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Pantera rosa (la) - Pink Panther (The)

Regia:Blake Edwards
Vietato:No
Video:Warner Home Video (Gli Scudi)
DVD:
Genere:Commedia
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Blake Edwards, Maurice Richlin
Sceneggiatura:Blake Edwards, Maurice Richlin
Fotografia:Philip H. Lathrop
Musiche:Henry Mancini
Montaggio:Ralph E. Winters
Scenografia:
Costumi:Annalisa Rocca
Effetti:Lee Zavitz
Interpreti:Capucine (Simone Clouseau),Claudia Cardinale (Principessa Dala), Brenda De Banzie (Angela Dunning), Colin Gordon (Tucker), James Lanphier (Saloud), John Le Mesurier (avvocato difensore),Martin Miller (il fotografo), David Niven (Lytton Chrales), Peter Sellers (Isp. Clouseau), Guy Thomajan (Artoff), Michael Trubshawe (romanziere), Robert Wagner (George Lytton)
Produzione:Martin Jurow per Mirisch
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Usa
Anno:1964
Durata:

115'

Trama:

Capostipite della celebre serie "giallo-rosa" di otto film. Il grande Sellers è l'inetto, catastrofico, ma risoluto ispettore Clouseau della polizia francese. Qui deve recuperare un diamante inestimabile (la Pantera Rosa) di proprietà di una principessa.

