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In My Country - Country Of My Skull

Regia:John Boorman
Vietato:No
Video:
DVD:Eyescreen
Genere:Drammatico
Tipologia:La memoria del XX secolo, Razzismo e antirazzismo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal libro "Country of my skull: guilt, sorrow and the limits of forgiveness in the South Africa" di Antjie Krog
Sceneggiatura:Ann Peacock
Fotografia:Seamus Deasy
Musiche:Richard Harvey
Montaggio:Ron Davis
Scenografia:Emelia Roux-Weavind, Derek Wallace
Costumi:Jo Katsaras
Effetti:DoubleNegative, Fay McConkey
Interpreti:Samuel Leroy Jackson (Langston Whitfield), Juliette Binoche (Anna Malan), Brendan Gleeson (De Jager), Menzi Ngubane (Dumi Mkhalipi), Nick Boraine (Jack Marlon), Lionel Newton (Edward Morgan), Sam Ngakane (Anderson), Aletta Bezuidenhout (Elsa), Langley Kirkwood (Boetie), Owen Sejake (Reverendo Mondo), Connie Chiume (Sig.Ra Tabata), Seamus Keir (Jonty a 8 anni), Yolanda Methvin (Deborah), Harriet Lenabe (Albertina), Wayne Harrison (Brian), Louw Venter (Alec), Sunu Gonera (Lionel), Sizwe Msutu (Gilbert), Albert Maritz (Contadino), Fana Mokoena (Mandla), Greg Latter (Dreyer), Charley Boorman (Adam Hartley), Andre Jacobs (Giudice), Terry Norton (Lilly), Anthony Fridjohn (Tony Brown)
Produzione:John Boorman, Mike Medavoy, Kieran Corrigan, Lynn Hendee, David Witch per Phoenix Pictures Robert Chartoff Productions, Film Africa, Merlin Films, Studio Eight Productions
Distribuzione:Lucky Red
Origine:Gran Bretagna, Irlanda, Sudafrica
Anno:2003
Durata:

104'

Trama:

Langston Whitfield, un giornalista del Washington Post, viene mandato a seguire le udienze della Commissione per la Verità e la Riconciliazione a carico dei torturatori durante l'Apartheid in Sud Africa. Anna Malan, una poetessa Afrikaans, segue i processi attraverso la radio ed è distrutta dai racconti delle crudeltà e depravazioni da parte dei suoi connazionali. Entrambi rimangono profondamente colpiti dalle testimonianze delle vittime ed entrambi non hanno più un buon rapporto con le rispettive famiglie. Questo li porterà ad avvicinarsi sempre di più l'uno all'altra...

Critica 1:Dieci anni fa, finita in Sud Africa la vergogna dell’apartheid, vi venne istituita una «Commissione per la verità e la Riconciliazione» di fronte alla quale le vittime o i loro parenti, incontrandosi faccia a faccia con i carnefici di ieri, se potevano constatarne il pentimento, concedevano loro una sorta di perdono definito, secondo le tradizioni africane, «ubuntu». Alle udienze presenziò molta stampa, locale e straniera. Tra i suoi rappresentanti, il film di oggi — realizzato da John Boorman, un veterano del cinema inglese — un americano di colore, inviato dal Washington Post (Samuel L. Jackson), e una poetessa «afrikaans», inviata da un’emittente Binoche). I due, sulle prime, si scontrano, anche se la donna, nonostante sia bianca, ha sempre preso le parti dei neri, poi, pur entrambi sposati e con prole, non tarderanno a innamorarsi. Dopo però le audizioni della Commissione, esauriti i loro compiti professionali, dovranno alla fine separarsi. Molti temi, anzi, troppi. Desunti da un libro di una scrittrice «afrikaans», Antjie Krog, e sceneggiati da una sudafricana d’America, Ann Poacock. Gli orrori delle persecuzioni razziali, svelati durante i lavori della Commissione, il rapporto prima ispido poi tenero fra i protagonisti, un inatteso coinvolgimento della famiglia di lei nelle pagine più atroci del passato, il suicidio di un suo fratello pentito, uno scontro con il marito informato del suo adulterio... La regia di Boorman, con l’abituale solito mestiere, ha cercato di reggere le fila di questi intrecci tanto fitti, ma non ha potuto evitare i rischi di un certo patetismo, pur riuscendo, almeno nelle pagine sugli scontri tra vittime e carnefici, con le rievocazioni dei misfatti da cui erano stati preceduti, a dar prova di sentimenti forti; con intenzioni nobili. Seguito con convinzione dagli interpreti, specie i due protagonisti: pur usciti da scuole di recitazione molto distanti.
Autore critica:Gian Luigi Rondi
Fonte criticaIl Tempo
Data critica:

