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Vita e niente altro (La) - Vie et rien d'autre (La)

Regia:Bertrand Tavernier
Vietato:No
Video:Vivivideo
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La guerra, La memoria del XX secolo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Jean Cosmos, Bertrand Tavernier
Sceneggiatura:Jean Cosmos, Bertrand Tavernier
Fotografia:Bruno De Keyzer
Musiche:Oswald D'Andrea
Montaggio:Armand Psenny
Scenografia:Guy Claude François
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Sabine Azema (Irene), Maurice Barrier (Mercadot), Jean-Pol Dubois (André), Philippe Noiret (Dellaplane), François Perrot (Perrin), Pascale Vignal (Alice)
Produzione:Hachette Premier, Cie Ab Film, A2 Sofinerge, Investimag, Little Bear Claude Albouze/René Cleitman
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Francia
Anno:1989
Durata:

134'

Trama:

Sulle pianure di Verdun, ancora due anni dopo la fine della prima guerra mondiale, il Maggiore Dellaplane continua nell'arduo, penosissimo compito affidato all'ufficio da lui diretto: quello di identificare non solo i tanti reduci accolti in ospedali ed edifici di fortuna, ma i morti e i dispersi dell'immane massacro. Un giorno, fra i familiari in gramaglie che arrivano da tutte le parti per riconoscere corpi sfigurati e piccoli oggetti personali, capitano sul luogo due donne. Una è Alice, maestra di un non lontano paese, in cerca del fidanzato François, l'altra Irene, ricca, elegante e altezzosa borghese, la cui famiglia (industriali che la guerra ha arricchito) capeggiata da un senatore, insiste perché sia ritrovato il marito di lei, del quale poter essere fieri davanti al Paese.

