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Rapina a mano armata - Killing (The)

Regia:Stanley Kubrick
Vietato:16
Video:Mgm Home Entertainment (Gli Scudi)
DVD:La Repubblica,L'Espresso
Genere:Poliziesco
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo "Clean Break" di Lionel White
Sceneggiatura:Stanley Kubrick
Fotografia:Lucien Ballard
Musiche:Gerald Fried
Montaggio:Betty Steinberg
Scenografia:Ruth Sobotka Kubrick
Costumi:Rudy Harrington
Effetti:Louis Dewitt, Paul Eayler, Jack Rabin
Interpreti:Jay Adler (Leo), Timothy Carey (Nikki Arane), Elisha Cook Jr. (George Peatty), Ted De Corsia (Randy Kennan), Vince Edwards (Val Cannon), Jay C. Flippen (Marvin Unger), Coleen Gray (Fay), Sterling Hayden (Johnny Clay), Kola Kwariani (Maurice Oboukhoff), Joe Sawyer (Pike O'Reilly), Joe Turkel (Tiny), Marie Windsor (Sherry Peatty)
Produzione:James B. Harris per Harris Kubrick Productions
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Usa
Anno:1955
Durata:

86'

Trama:

Johnny Clay, ex carcerato, progetta un grosso colpo: impadronirsi dell'ingente somma, custodita negli uffici di un ippodromo in un'importante giornata di corse. Il piano viene studiato in tutti i suoi particolari, e a ciascuno dei complici è affidato un compito. Gli esecutori principali sono quattro, Kennan, un poliziotto assillato dalla necessità di pagare dei debiti di gioco; O'Reilly, un barista che ha la moglie ammalata e bisognosa di cure, Unger, vecchio allibratore alcoolizzato; Peatty, un modesto cassiere dell'ippodromo, vittima dell'amore non corrisposto per la moglie, Sherry, donna ambiziosa ed avida. Ci sono inoltre due collaboratori che non conoscono il piano di Johnny. Gli ingranaggi predisposti funzionano perfettamente e Johnny riesce a mettere le mani su un due paio di milioni di dollari. Nel luogo stabilito i complici stanno aspettando Johnny per la spartizione del bottino. Invece del capo, si presenta un giovanotto armato: è l'amante di Sherry, la moglie del cassiere, che, venuto a conoscenza dell'impresa, vuole impadronirsi dell'ingente somma. Ha luogo una sparatoria, nella quale tutti restano uccisi, meno Peatty, che trova la forza di correre a casa per uccidere la moglie. Johnny, accortosi della strage, tenta di fuggire in aeroplano col bottino, insieme alla fidanzata, ma la vecchia valigia, in cui ha chiuso le banconote rubate, cade a terra, s'apre e i biglietti si disperdono, spinti in ogni direzione dal soffio potente dei motori di un aereo. Il colpo inaspettato toglie a Johnny ogni possibilità di reazione ed egli si lascia arrestare senza opporre resistenza.

