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Perceval - Perceval le Gallois

Regia:Eric Rohmer
Vietato:No
Video:Biblioteca Decentrata Rosta Nuova, visionabile solo in sede
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo "Perceval ou Le Conte de Graal" di Chrétien de Troyes
Sceneggiatura:Eric Rohmer
Fotografia:Nestor Almendros
Musiche:Guy Robert; musiche del XII e XIII secolo
Montaggio:Cecile Decugis
Scenografia:Jean-Pierre Kohut-Svelko
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Fabrice Luchini (Perceval), Andre' Dussollier (Gauvain), Marc Eyraud (Re Arthur), Marie-Christine Barrault (Regina Ginevra)
Produzione:Barbet Schroeder - Les Films du Losange Fr. 3 - Ard Ssr - Rai Radiotelevisione Italiana
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Francia
Anno:1978
Durata:

138’

Trama:

Perceval incontra in una foresta un gruppo di cavalieri splendidamente armati e ne resta affascinato. Orfano di un cavaliere di razza celtica, poco più che adolescente, natura ingenua ed integra, egli è stato allevato dalla madre lontano da ogni idea di imprese cavalleresche. Ma egli desidera recarsi alla corte del leggendario Re Artù, volendo a lui chiedere l'investitura. Sua madre lo lascia partire con dolore, dopo avergli vivamente raccomandato di proteggere vedove e fanciulli, di non reclamare dalle donne nulla più che un bacio ed un anello, di ascoltare sempre i consigli di uomini saggi e dabbene e, allo scopo di evitare risposte pericolose, di chiedere agli altri solo il minimo necessario. Perceval parte e la madre sviene davanti alle porte della città. Comincia così la serie delle avventure del "fanciullo selvaggio", che pare assistito da singolare fortuna. In una tenda sperduta, bacia una fanciulla, ne prende l'anello ed il cibo del di lei innamorato - l'Orgoglioso della Landa - ; proprio davanti al castello di Re Artù, sfida e disarciona il temuto Cavaliere Vermiglio, ne prende la lancia e si fa investire cavaliere, giurando a se stesso di vendicare una dolce ancella che, solo per avergli sorriso, viene schiaffeggiata dall'invidioso Siniscalco Kèu. Si ferma, quindi, nella città di Beaurepaire, dove la dama Biancofiore lo accoglie e rifocilla: Perceval sfida e batte in torneo il malvagio Re Aguingueron, che aveva cinto di assedio le mura, nonchè un altro Cavaliere (Clamadeu). Altro importante incontro quello con il Re Pescatore, che lo accoglie a palazzo: Perceval, tra un banchetto e un torneo, assiste ad una insolita processione, durante la quale dei paggi recano sia una mirabile lancia da cui cola sangue, sia la sacra coppa del Graal. Ma il giovane cavaliere, timoroso di far domande, non afferra il misterioso significato di tale incontro e riparte verso nuove gesta. Incontra ancora così l'Orgoglioso della Landa, che batte (ma non uccide, il che avviene del pari con ogni altro avversario) per inviarlo invece alla Corte di Re Artù a testimonianza di sè e quasi a risarcire la gaia pulzella ingiustamente schiaffeggiata. A questo punto si incrociano ed alternano con le imprese di Perceval le gesta di Gauvain, altro e più adulto Cavaliere, anch'esso impegnato in tornei cortesi ed in servizio di pietà e lealtà nella città di Escavalon. Dopo cinque anni di continuo errare e di perdita della memoria Perceval incontra ancora il Re e, finalmente, nel giorno del Venerdì santo, un gruppo di penitenti che lo invita a deporre le armi, nonchè un eremita, al quale chiede di confessarsi. Gli viene detto che la madre è morta, perchè mai più Perceval è tornato a lei, che il Re Pescatore e l'eremita che gli parla sono ambedue suoi zii ma, soprattutto, che egli male ha fatto a non porre nel momento giusto l'unica essenziale domanda, quando vide con i suoi propri occhi la Sacra Lancia ed il Graal: la coppa in cui Giuseppe d'Arimatea raccolse il sangue di Cristo e nella quale sono conservate le ostie, unico alimento del morente Re Pescatore. Il dolore ed il pentimento di Perceval sono così sinceri, che egli, rivivendo la Passione e Morte del Signore, si identifica con l'Uomo crocefisso. Fatta così la scoperta della sofferenza, non resta a Perceval che partire per la sua più ardua ed affascinante impresa, questa volta non più cavalleresca, ma spirituale: il ritrovamento e l'adorazione del Graal, di cui la leggenda vuole che egli sia diventato il custode supremo.