Critica 1:Nel 1920 una vedova di guerra, alla ricerca del marito disperso nel '18, s'innamora, riamata, del capo dell'Ufficio di ricerca e identificazione dei militari caduti. In un clima di accesa necrofilia, con risvolti di satira antimilitarista e guizzi di follia, è il raro caso di un film pacifista senz'enfasi. Un grande Noiret in un racconto corale.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:“Conosciamo dopo Que la féte commence... la passione di Bertrand Tavernier per la storia. La storia che non è per lui un pretesto di ricostruzione, né una semplice decorazione esterna, ma la materia stessa con cui scolpisce i suoi film, crea i suoi personaggi e dentro la quale trasfonde le sue ossessioni”.
La speciale macchina del tempo di Bertrand Tavernier si è rimessa in moto. Proveniente direttamente dal cupo e affascinante Medioevo de La Passion Béatrice (Quarto Comandamento), ha scelto questa volta, come tempo di atterraggio, gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale.
Esploratore dello spazio-tempo come Herbert George, il protagonista de L'uomo che visse nel futuro di George PaL & H.G. WelLs, Tavernier non resiste più di tanto all'eccitante possibilità di muoversi nella dimensione temporale e se il protagonista di WelLs è tutto proteso verso il futuro egli lo è, con analoga passione, verso il passato. Come ha riassunto Jacques Le Goff, la Storia, il confronto con essa, per Tavernier, lungi dall'essere un divertissement, rappresenta invece uno dei fondamenti del suo fare cinema. Anche La Vita e niente altro, la sua ultima fatica, non rifugge da questa visione che Tavernier ha della Storia. Una Storia che non è (solo) quella che si legge sui libri, ma (anche e soprattutto) la Storia minuta, composta di atti minuti, che si realizza nel quotidiano e che egli non cessa mai di ascoltare e di raccogliere, persino quando si trova sul set a girare, anche dalla gente del posto.
Come è già stato notato Bertrand Tavernier può essere considerato oggi uno dei pochi autori che rie-sca ad affrontare il terreno infido e malfermo del ci-nema politico. Egli non cade nella trappola di un ci-nema ideologico, tenendosi al contempo alla larga dai clichés interpretativi macchiettistici. La sua Sto-ria è intrisa di 'buon senso', inteso come alterità cri-tica, polarità oppositiva, rispetto al senso comune, summa dei più banali comportamenti umani, collet-tivi e individuali. I suoi personaggi, ed in partícolar modo quelli dei film 'storici', non barano, non cerca-no la simpatia e la comunione di intenti con il pubbli-co, essi procedono diritti per la loro strada, compor-tandosi secondo coscienza, secondo il loro innato 'buon senso'. È questo atemporale, astorico 'buon senso' che offre a Tavernier la possibilità di compren-dere, rappresentare e mettere in immagine la Storia, e che gli consente di ricercare la verifica “della con-tinuità delle contraddizioni sociali” insite nella so-cietà di stampo borghese dominata dal capitale, di oggi. L'irresistibile ascesa della borghesia, la 'co-scienza di classe' propria del borghese, rappresen-tano nel particolare gli interessi più vivi del cinema “storico”di Tavernier. I ribelli che adora sono i picco-li e meno piccoli funzionari, dotati di grande abilità nell'uso della parola e delle 'dissezioni verbali', co-me il comandante Dellaplane protagonista di La Vita e niente altro.
Nella rappresentazione del quotidiano in cui sono im-mersi i protagonisti di questo film, Tavernier affronta temi' storici fondamentali; la logica del grande capi-tale al di sopra e al di là di ogni nazionalità, la man-canza di scrupoli in uomini che sul dolore del pros-simo costruiscono le proprie fortune, il montare a soli due anni dalla fine dei conflitto della 'revanche' eco-nomica e politica tedesca. Situazione questa che i giornali del tempo riportavano già con grande eviden-za e lasciava attonito l'uomo medio in Francia, che iniziava a chiedersi se aver vinto la guerra significas-se qualcosa, o meglio a cosa fossero serviti tutti quei morti.
Nel film si incrociano anche due eventi, la ricerca dei dispersi nei campi di battaglia di Verdun e la ricerca, compiuta in soli quattro giorni, del milite ignoto fran-cese. L'ironia di Dellaplane - Tavernier rappresenta il collante di queste vicende, che convergono tutte insieme nella piana di Verdun. La maggior parte del-le opere di Tavernier si ispira ad un testo, un roman-zo o anche e solo ad un 'poeta', che sia Hugo, Pré-vert o Zola poco importa; questa volta egli si è ispi-rato ad un verso di Paul Eluard, “l'amour et rien d'autre”. Il titolo La Vie et rien d'autre già contiene in sé la morale che
sovraintende al film e al personaggio di Dellaplane, entrambi indirizzati verso il rifiuto di un pessimismo cronico e il diritto di rivendicare comunque e dovunque le proprie idee e difendere i valori di cui si è portatori.
Fedele ad una tradizione che si rinnova a partire dalla sua opera prima, L'orologiaio di Saint Paul del 1974, anche in La Vita e niente altro lo stile di Tavernier ri-mane inalterato, si riconosce ad occhi chiusi, dal pro-fumo che emanano le sue inconfondibili inquadratu-re. Per la verità una novità si rileva, ed è quella che per la prima volta un suo personaggio, pur disincantato come i suoi predecessori, pronunci per la prima volta le parole 'ti amo'. Tavernier prima d'ora non aveva mai affrontato in modo così diretto una storia d'amore; il film, oltre ad avere il solito intreccio tra varie storie e piani di lettura, è allo stesso tempo un film sulla coppia, problematica che se era apparsa precedentemente, lo era in modo frammentario, frantumato.