Critica 1:L'incompetente ispettore della polizia francese Clouseau si mette sulle piste di un famoso ladro di gioielli, chiamato "Il fantasma", che è a caccia del favoloso diamante "Pantera rosa". Molto divertente e brioso, una specie di pochade dei nostri tempi, elegante e spiritosa, con il famoso motivo musicale di Henry Mancini. "Situato... al crocevia di due tradizioni tanto differenti come lo slapstick e la sophisticated comedy... non ne rappresenta un innocuo mélange o una semplice addizione. È un confronto polemico di generi quello che percorre il film... una collisione nel corso della quale il portatore vitale dello slapstick (Clouseau), irrompendo disastrosamente nella scenografia di una commedia sofisticata, ne procura l'affondamento" (R. Vaccino).
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario del cinema, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:The Pink Panther, incontestabilmente, è un piccolo gioiello. «La miglior commedia cinematografica da One Two Three in poi», suggeriva John Cutts, con qualche esagerazione, in «Films and Filming»: «nessun "se", e, o "ma" per questo film». La regia, aggiungeva Claude Miller in «Téléciné», «dispensa la bellezza e l'euforia con l'agilità di cui solo la grande commedia americana possiede il segreto». E certo il talento comico di Sellers è stato raramente così ben guidato, certo Niven offre una prestazione di ammirevole disinvoltura. Altrettanto certamente la sceneggiatura (scritta con Richlin) è ricchissima d'invenzioni, molte delle quali di prima qualità (si pensi, per esempio, allo sketch dello specchio, recitato da due gorilla che si osservano attoniti attraverso una cassaforte a muro svaligiata da lati opposti e desolatamente vuota). Ma è il ritmo stesso del film a mantenersi quasi, sempre vivo, a valorizzare i gag, a non smarrire i tempi comici. Due sequenze, forse, possono darne la misura e riassumerne il fascino e la nettezza di scansione. L'inseguimento notturno tra i ladri (travestiti da gorilla e alla guida di due vetture sportive identiche) e la polizia: un babelico andirivieni attraverso una piazza (solitamente deserta) sotto lo sguardo attentamente confuso d'un ubriaco interdetto, che si rassegna a non poter attraversare la strada e si siede in attesa del crash-down. E quella straordinaria e frenetica scena in camera da letto, sincronizzata alla frazione di secondo, in cui Simone, tornato Clouseau, infila i suoi amanti in ogni angolo possibile e Edwards, dal canto suo, dà prova d'un talento inconsueto nell'uso dello spazio. (...)
The Pink Panther, però, non è una qualsiasi comedy-thriller né si esaurisce in un'operazione divertita di scrittura parodica. Charade di Stanley Donen o Marie Chantal di Claude Chabrol, per prendere due
esempi, non ne sono, come si è detto, i parenti più o meno riusciti: sono semplicemente un'altra cosa. Né il film è riducibile, per quanto il suggerimento sia affascinante, a un pastiche rovesciato di To Catch a Thief. Situato all'incrocio della parodia e della citazione, e al crocevia di due tradizioni tanto differenti come lo slapstick e la sophisticated comedy, The Pink Panther non ne rappresenta un innocuo mélange o una semplice addizione. È un confronto polemico di generi quello che percorre il film, una dura resa dei conti, una collisione nel corso della quale il portatore vitale dello slapstick (Clouseau), irrompendo disastrosamente nella scenografia d'una commedia sofisticata, ne procura l'affondamento.
Breakfast at Tiffany's (senza contare Mister Cory) aveva già cominciato, due anni prima, la critica (lo smascheramento) d'un genere senza poter rintracciare una spinta contraria sufficientemente valida, togliendo credibilità, anzi, all'alternativa sentimentale. The Pink Panther prosegue quel processo: i segni della commedia sofisticata vi divengono tout court la figura medesima dell'opacità dell'esperienza, il luogo canonico del falso e dell'inautentico. Clouseau, cartina di tornasole di un simile décor, vi incarna l'ultima spiaggia della tenerezza, la riduzione ad absurdurn (in un incapace) del conflitto tra il sogno e il mondo. Edwards, dopo averne fatto la prova in Soldier in the Rain, degrada definitivamente i modi narrativi: l'eroe, inferiore a noi per forza e per intelligenza, è quello del modo " ironico ", il portavoce via via lunare, infantile, capriccioso, imperturbabile, testardo, sadico, tenero, delle comiche mute.
La patina stilistica e il clima morale, lo ha ricordato Jacques Bontemps, sono gli stessi già frequentati da Tiffany: un intrigo, deliziosamente dipinto, di relazioni e complicità, un'atmosfera di morbida seduzione, un conversare brioso e pungente, ravvivato dalle coppe di champagne. Ma la grazia della fattura, annotava Claude Miller, «dissimula un'audacia morale abbastanza sbalorditiva (...). I personaggi (...) commettono tante cattive azioni con l'insolente eleganza di una presa in giro d'alta scuola che non si può fare a meno di rammentare Lubitsch». Lubitschiana, ad esempio, è quella scena in camera da letto in cui Simone sbriga con nonchalance, in una girandola di menzogne, i suoi triangoli erotici: una performance da attrice consumata che riduce la commedia (il suo buon gusto, la sua signorilità) al codice frusto della pochade.
La bellezza della forma non è allora che un gioco di maschera, lo splendore della scrittura scenica venendo a travestire la frivolezza insipida di un fondo vuoto. Il riso, improvvisamente, si gela in gola: in quella fastidiosa mancanza di fascino che Cutts rimproverava al film (e che 'è il comfort mancato di uno spettatore che non può mai prendere un piacere totale) riconosciamo l'aspetto wilderiano di Edwards, l'indicazione d'una black comedy involgaritasi.