Critica 1:Tratto da Perceval ou le Conte de Graal di Chrétien de Troyes (1137-90), il primo romanziere d'Europa. Come l'ingenuo Perceval (F. Luchini) abbandonò la madre per raggiungere la corte di re Artù (M. Eyraud), diventare cavaliere e andare alla ricerca del Graal. I suoi incontri e gli insegnamenti che ne trasse. E. Rohmer racconta soltanto una parte dei 9234 ottonari del poema romanzesco, ma ne mantiene lo sdoppiamento in due storie: quella di Perceval viene abbandonata per seguire le avventure di Gauvain-Galvano (A. Dussolier) con cui si passa dal mondo della cavalleria e della courtoisie a quello del lavoro operaio, mercantile, borghese. Con l'episodio della Passione si torna a Perceval e su di lui si conclude. Film unico nella storia del cinema che lascia lo spettatore ammirato e freddo, ma non annoiato. Il suo fascino nasce specialmente dall'aspetto figurativo, dall'organizzazione dello spazio che intende reinventare quello delle miniature e del teatro medievale, affidata alla meravigliosa fotografia (senza ombre) di Nestor Almendros. Il regista ha semitradotto il francese arcaico di Chrétien de Troyes, mantenendo gli ottonari e il procedimento del discorso indiretto: i personaggi parlano di sé stessi in terza persona. Una parte dei versi è cantata o salmodiata su musiche medievali, rielaborate da Guy Robert, con cori aggiunti da Rohmer. Luchini e C. recitano una recitazione, uno dei tanti modi di straniamento cui si ricorre per inserire autentici costumi, corazze, armi e il loro peso in uno spazio stilizzato e allusivo. Il risultato è di gusto rigoroso e di squisita raffinatezza, ma, insieme, di trasparente semplicità come nei racconti infantili. Distribuito in Italia nel 1984 con sottotitoli. Un film per "felici pochi".
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Persino Dante - nell'episodio di Paolo e Francesca - indugia sul valore mitico e fascinatorio dei personaggi inventati dalla cosidetta «letteratura cavalleresca» fiorita in Francia attorno al XII e XIII secolo: la passione infelice che porta alla morte le due anime viene accesa, infatti, proprio dalla lettura di una rielaborazione in prosa del «Lancillotto del lago» del XII sec. e ben lo dice il famoso verso «Noi leggevamo un giorno per diletto /di Lancillotto come amor lo strinse».
Così come i due personaggi danteschi eleggono a lettura prediletta le avventure del ciclo bretone, allo stesso modo Eric Rohmer vi attinge per il suo film Perceval Le Gallois, portato a termine nel 1978 e distribuito solo ora e marginalmente in Italia. In contrapposizione alla baldanza crudele, arcaica e guerresca del ciclo carolingio, i romanzi e i poemi che si ispirano alla «materia di Bretagna» raccontano d'amor carnale e cortese, della gloria perfetta della corte di re Artù, della valenza dei suoi cavalieri. Il Perceval del regista francese è tratto dall'omonimo romanzo incompiuto elaborato, tra il 1180 e il 1190, da Chrétien de Troyes, il più grande scrittore medievale prima di Dante, la cui ricca produzione comprende, oltre ad opere minori, ben cinque componimenti cavallereschi di «materia di Bretagna»: Erec e Enide, Clíges, Lancillotto e il cavaliere della carretta, Ivano o il cavaliere del leone. Ma Perceval, rispetto ai modelli riconosciuti del «genere narrativo» è già un eccentrico, un personaggio in evoluzione tra un punto e l'altro del tempo medievale. Vedremo poi come si mostra tale eccentricità, per il momento quello che ci interessa è tracciare un rapido prof ilo delle origini del genere letterario cui fa riferimento il film di Rohmer. È facile, comunque, identificare i soggetti sociali che furono all'origine dell'ideologia dei romanzo cavalleresco: vessati dall'alta nobiltà, minacciati dalla centralizzazione delle monarchie nazionali e dall'avanzare dell'ordine economico borghese, i giovani cavalieri, nobili senza terra, scelgono di rappresentarsi attraverso la figura mitica della 'quéte', l'avventura come tragitto ideale costellato di dure prove ed eventi stregoneschi da sconfiggere, percorso insicuro ed iniziatico che si svolge fuori del lusso armonioso e protettivo di quel luogo di gioia che è la corte di Artù. Ma, rivolgendosi ad un passato ormai mitico, «l'eroe risulta più in attesa di un avvento (il ritorno del messia) che di un evento». È a questo punto dell'evoluzione del «genere», che il ciclo bretone assume colorazioni più decisamente