Tavernier ha sempre percorso la strada di un cinema non elitario, destinato ad un pubblico, ad un mercato che è quello della produzione media, necessaria quanto e forse più del cosiddetto cinema d'autore. Il suo cinema è caratterizzato da una narrazione fluida che però non toglie allo spettatore il gusto di reinventarsi il 'non detto', gli spazi che volutamente in ogni sua opera Tavernier lascia nell'ombra, che si possono facilmente (forse) immaginare, ma che lui comunque non disvela. Se agli inizi della sua carriera di regista veniva spesso confrontato con François Truffaut, per via di questa supposta sua medietà rispetto alla autorialità di Truffaut, oggi a distanza di anni la differenza con Truffaut si situa sempre più su diverse coordinate; non più la autorialità contro la medietà commerciale, ma l'omogeneità contro l'eterogeneità, intesa come la libertà di poter affrontare 'generi' diversi tra loro. È Tavernier stesso a puntualizzare come nella storia del cinema francese si possano individuare due tradizioni; quella legata a René Clair, del cinema di sentimenti, che nell' éducation sentimentale trova la sua omogeneità, ed al quale apparteneva anche Truffaut, e quella più vicina a Renoir, il Renoir della libertà, che poteva e voleva girare film così diversi tra loro, passare da un vaudeville a un adattamento di Zola per arrivare a La grande illusion; a questa tradizione si sente fortemente legato Tavernier.
Assistente di Jean-Pierre Melville, il tecnico, l'esperto della tecnica cinematografica, Tavernier se da un lato ha sofferto il modo duro e conflittuale di stare sul set del suo primo maestro, dall'altro ha recepito la precisione sintattica propria del linguaggio cinematografico melvilliano. Tavernier fa parte di quella ridotta schiera di cineasti che creano il ritmo cinematografico non attraverso il montaggio, l'incontro-scontro tra più inquadrature, ma attraverso il montaggio interno all'inquadratura, caratteristica peculiare ad esempio di Visconti. Egli combatte contro la convinzione radicata, in special modo nei suoi più giovani colleghi, “che per dare ritmo bastino piani di dieci secondi e (invece) non si rendono conto che il risultato sarà così un film che assomiglia più a un videoclip o ad uno spot pubblicitario”. Da tutto ciò deriva una importante caratteristica tecnico-formale del cinema di Tavernier; se Jean-Luc Godard ha potuto affermare che “la carrellata è un affare morale” Tavernier con il suo cinema mostra che lo sono allo stesso modo anche il primo piano e la panoramica. Le inquadrature nel suo cinema hanno sempre una ferrea giustificazione, rappresentano un momento essenziale della narrazione; la sintassi cinematografica non viene mai disattesa. Un rigore, il suo, che lo accosta a John Ford, regista che poteva permettersi di inquadrare il suo protagonista in P.P. piano solo dopo ottanta minuti e solo perché Iì e soltanto lì era giustificato, cosa che Tavernier ha ripreso per questo film, dove il primo P.P. piano di Noiret arriva solo nella scena della fabbrica-hotel, a molti minuti daIl'inizio.
L'affetto che Tavernier dimostra per Ford ed il cinema americano in generale offre due spunti di riflessione. Il primo riporta obbligatoriamente a Melville del quale Tavernier aveva una grande stima al punto da definirlo come l''inventore della Nouvelle Vague', in una intervista da lui redatta per i “Cahiers du Cinéma” nell'ottobre del 1961 - nel senso che l'amore per quel cinema americano gli era stato instillato in buona parte proprio da Melville. L'altra osservazione conduce alla importanza che ha per il cinema di Tavernier lo scenario, lo sfondo. I suoi film si rifanno allo stretto rapporto che esiste tra i film ed i personaggi di Ford e lo scenario così profondamente americano in cui sono compenetrati, al Losey che prolunga i sentimenti dei suoi personaggi attraverso appunto lo scenario. È lo scenario il luogo dove nasce il ritmo dei film di Tavernier, il luogo all'interno del quale le sue creature interagiscono tra di loro e risolvono i loro problemi di 'appartenenza'. Riprendendo 'largo', con un perfetto dosaggio di totali e piani a figura intera, spesso molto lunghi, Tavernier fornisce agli attori un enorme palcoscenico, che permette loro di “potersi muovere, di poter traversare le scene e parlare a trenta metri da qualcuno”, di ritrovare insomma uno spazio vero per recitare e per sostenere la struttura corale del film nel quale, grazie al 'respiro' delle scene, si intrecciano più azioni nello stesso tempo, con dialoghi che si attraversano e si accavallano; il montaggio interno all'inquadratura appunto.
Ne La Vita e niente altro tutto ciò viene elevato alla massima potenza. Gli esterni, così importanti nel cinema di Tavernier, diventano in alcuni momenti gli assoluti protagonisti, luoghi dove piccoli uomini impazziti vagano alla ricerca di qualcosa che comunque si è già perduto: la dignità della morte per centinaia di migliaia di persone. Anche in questo film Tavernier adotta l'accorgimento che gli permette di “compenetrare la visione e la finzione, trasformando la prima da passiva in attiva e la seconda da artificio dichiarato a simulacro di verità”, indugiando con le inquadrature, prima di iniziare qualsiasi movimento, per un tempo sufficientemente lungo tale da permettere agli occhi dello spettatore di familiarizzare con lo scenario e ciò che vi è contenuto.