7/5/2004

Critica 2:“Non sapevamo...” tenta di giustificarsi la afrikaner Anna Malan (Juliette Binoche), quando volgono alla fine le udienze della Truth and reconciliation commission (la Trc voluta da Nelson Mandela nel 1995, e presieduta per oltre 2 anni dall'arcivescovo anglicano Desmond Tutu). Di fronte alla giornalista bianca c'è l'afroamericano Langston Whitfield (Samuel L. Jackson). E in quel «non sapevamo» stanno tutto lo stupore e tutta la vergogna di 35 anni di torture e di morte in Sudafrica. D'altra parte, mentre Anna dice quelle parole, sul suo viso passa un'ombra d'angoscia.
Davvero non sapevano, i bianchi “per bene”? E che cosa significa sapere o non sapere, che cosa significa essere o non essere “per bene', in una nazione dominata dall'odio? A questa domanda risponde, almeno in parte, In Mo Country (Country of My Skull, Gran Bretagna e Sudafrica, 2004, 104'). E ben di più avrebbe potuto dire il film di John Boorman, se la sceneggiatura - di Ann Leacock, da un racconto della afrikaner Alfred Krog - non avesse privilegiato la storia sentimentale, e spesso molto patetica, di Anna e di Langston rispetto alle vicende, ben più significative, delle vittime e dei persecutori. In ogni caso, nel film ci sono tutti i luoghi comuni e tutti meccanismi di autogiustificazione di quelli che Albert Camus gia in L’uomo in rivolta (1951) chiamava assassini innocenti. Ossia: degli esseri umani che perseguitano e uccidono altri esseri umani nella convinzione di averne diritto, e anzi d’averne il do-vere, in vista della difesa di Verità, Fede, Civiltà, Storia, Classe, Razza, Nazione, Etnia. In questa ridda di maiuscole, in questo trionfo di assoluti e di buone ragioni, va persa l’umanità dell’altro prima ancora muore l’umanità del persecutore.
È nei momenti legati alla cronaca dolorosa della Trc, che In My Country riesce a illuminare la “logica” degli assassini innocenti, dei torturatori in nome del bene e del giusto. Lo fa per esempio, sull'immagine di quei che resta d'una giovane donna, poco più d'una bambina. Sequestrata dalla polizia, tenuta nu-da di fronte ai torturatori, seviziata e massacrata, ora ne emergono dalla terra e dalla polvere le ossa e la carne rinsecchita. E non è questo che più ci dice dei suoi assassini. Molto più esplicito è un brandello di plastica azzurra che le cinge il bacino: testimonianza spaesante del suo estremo tentativo di coprirsi, di sottrarsi alla vergogna cui i boia l'avevano costretta.
È normale, è mostruosamente normale questa propensione del persecutore alla nudità della vittima, In essa ci sono il segno e lo strumento operativo del disprezzo, del bisogno di degradare per riuscire a uccidere. «Io non ho niente contro i neri», dice il colonnello De Jager (Brendan Gleeson) a Langston. Conviene credergli. Non può avere alcunché contro le sue vittime, il torturatore. Non Io può, perché nemmeno le considera esseri umani. Per lui non sono che incidenti di percorso, cose da usare ed eliminare. Perché lo siano, perché gli riesca di vederle così, gli è necessario degradarle. La tortura, in questo senso, non è un esercizio di sadismo, né un'arma per combattere un nemico, ma una tecnica per disumanizzarlo, e per poterlo uccidere in buona coscienza.
Davanti alla Trc, dunque, questi assassini sono indotti a rinunciare apertamente, esplicitamente alla loro “innocenza”. Quello che li spinge è un calcolo per così dire razionale ed economico: la confessione è ripagata con l'amnistia. Il senso complessivo della riconciliazione non è morale, certo, ma politico e sociale. La vendetta viene sostituita da una ritualità pubblica, da un riconoscimento in pubblico del fatto che qualcuno è stato vittima e qualcun altro è stato carnefice.
D'altra parte, e a causa di questa ritualità, accade che i risentimenti sociali siano attenuati (talvolta - il film lo documenta - vittime e carnefici tornano a guardarsi negli occhi, ognuno vedendo nell'altro un uomo, al di là dell'orrore). E accade anche che un sospetto metta in forse la certezza di chi, per quanto lo riguarda, non è stato persecutore, di chi addirittura senta d'essere stato egli stesso offeso dalla persecuzione, come Anna.
E certo “per bene” ‚ questa afrikaner. E tuttavia la ritualità di confessione e perdono della Trc finisce per metterla di fronte a una domanda radicale, non più solo giuridica né solo politica. Davvero si può non sapere, quando l'odio diventa prassi e ideologia fondante? Davvero ci si può dire innocenti, quando anche gli assassini dichiarano d'esserlo, gli assassini di cui si condividono il mondo, i valori, gli affetti? L'ombra che attraversa lo sguardo di Anna è già una risposta.
Autore critica:Roberto Escobar
Fonte critica:Il Sole-24 Ore
Data critica:

16/5/2004

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Country of my skull: guilt, sorrow and the limits of forgiveness in the South Africa
Autore libro:Antjie Krog

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