mistiche, complicandosi nel tema della ricerca del Graal, la coppa della vita eterna in cui si diceva che Giuseppe di Arimatea avesse raccolto il sangue di Cristo. Perceval, come personaggio, si inserisce a questo punto nella materia espressiva del ciclo cavalleresco: è lui il ‘puro folle', il ragazzo che parte dall'ignoranza e arriva alla ‘vera conoscenza', che attraversa le tappe dell'amore cortese e dell'apprendistato di cavaliere, incrociando la propria strada con quella sfuggente e sacrale del Graal, al cui mistero religioso finisce per votarsi interamente. Non a caso - trovandosi nella necessità di immaginare il finale che Chrétien de Troyes non aveva fatto in tempo a scrivere - Eric Rohmer fa rivivere a Perceval una Via Crucis soffertissima, solo al termine della quale il cavaliere, solitario e ancora pervaso dalla colpa, potrà riprendere la strada dell'inquieto vagare.
Girato interamente in studio, senza vento e senza neppure l'alito naturale degli esterni cui è abituato il cinema di Rohmer («Mi interessava fare un film in cui mancassero tutti gli elementi a cui, in genere, mi appoggio, cioè la realtà in ciò che ha di più aleatorio. Per esempio le intemperie e il vento. La metereologia mi ha sempre molto interessato.»), il Perceval è, prima di tutto, una rivisitazione della parola, come sempre nel cinema di Eric Rohmer, nonostante le apparenze realiste e il riferimento esplicito all'idea baziniana di «trasparenza» nell'uso del décor, possano, talvolta, far dimenticare l'impiego assolutamente teatrale e distanziato dei dialoghi. Il «teatro della parola», del resto, è da sempre una delle figure chiave del cinema del regista francese, la cui persistenza è segnalata proprio, per contrasto, dall'apparente casualità della ripresa in ‘plein air'. È il caso dei film che appartengono alla serie dei «Contes moraux» o a quella delle «Comedies et proverbes»; non è il caso, invece, del Perceval, concepito interamente ed esplicitamente come macchina teatrale. (…)
Il progetto di Rohmer è dichiarato e lascia sorpresi: «Rivelare il medioevo nella sua infinita dolcezza». Ma come? Ma non è, quella, un'epoca di guerre, malattie e miseria, pervasa di misticismo masochista e tentazioni esoteriche, irrimediabilmente chiusa in se stessa e priva di spiragli su un futuro più brillante? Il medioevo e il mito della cavalleria non si riconoscono piuttosto in quell'atmosfera sanguinosa e oscura ben simbolizzata dalle armature vuote e dai fiotti di sangue del precedente, raggelato, Lancelot du lac di Robert Bresson? E l'amor cortese non è forse quel deserto del sentimento e dei sensi di cui Ginevra, interprete dello stesso film, accusa Lancillotto? E ancora, non sono forse più vicine alla ‘verità' dell'epoca le magie fiammeggianti e le corazze che brillano al fuoco di Excalibur di John Boorman o il fumo e la nebbia che escono dalle bocche dei maghi e pervadono la pianura, confondendo eroi e nemici? Qual è la dolcezza di cui parla Rohmer, se il primo atto di Perceval, appena sfuggito alla protezione materna, è quello di uccidere il Cavaliere Vermiglio per impadronirsi della sua armatura e senza nessun altro motivo? La scelta di Rohmer di conservare al film l'eleganza di un romanzo per castellane asseconda, anche, l'iconografia medievale, dove «si vedono persone che tagliano teste in modo estremamente elegante, mentre colui al quale la testa viene tagliata non ha affatto l'aria di soffrire». Una commistione, insomma, di raffinatezza e violenza, che è sottolineata, nel film, dalla rarefazione dell'insieme. Ma al duello ‘leggero ed elegante', agli abiti di colore sottile come le persone, all'astrazione del décor, si contrappone un'ossessione del dettaglio che ricorda la precisione elencativa della 'descriptio': le armature e le spade, ad esempio, sono realmente pesanti, conformi all'originale, difficili da portare e maneggiare. Un particolare di regia, questo, che tende a ristabilire un possibile equilibrio tra la stilizzazione estrema della materia dei film, la sua consumazione e rarefazione e l'affiorare della concretezza come movimento fondamentale dell'immaginario arcaico. Dove ci sembra che Rohmer abbia veramente colto nel segno è proprio nella scelta dell'interprete del personaggio di Perceval, il minuto e stupefatto Fabrice Lucchini, attore dal volto sfuggente, molto criticato da chi ha in mente una iconografia completamente diversa del