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Kadosh - Kadosh

Regia:Amos Gitai
Vietato:No
Video:San Paolo Audiovisivi
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La condizione femminile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Amos Gitaï, Eliette Abecassis
Sceneggiatura:Amos Gitaï, Eliette Abecassis
Fotografia:Renato Berta
Musiche:Philippe Eidel
Montaggio:Monica Coleman, Kobi Netanel
Scenografia:Miguel Markin
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Yaël Abecassis (Rivka), Yoram Hattab (Meïr), Meital Barda (Malka), Uri Ran Kaluzner (Yossef), Yussuf Abu-Warda (Rav Shimon), Leah Koenig (Elisheva), Sami Hori (Yaakov)
Produzione:Agav Hafakot - M.P. Productions - Le Studio Canal Plus - Mikado Film in collaborazione con Rai Radiotelevisione Italiana
Distribuzione:Mikado
Origine:Israele
Anno:1999
Durata:

116'

Trama:

Mea Sharim, quartiere di Gerusalemme dove vivono ebrei ultraortodossi. Meir, il marito, comincia al mattino con il rigido rituale della vestizione e dei ringraziamenti; e così il resto della giornata è scandito da canti, preghiere, letture dei testi sacri. Rivka è sua moglie da dieci anni, ma la coppia non ha figli. Trovato il necessario coraggio, la donna consulta una ginecologa. Il responso è che lei è del tutto sana, e che quindi il marito dovrebbe sottoporsi ad analisi. Ma le Scritture vietano l'uso improprio di sperma. E subito dopo il rabbino, che è anche il padre, decide di rompere gli indugi e impone al figlio Meir di ripudiare la donna e prendere una seconda moglie. Rivka allora sceglie da sola di andare via di casa, va in una camera in affitto e lì dentro passa le giornate triste e muta. A consolarla arriva la più giovane sorella Malka che, avendo dovuto controvoglia sposare il violento Yossef, frequenta di nascosto il coetaneo Yoakov, di cui è innamorata. Tornata a casa, Malko viene picchiata dal marito, allora scappa, va da Rivka, le dice che è il momento di cambiare aria. Rivka torna dal marito durante la notte, la mattina dopo l'uomo la vede priva di vita accanto a lui. Malka invece all'alba lascia il quartiere e la città.

Critica 1:Amos Gitai non è un autore da pamphlet militante, da polemica accesa, contro l'integralismo. Preferisce mettere in scena quanto lo colpisce, affidare agli attori l'espressione di sentimenti disperati o crudeli, restituire visivamente l'angustia, l'asfissia dell'ambiente che sceglie di narrare: e ci riesce benissimo.
Autore critica:Lietta Tornabuoni
Fonte criticaLa Stampa
Data critica:

11/4/2000

Critica 2:Una storia d’amore che si colloca nel presente e ha radici nel passato fino a diventare qualcosa che fuoriesce dal tempo. Una storia sui rapporti di potere che entrano nella vita degli individui nel modo più profondo e indelebile Una riflessione su tolleranza, religione, tradizione. Insomma, tutti gli elementi che potrebbero far pensare a un film di costume, a una storia che racconta gli individui per analizzare i problemi della società. La forza espressa da Kadosh, l’ultimo film di Amos Gitaï consiste proprio nel saper superare tutti i limiti che vengono imposti da questa classificazione; a conferma del fatto che, con il passare degli anni, Gitaï i è rivelato una delle poche novità interessanti del cinema contemporaneo.
Kadosh racconta la vita intrecciata di due coppie. Meir e Rivka sono sposati da dieci anni, si amano teneramente e pudicamente, consumano con regolarità il proprio matrimonio ma non possono avere figli. Il rabbino ritiene che la donna sia sterile e che, secondo la tradizione, il matrimonio non sia compiuto: per questo motivo, impone a Meir di ripudiare Rivka e di sposare Haya che sicuramente gli darà dei figli e giustificherà quindi la propria unione portando il dono della fertilità. Anche Malka, la sorella di Rivka, ha un problema originato dalle convinzioni religiose. È da sempre innamorata di Yaakow ma il giovane ha da tempo ripudiato la vita religiosa (il film è ambientato nel quartiere di Mea Shearim, la zona più tradizionale ed ortodossa situata nella parte ebrea di Gerusalemme) ed è stato espulso dalla comunità. Il rabbino non esita ad esercitare il suo potere all’interno della comunità religiosa imponendo a entrambe le coppie il suo volere. Rivka sceglie la solitudine ­ e la tristezza, Malka preferisce ribellarsi e per entrambe la vita non sarà più la stessa.
Può essere letto come un apologo sulla tolleranza, ma come avviene nel grande cinema la morale non è fornita dal testo ma garantita dallo sguardo della macchina da presa. Ci sono infatti intere sequenze che non possono lasciare indifferenti. L’esitazione che caratterizza Meir quando fa l’amore con sua moglie, muo­vendosi goffamente nel letto matrimoniale e facendo precedere l’azione da una serie di rituali religiosi rende con grande efficacia lo iato tra sesso e convinzioni sociali: l’uomo abbraccia la moglie in modo esitante e proprio per questo profondo e romantico, la carnalità del rapporto avviene sotto il velo del lenzuolo quasi in una disperata spinta all’intimità altrimenti impossibile, la coppia realizza il coito restando quasi interamente vestita e nulla concedendo allo sguardo voyeristico dello spettatore. Allo spettatore sono invece riservati altri sentimenti e altre sensazioni: il ritmo lento e avvolgente del racconto crea l’ansia di sapere se il giovane troverà la forza di ribellarsi ai condizionamenti, attesa che viene sistematicamente delusa non solo dal colloquio con il rabbino, ma soprattutto dal ripetersi sempre uguale di gesti di ritualità. L’amore più profondo e più duro esce fuori dai dialoghi: Rivka si rivolge al marito con dolce tristezza e gli dice che conosce il fondo del suo cuore e lo sa infinitamente infelice, l’uomo risponde che non la lascerà mai ben sapendo di mentire a lei e a se stesso.
Ma la trappola del film a tesi viene continuamente elusa. Il mondo che esiste al di fuori della tradizione ultraconservatrice non è poi che sia molto meglio, e il regista rifiuta di schierarsi acriticamente con esso, e infatti si mette in scena per pochi secondi interpretando un ambiguo nottambulo in un bar notturno, freddo, egoista e a sua volta completamente calato nel suo ruolo. È un po’ come se dicesse: non solo il tradizionalismo è assurdo e limitante, lo sono tutti i ruoli socialmente precostituiti, lo sono tutti gli atteggiamenti che non hanno al proprio centro il valore della persona, la prevalenza dei sentimenti. In questo senso, il cinema di Amos Gitaï richiama esplicitamente la migliore tradizione del cinema yiddish raccontando un’identità che deve sopravvivere perché racconta le costrizioni subite nei secoli, ma che a sua volta diventa una gabbia insostenibile se collocata nel tempo attuale.
Il ritorno in patria di Gitaï ha significato per il regista (a lungo dichiarato indesiderabile in Israele per le posizioni assunte nei confronti dei palestinesi) una decisa svolta a favore di un cinema molto più semplice, meno appesantito dalle metafore di Golem e di altri film realizzati durante il lungo esilio.(…)
E proprio questa sua scelta radicale lo rende uno dei registi più interessanti nel panorama mondiale. Il suo cinema è un cinema apolide ma con radici profondissime, intriso di cultura e di morale, sotteso da una forza interiore che fuoriesce da ogni inquadratura. Il suo cinema è la diretta esplicitazione di come un grande bagaglio culturale possa essere soffuso in ogni immagine senza essere insistentemente ostentato.
Autore critica:Stefano Della Casa
Fonte critica:Cineforum n. 385
Data critica:

6/1999

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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