Critica 1:Dal romanzo Clean Break di Lionel White, sceneggiato da Kubrick con lo scrittore Jim Thompson (1906-76) che con il regista collaborò anche in Orizzonti di gloria e gli scrisse il trattamento di Killer at Large che non fu mai realizzato. Uscito dal carcere, Johnny mette a punto un minuzioso piano per una rapina in un ippodromo che frutta due milioni di dollari. Il grosso bottino suscita avidità e ferocia tra i complici. E il vento se lo porta via. È un film che rivelò Kubrick e indusse la critica americana a parlare di un secondo Welles. La sua cinepresa bracca i personaggi con l'occhio di un terrier che sorveglia un gruppo di topi. Fondato sulla rottura della continuità narrativa che permette allo spettatore di seguire lo svolgimento dell'azione secondo diverse prospettive, il film ha un ritmo incalzante e una suspense di tenuta infallibile. Fotografia di Lucien Ballard.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(…) Insieme con le didascalie che scandiscono le ore e i giorni, è il lavoro di K. sul tempo; la voce infatti ha la prima parola, mai l'ultima. Il meccanismo ne è solo innescato, corretto, ma poi procede da solo (cioè: tutti gli elementi concordano). Il segno è già nelle prime inquadrature, che mostrano i preparativi di un gioco (le corse dei cavalli) causa di altri giochi (le scommesse). La rapina conta, per riuscire, sulla provvisoria interruzione traumatica del gioco, ma comincia ad essere narrata essa stessa nella sala-giochi in un esordio minuzioso e rituale in cui tre dei partecipanti al colpo si scambiano furtivi messaggi come per scherzo bambini a scuola. Lo spettatore inizia a seguire i personaggi, cioé il meccano. Visto nel complesso, il gioco è aspramente ironico, quasi sarcastico, in un'interrotta serie interna di volute. La banda è composta da falliti, eppure il piano si svolge alla perfezione, grazie al contributo determinante dei due buoni «tecnici» esterni. Clay l'esperto, il freddo che sembra condurre il gioco, lo vedrà fallire; sarà lui per caso a perdere tutto, dopo esser stato sul punto di ottenere il massimo. Il cecchino, che rischiava meno di tutti («Il peggio che ti potrebbe capitare sarebbe di essere arrestato per aver sparato a un cavallo fuori stagione», gli dice scherzando Clay), per un caso sfortunato viene ucciso dalla pistolettata di un agente, e gli era stato appena regalato un ferro di cavallo; un altro riferimento simmetrico lega la sua morte alla sua prima comparsa nel film, quando lo vedevamo esercitarsi in campagna su sagome di cartone raffiguranti uomini con la pistola puntata. Ma il gioco più vertiginoso è quello in cui si coinvolge lo spettatore. La storia infatti, col perfetto gioco d'incastri, si fa seguire agevolmente, e anche il fatto che una medesima sequenza (lo scatenamento della rissa all'ippodromo) sia ripresa due volte non è artificioso ma avvertito come funzionale. È «divertente» in fondo: si tratta di un puzzle del quale man mano vengono forniti i pezzi; tutto combacia, tutto torna senza bisogno di sforzi. In questa prima visione d'assieme l'acme è la sequenza in cui Clay, calcatasi in testa
una bizzarra maschera ghignante, compie la rapina vera e propria: la m.d.p. lo segue con un lungo carrello laterale attraverso diverse stanze (puzzle come ricostruzione di una superficie-fiction: durante tutto il film la m.d.p. si limita a scivolare lungo di essa mediante i carrelli laterali. Altman mostrerà in Images l'utopia e il terrore e i problemi di un puzzle che sia del tutto «filmico», cioè che utilizzi anche la terza dimensione, risultando impossibile a risolversi), lo mostra mentre si fa riempire di soldi un sacco. Poi lo vediamo buttare il sacco dalla finestra - vedremo in altra sequenza il sacco spuntare da essa e cadere vicino all'auto del poliziotto complice -, quindi tornare sui suoi passi. A questo punto il resto, fino alla caduta finale («crime does not pay»), potrebbe essere previsto e accettato da qualsiasi cultore di film del genere.
Per un lato infatti il film soddisfa la non troppo nascosta predilezione - da parte di chi guarda in un'ottica di genere per il perfetto combaciare non tanto di un piano quanto delle sequenze nel loro insieme, uno scivolare meccanico di ogni film sui passi del precedente, nel mare degli archetipi e del sempre previsto imprevisto. Il piacere infantile della «costruzione» e del gioco maniacalmente ripetuti (…), della fiaba reiterata. Dall'altra parte, il gangster film «nero» (come ogni altro genere) accoglie al suo interno momenti di dissoluzione o di messa in questione, anche perché, nelle necessarie pur lievi successive variazioni di personaggi, se ne creano di abnormi: isolati romantici eroi, perdenti nati che perdono ancora una volta per una donna, psicopatici (James Cagney nello straordinario White Heat, Furia umana di Walsh), mostri. O almeno, ogni genere ha le sue figure tipiche, l'affetto per le quali occulta spesso il fondo reale del piacere che il film di genere può dare. In The Killing lo spettatore ha pure l'illusione di ritrovare - oltre la struttura affascinante - qualche figuretta nota (gli attori sperimentati nel genere), qualcuno dei miti abusati del genere (specie il più gratificante, quello dell'autodistruzione), un po' di romanticismo del crimine. Il subplot (l'intreccio secondario), la storia triste e tragica del cassiere Elisha Cook e della moglie Marie Windsor, fornisce tutto questo. Non è un caso che le poche inquadrature espressionistiche, in un ambito fotografico media-