The Pink Panther non è divertissement: è racconto di fate per adulti, cattiveria allo stato puro. La celebre sequenza in camera da letto (più volte ricordata) sferza l'amore coniugale dedicandogli un capitolo, movimentatissimo ed amaro, di autentica scrittura pornografica. Per chi voglia capire, diceva Anchisi, è la cosa più scopertamente crudele che il regista abbia mai filmato.
Qualche critico (Miller e Bontemps soprattutto) ha avuto il grosso merito di intuire il senso di quello scarto rilevabile tra il fondo e la forma e di quella presa alla lettera della commedia sofisticata che sono poi, in fondo, i tratti più evidenti e leggibili del testo. Nessuno però si è preoccupato di impostare correttamente il problema del rapporto esistente tra lo slapstick (o l'ingenuity, come la definisce Sarris) e la sophisticated comedy. Nessuno, di conseguenza, sembra aver capito qualcosa di Clouseau. In realtà il procedere in parallelo dei due elementi è molto meno pacifico di quel che possa parere a un primo sguardo. Posti a contatto, essi reagiscono con manifestazioni di virulenta intolleranza reciproca, come se, per fare un esempio, Stan Laurel e Oliver Hardy frequentassero ambienti (gli effetti ce li possiamo immaginare) praticati solitamente da personaggi lubitschiani.(…).
Clouseau, che cumula in sé i due comici (sono parole di Sellers), si comporta analogamente: il suo lato hardyano, sentendosi perennemente a disagio, tenta di mimetizzare la propria diversità cercando anzi di imporsi per ben figurare (pensiamo alla sua incredibile megalomania, o alla sua sicurezza mai scossa, immagini fantasmatiche, entrambe, che è solito proporre di sé e a sé). Ma l'aspetto laureliano del suo personaggio provoca involontariamente le più disastrose catastrofi spingendolo a prendere, da deviazionista nato, ogni oggetto e situazione a contrario.
La relazione Lytton-Clouseau contrappone, abbastanza chiaramente, la performance senza sbavature alla più bieca goffaggine, il controllo perfetto del proprio corpo e delle proprie emozioni a una distrazione e incertezza clamorose. Questa goffaggine, di sicuro, infastidisce. Siamo pronti a ridere dei prat-falls di Clouseau tanto quanto, nascostamente, invidiamo la leggerezza di Lytton. Perché si prova sempre un certo dispetto (…) di fronte a ciò che è goffo. Un malessere e un'irritazione che la risata ha l'incarico di spazzar via. Si comprendono, a questo punto, le reazioni immediate di chi scorge in Clouseau una specie di Magoo francese (meno, a dire il vero, quelle di chi lo definisce il classico cocu della pochade). Ma chi ride semplicemente di Clouseau, di un innocuo riso minore, ha probabilmente una gran paura del disadattamento e dell'infantilismo.
Il tema accennato della maîtrise, infatti, ci riporta di colpo alla scena del corpo e delle pulsioni, ad un telaio cinetico e cinestesico turbato. Un corpo, quello clouseauiano, che conosce un uso complicatissimo e manca ràdicalmente di equilibrio. È una questione di vertigine, perché Clouseau cade anche quando si appoggia a un mappamondo. Questo sentimento spaziale ed infantile della caduta vertiginosa («la vertigine è un richiamo brutale alla nostra umana e presente condizione terrestre», Gilbert Durand), essendo contrapposto alla maestria verticale dei suoi avversari, fa di lui un ubriaco sobrio, un adulto mancato, così incerto in ogni cosa, kafkianamente, da possedere veramente solo quel che già tiene in bocca o tra le mani (e forse nemmeno quello). Si badi a come Clouseau, talvolta, sembri possedere la nonchalance di Lytton, la medesima improvvisa e stupefacente leggerezza di Hardy: un effetto da niente, che un inceppamento dell'attenzione precipita a terra.
La doppia natura del personaggio, dunque, è la stessa, riportata in un solo corpo, che divarica la coppia Laurel & Hardy, la stessa che in un primo tempo opponeva Jerry Lewis a Dean Martin e successivamente provocava le smorfie dolorose del solo grande Lewis. Vi ritroviamo il soggetto alle prese con la castrazione, che dalla castrazione minacciata ha riportato una completa incertezza, che vorrebbe padroneggiare un saldo modello paterno e ne resta il semplice sosia parodico. Questa è la schizofrenia di Clouseau, l'interna contraddizione che lo lavora.
Scarto ridicolo dell'edipo, Clouseau ne esibisce i sintomi nel doppio registro d'un corpo claudicante e d'un linguaggio (il suo strepitoso franglais) che disarticola la lingua nelle impulsioni e negli ingorghi. Vivente grafia d'un disadattamento al simbolico, costringe lo spettatore che intende seguirlo a fare leva sulle proprie incertezze, a smetterla coi feticci di un soggetto assoluto. In questo senso Clouseau è il "nostro— stesso sosia parodico: il riso maggiore che lo (ci) circonda contiene la proposta di una distruzione delle belle statuine e l'elogio della debolezza come accettazione gioiosa dell'imperfezione. Poiché questo buffone, umano sino allo strazio, conosce ancora gli slanci improvvisi. A lui, ingenuo sino all'inverosimile (come se la vita non gli avesse nulla insegnato), disperatamente gentile, incapace di ogni minimo calcolo e sospetto, Edwards affida gli ultimi sprazzi di tenerezza smarrita. Clouseau reca, nel luogo teatrale di una recita, l'anarchia dolcissima del vecchio slapstick.
La recita è stata disturbata: il bambino, sovrano nella propria casa, è divenuto intollerabile. Per questo la conclusione agrodolce del processo ne fa, per noi, una vittima rituale, un malinconico pharmacos.
Autore critica:Roberto Vaccino
Fonte critica:Blake Edwards, Il Castoro Cinema
Data critica:



Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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