il sassofonista. Un che di ondoso hanno anche le riprese nei colloqui di Alice in cerca di un “ubi consistam”, un andare e venire (invece delle soluzioni campo/controcampo) della cinepresa sui visi di lei e del marito, quando la donna tenta di farsi capire nelle sue esigenze (“Tu non mi incoraggi”, dice lei; e il marito: “lo sono pratico”), e sui visi di lei e del sassofonista quando Alice tenta di vincere le sue paure e di consegnarsi al desiderio.
Un va-e-vieni che ci sembra essere il “segno” del film, oltre che di tutto il cinema di Woody Allen, zig-zagante fra storie di singoli e di gruppi, tra comicità e seriosità. Nel senso che questo autore va seguito in un gioco di oscillazioni che costituisce il nucleo della sua poetica, l'accoglimento cioè di elementi apparentemente diversi ma in sostanza appartenenti allo stesso movimento, allo stesso respiro. Da cui nasce un elemento nuovo, ideale, che non appartiene né ad una realtà falsa né ad una fantasia ingannatrice: Alice si ritrova in una terza esistenza, quella di una realtà da lei stessa costruita sulla sua misura.
Conciliazione degli opposti, quindi. Quando Alice va dal dottor Yang a lamentarsi del suo costante mal di schiena, questi le dice che il suo male non è nella schiena, ma indica il cuore e la testa, e parla di “titanico conflitto” (“il cuore e la mente, che enigma” - diceva Calvero, altro grande mago e guaritore). Se la logica non basta, né il sentimento, per dirla ancora con il dottor Yang, non bastano, presi a sé, né la comicità né il dramma.
Il collante che tiene insieme le cose è l'umorismo. Facile il rimando alle più famose speculazioni sull'argomento, ma almeno una citazione viene acconcia e ci aiuta a prendere per il verso giusto l'ultima fatica alleniana: “L'umorista si fa un mondo tutto suo: si tiene discosto dal sentiero comune; si pone al disopra di tutto ciò che è fittizio o convenzionale; fanciulleggia e matteggia; dice cose serie in apparenza strane, e si dà egli stesso del matto o dello sciocco; e cionondimeno è questa una profonda pazzia, piena di buon senso, che stracciando senza pietà ogni maschera innanzi a cui si inchina il volgo, tira diritto al fondo delle cose”. La frase è presa dai Saggi critici del De Sanctis.
È chiaro, dunque, che l'atteggiamento di Allen è quello di chi dice cose serie scherzando. A chi si chiede perplesso se, nel finale catartico, Woody scherza o fa sul serio, si può rispondere: “Sì, scherza, ma ... ”. Aggiungendo che non solo è lui l'umorista, ma anche Alice, il suo portaparola, il suo “alter ego”: la sua scelta finale è un gesto da umorista, cioè da saggio, di qualcuno che ha capito tutto. Vediamo Alice giocare con i figli, in letizia: è passata attraverso lo specchio, dopo aver volato ed aver provato l'invisibilità (chi non l'ha mai desiderato, chi non ci ha mai pensato, anche i più “seri” fra noi?), ed ha burlato tutti.
Personalmente, parlare di valori in tono scanzonato per me è il massimo. Un film come Alice pare, ad una visione distratta, flebile, “minore”, ma credo che questa sua facile scorrevolezza sia una grazia del cielo, come lo è il dono della semplicità. Dentro questa semplicità (come dentro le bizzarrie, le fantasie da favoletta ecc.) risuonano note vibranti. C'è un'immagine musicale illuminante, a questo proposito, nel film. È quando Alice, sotto il primo influsso delle erbe (un'occasione come tante, un motivo qualunque che fa scattare la domanda che tutti ci rivolgiamo davanti allo specchio: “Chi sono io? Che vita conduco? ecc.), confida al sassofonista che il suono del sax risveglia in lei “tutto un mondo di armonici” (confessando più tardi ad un'amica che lei di armonici non ne ha mai saputo niente, che era un'altra che parlava per lei: e questo è interessante perché prova come il cuore segue delle ragioni che la mente non conosce eccetera eccetera).
Ora noi sappiamo che la produzione di un suono primario, fondamentale, ha in sé una serie infinita di altri suoni, concomitanti e parziali, definiti appunto “armonici”. Il sax, fra l'altro, è uno strumento in grado di produrre tutta la serie degli armonici (oltre a costituire in certo senso un superamento del clarinetto, lo strumento di Allen). Insomma il filmare dimesso di questo regista contiene una ricca rete di “armonici” che si intrecciano fra di loro dentro il racconto in sé e con tutte le risonanze appartenenti alla precedente produzione del Nostro.
Le sue colonne sonore, fra l'altro a proposito di musica - costituiscono sempre un sistema di questo tipo, per quanto riguarda i significativi rimandi a personaggi e situazioni: ed anche in Alice, naturalmente, dove il tango “La Cumparsita” per la vita d'apparenze lascia il posto a Duke Ellington per l'innamoramento (il sassofonista prepara un “Tributo a D.E.” e cita il brano “The Mooche”, che rimanda al marinare la scuola, al fare ragazzate), si cita Thelonius Monk (geniale, imprevedibile, dissonante nella vita e nell'arte), si ascolta il “Limehouse Blues” (per il quartiere cinese), la canzone-omaggio al nome della protagonista “Alice Blue Gown” (ma c'è anche un riferimento al “vestito azzurro” della piccola dolce fanciulla: il titolo intero della canzone è infatti “Little Sweet Alice Blue Gown”), fino ad un jazzizzato ma non meno inquietante “Morität” da L'opera da tre soldi, quando il sassofonista si sgancia da Alice, rompendo bruscamente l'ultima bolla di sapone del suo sogno.
Visivo e sonoro, scritto e filmato, parlato e agito: come il serio e il faceto, “tout se tient” nel cinema di Allen. Se entriamo nel suo mondo, siamo partecipi dei problemi gravi ma non possiamo allo stesso tempo esimerci dal seguire una bella ragazza nello spogliatoio, quando abbiamo la fortuna di essere invisibili (al più questa uscirà a reclamare con le commesse che si sente un respiro affannoso nello stanzino); siamo curiosi e partecipi dei grandi misteri ma allo stesso tempo, come i tassisti di New York alle prese con passeggeri che pagano la corsa ma non si vedono, non c'è niente che possa stupirci; e soprattutto sappiamo che tra la realtà fisica e quella immaginata (tra il qui e l'altrove, volendo) lo scarto è minimo. Al più, sentendoci venir meno, possiamo esclamare come l'ombra parlante del fidanzato di Alice: “Mi sento strano. Mi sento in dissolvenza”.
Autore critica:Ermanno Comuzio
Fonte critica:Cineforum n. 302
Data critica:

3/1991

Critica 3:
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Data critica:



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