mente realistico (la fonte di illuminazione spesso mostrata in campo contribuisce anzi a dare la luce dell'attualità e dell'autentico anche agli interni, tutti in studio), siano dedicate proprio alle scene in casa dell'infelice coppia, con la bionda macchia luminosa della donna indolente tra le ombre della camera e il bianco sfatto delle lenzuola, e dalla radio un improvviso sottofondo di vizioso bebop (il resto dell'accompagnamento musicale è molto più duro e ritmato), fino alla caduta finale di Cook che muore finendo per terra col volto in primissimo piano, addosso alla gabbietta del canarino (piccole banali simbologie, a volte autoironiche per l'evidenza dello stereotipo estremizzato, che irritavano a ragione Godard, e mandano tuttora in visibilio l'esegesi anglosassone, in un seguito di «simbol of...»). In effetti, la loro vicenda è un momento di scollamento, con l'irrompere del barocco e l'attesa incrinatura del congegno, «piacevole» nella fluidità globale.
Non solo. Il titolo del film, un film per tre quarti occupato dai preparativi e dallo svolgimento di una rapina, segnala come apparente oggetto proprio la «storia secondaria», il suo effetto - la strage, «the killing» -; il quale effetto però quasi non si vede(…). La scena della strage è brevissima, un'istantanea violentissima sparatoria, lampeggiano due inquadrature, poi il movimento di macchina sui corpi accatastati. Il titolo indica quindi ciò che in pratica appena si intravvede. E se anche la storia del cassiere provoca autentico interesse dando sfogo al «dolore», nascosto nella perfezione di ogni genere, anche se per Clay e per noi l'apparizione dell'ometto ferito che barcollante attraversa la strada è «fantastica» (…) quello è in realtà il suo ruolo preciso, è lì per questo e basta, «funzione» che interviene al momento stabilito. Trasparente il modo in cui K. ci indica che tutto è già compreso nel meccanismo, anche ciò che sembra corroderlo. Quando, con cenno autobiografico, fa andare Hayden in un club scacchistico a ingaggiare il lottatore (Kola Kwariani, un giocatore del Village, amico di K.), un vecchio amico e i due siedono di fronte a una scacchiera, allora, il
calvo e massiccio immigrato esce nella frase di massima gratificazione romantica in tutto il film («Gangster e artista hanno una cosa in comune. Ammirati e idolatrati da tutti quando le cose vanno bene, sono i primi che poi il mondo vuoi distruggere, l'uno per paura, l'altro per invidia»; frase non ironica anche se potrebbe essere l'ironica enunciazione della morale del film «nero», il cui amato eroe lo spettatore vuoi veder cadere). La dice e i due sono di fronte alla scacchiera in una stanza dove si gioca a scacchi.
Tutto rientra nel gioco che contiene tutte le passioni ma si manifesta nella obbligata rigidità delle traiettorie. E ogni gioco ha le sue traiettorie, diverse ma obbligate, ogni film ha i suoi carrelli e i suoi movimenti. Potrà essere difficile trovare il nascosto itinerario complessivo dell'opera kubrickiana, ma il movimento interno dei singoli film è sempre rintracciabile e definito, come l'esattezza dei suoi movimenti di macchina. Ci si potrà chiedere perché il meccanismo kubrickiano debba prevedere lo scacco, che qui sembra richiesto dalla morale anni '50 del genere, ma che diverrà regola. Non direi che sia il piccolo particolare non curato per non «offendere gli dei», né un gusto puramente nullista o tetramente o beffardamente ironico per il fallimento che mina gli accurati congegni umani o meccanici (in questa prospettiva cambia poco). Al contrario, è se mai demiurgica riaffermazione del potere assoluto del regista che può far fallire qualsiasi costruzione (figura precisa di questo potere assoluto è il montaggio che K. compie da solo, ma «ferocemente» contro il materiale da lui stesso girato), se vogliamo è l'ultima parola della ragione che si dice contro la circolare autosoddisfazione del chiuso meccanismo intellettuale. E ancora, più è perfetto il meccanismo e ambizioso, più si dimostrerà inadeguato a comprendere la vita che pure in esso sembrava esaurirsi. Che poi resti nel regista la capacità di costruire - lui sì - un congegno che soddisfi il suo progetto, è un altro discorso. Certo qualcosa della sua disperata utopia, del contrasto violento tra la chiusura del dominio e (gli effetti de) la non-totalità di esso, per quanto nascosto nel regista e nel momento della produzione, si comunica, se le lucide costruzioni ottenute - i film che sembrano poter fare a meno dell'uomo - provocano poi passioni ed emozioni e interesse alla storia e ai personaggi, oltre che ragionamenti. Il trucco c'è. Qui p. es. si vede «il nero» mentre si segue un meccanismo puro che ha ragione man mano di tutti i personaggi; non è presa in giro divertita e ripetuta, ma piuttosto (per questo alcuni critici e lo stesso K. parlano di «cinismo») riproposta cosciente dell'inganno che da sempre ci offrono le apparenze del reale.
Autore critica:Enrico Ghezzi
Fonte critica:Stanley Kubrick, Il Castoro/L’Unità
Data critica:

7/1995

Critica 3:
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