cavaliere medievale. Nel romanzo, il protagonista è descritto come il 'valet sauvage', completamente ignaro delle regole della cavalleria e del mondo, un 'nice' ingenuo animato solamente dalla propria passione e lasciato per anni all'oscuro di tutto da una madre troppo protettiva, prima di essere scaraventato in un mondo che lo affascina, ma di cui non conosce le regole. Attonito, 'puro folle' come viene più volte definito, con atteggiamenti che lo stesso Rohmer definisce keatoniani, Perceval parte alla scoperta della realtà e delle sue leggi, forte degli insegnamenti elementari fornitigli dalla genitrice all'inizio del racconto. E prende tutto alla lettera, come chi non ha ancora scoperto il grado secondo della parola e degli avvertimenti. Lo schema adottato dal romanzo è quello del racconto di noviziato e consigli e la faccia oblunga, lo sguardo vuoto, i tratti sfuggenti, il corpo sottile di Lucchini sembrano dare sostanza a questo medioevo gentile e un po' stereotipato, alla scansione precisa dei suoi valori semplici, alla disposizione fatata dello spazio. Forse è più uno sciocco che un ingenuo - come sottolinea Le Goff, in polemica con il regista -: sciocco perché scambia il significante per il senso, prende tutto alla lettera, si lascia sfuggire la magia dei Graal per eccesso di discrezione e non capisce che la sua vera colpa è la morte della madre. Ma, in realtà, la sua stupidità si avvicina di più allo stupore, il suo modo di conoscere ci restituisce - in un corpo e in un volto - la concretezza che ancora, nel mondo medievale, ingombrava la parola e il discorso. (…)
La semplicità fatata del paesaggio e del décor, la minuta grazia dei personaggi e dei gesti, l'elementarietà della parola e della lingua (nonostante l'apparente difficoltà), la dialettica tra straniamento e fascinazione, trasportano Perceval ai confini con quella che potremmo definire l'atmosfera di una rappresentazione teatrale popolare o infantile. E, del resto, non manca nel film l'apparire sconvolgente di un cartoon vero e proprio per narrare l'episodio dell'oca ferita, mentre gli ‘effetti speciali' sono di un primitivismo che afferra e sconcerta assieme: evidenti, sottolineati, ingenui come la coppa di Transflex illuminata (il modello sono le spade-laser di Guerre stellari) che simboleggia il Graal e attraversa la scena nel silenzio riflettendosi solo sul volto della fanciulla.
L'insieme di queste scelte antinaturaliste, sia in senso narrativo che per quanto concerne l'epicità dell'interpretazione da parte degli attori (e di Perceval in particolare) - la teatralità, insomma, del film di Rohmer - non riguardano unicamente una supposta ricerca sulla visione e sulla concezione medievale del mondo. Rohmer lo sottolinea con chiarezza: «Se non ho voluto fare una traduzione in senso romanzesco, non è perché l'astrazione sia più medievale, ma perché questo corrisponde ad una idea della messa in scena cinematografica che mi interessa molto e che ho imparato da Renoir... Film come Le déjeuner sur I'herbe sono opere in cui gli attori ‘fanno finta', fingono, non sono mai interpreti al primo grado». E la lotta sottile e sempre presente contro la verosimiglianza della rappresentazione incarnata dal cinema di Rohmer, è ben servita, nel caso del Perceval anche dall'accettazione della regola (introdotta per la prima volta proprio dai romanzi di Chrétien de Troyes) di quell'espediente estremamente moderno che è I'«entrelacement». Cosa significa? Il «Perceval» della fine del XII sec., narra parallelamente di due personaggi, Perceval e Gauvin (i due volti della cavalleria) e abbandona con disinvoltura inedita per l'epoca il primo personaggio per un lunghissimo lasso di tempo, semplicemente adottando la formula: «Seguiamo Galvano e lasciamo Perceval». Una vera e propria rivoluzione in campo narrativo, pare. Rohmer segue nel film lo stesso andamento e abbandona il suo protagonista per uno spazio di vita che corrisponde a cinque anni: un rischio sia per la continuità espressiva che per la possibilità di lettura da parte dello spettatore, ma il gioco è già compreso nell'attitudine antinarrativa che caratterizza il regista.
Autore critica:Piera Detassis
Fonte critica:Cineforum n. 234
Data critica:

5/1984

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Perceval ou Le Conte de Graal
Autore libro:Troyes (de) Chrétien

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