Da questi assunti, l'interesse per la Storia da parte di Tavernier, la continuità tecnico - formale della sua produzione, a cui va ricondotto La Vita e niente altro, si giunge alla domanda del perché Tavernier abbia avuto tanto interesse per un periodo storico da tempo così 'demodé'. In un tempo cinematografico in cui l'unica guerra che 'tira' è quella vista e rivista del Vietnam, Tavernier si dedica con La Vita e niente altro ad una guerra quasi dimenticata, che non si vede ma si percepisce in tutta la crudezza dei suoi effetti, e ripropone un dramma che per diversi anni ha caratterizzato molte nazioni europee, quello dei dispersi. 350.000 per la sola Francia, un numero enorme, quasi incredibile pensato oggi, questo è il dato che ha interessato tanto Tavernier, al punto da convincerlo a costruirgli un film attorno immaginando “la storia di una donna che ricerca suo marito disperso, che va dall'ospedale militare al campo di battaglia. Qualche cosa come Le Anime morte, con per contrappunto la storia dei milite ignoto”. E proprio la vicenda del milite ignoto fornisce a Tavernier lo spunto critico - inscenato con sottile e sprezzante ironia che spesso strappa il sorriso - nei confronti di coloro i quali, in ogni tempo, combattono le guerre sulle spalle altrui; qui gli alti vertici militari, ed i politici francesi (tra i tanti). Questi ultimi, legati al grande capitalismo industriale europeo, per un tacito accordo di reciprocità con i tedeschi, non permettevano che le fabbriche nemiche venissero bombardate e operavano affinché i carichi sequestrati sulle navi nemiche venissero restituiti con tante scuse. Ma vi sono anche altre figure che cadono sotto la scure di Tavernier; gli sciacalli, che a vario titolo promettevano di ritrovare alla povera gente i propri congiunti, e gli scultori, che furono tra i maggiori beneficiati dal bagno di sangue della guerra, sepolti da richieste di monumenti ai caduti da ogni paesotto e contrada, che si contendevano senza scrupoli.
Il lavoro di ricerca storica compiuto da Tavernier e Jean Cosmos è stato molto accurato, ed è proprio a partire dai materiali raccolti da Cosmos che si è delineato il personaggio del comandante Dellaplane, ricavato dalla figura di un militare che dirigeva un ufficio incaricato di identificare e contabilizzare i cadaveri recuperati. La costruzione del film parte da due punti basilari; il primo è appunto la figura del protagonista, il secondo l'opera di ricostruzione scenografica nel set, delle architetture militari della Armata dei '14-'18, e la realizzazione dell'idea che i luoghi traducessero quell'epoca in modo non convenzionale, né naturalistico, né realistico, che tutto si svolgesse in luoghi la cui utilizzazione primaria fosse sviata. Da qui l'idea che gli uffici fossero sistemati in un teatro, l'hotel in una fabbrica, che la Chiesa alloggi in un night club, e che un campo di battaglia possa divenire un luogo di pic-nic.
La elaborazione del film è proseguita attraverso numerose versioni della sceneggiatura, aperta da Tavernier a contributi sempre nuovi, ultimi dei quali ma non per questo meno importanti quelli degli abitanti del circondario di Verdun. L'idea delle foto dei dispersi affisse nel caffè di Valentine, una sorta di Chi l'ha visto? ante litteram, è per esempio del sindaco di Verdun, che aveva raccontato a Tavernier di come nel caffè di sua madre la gente ricercava i propri congiunti, lasciando una loro foto nella speranza che qualcuno li riconoscesse. Dove Tavernier non ha mai voluto accettare consigli e contributi, è nella sua convinzione di oscurare l'intrigo, di spezzarlo e non renderlo troppo serrato; in una delle ultime versioni della sceneggiatura, Cosmos gli aveva proposto la scoperta da parte di lrène dell'anello del marito e con esso del suo rapporto adulterino con Alice, ma Tavernier si è opposto decisamente: “questo non lo si vedrà mai, non si farà che menzionarlo allusivamente nel dialogo”.
L'importanza per Tavernier di lavorare in un set senza tensioni e dove regni una intesa profonda, si vede in modo chiaro nella qualità della recitazione degli attori. Noiret, ormai un habitué dei suoi set, è stato coinvolto da Tavernier in modo così totale in questo film, che ha dato fondo a tutti i suoi ricordi d'infanzia, di quando il padre gli raccontava dell'inferno di Verdun. Egli utilizza nel film accessori che gli appartengono; il bastone, un cimelio di un combattente dell'Isère e le decorazioni che erano di suo padre. Un Noiret che, a partire dall'Orologiaio di Saint Paul, si trova spesso ritagliati indosso da Tavernier i panni del borghese piccolo (o meno che sia), tradito e traditore, con una vita sentimentale che si può definire fallimentare. Sabine Azéma è stata voluta a tutti i costi da Tavernier, il quale aveva subito forti pressioni affinché il suo ruolo fosse affidato a Catherine Deneuve, ed il risultato di questa sua scelta a noi pare nettamente positivo. Dai suoi attori egli richiede una profonda onestà nei confronti del personaggio che interpretano. L'immagine dell'attore non deve mai soffocare quella del personaggio, e la Azéma in questo è riuscita perfettamente; per usare una espressione cara a Tavernier, lei “ha imbrogliato le carte con una autentica onestà”, ha recitato a tratti in maniera molto secca, dura, nella misura in cui non ha mai cercato di migliorare il personaggio. Anche Noiret non cerca la facile seduzione dello spettatore, è un attore che si può anche filmare di schiena, e parlando di lui Tavernier, riandando al suo passato di critico e cinéphile, lo dipinge con una frase di Jean Gabin “Esistono due specie di attori, i prolissi e i Pellerossa: sii sempre un Pellerossa”. Per noi, anche Tavernier è un Pellerossa.
Autore critica:Fabrizio Liberti
Fonte critica:Cineforum n. 294
Data critica:

5/1990

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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