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Guerra dei fiori rossi (La) - Kanshangqu henmei

Regia:Zhang Yuan
Vietato:No
Video:
DVD:S. Paolo
Genere:Drammatico
Tipologia:I bambini ci guardano, Infanzia di ogni colore
Eta' consigliata:Scuole elementari
Soggetto: Wang Shuo, Ning Dai, Zhang Yuan
Sceneggiatura: Zhang Yuan, Ning Dai
Fotografia:Yang Ga
Musiche:Carlo Crivelli
Montaggio:Jacopo Quadri
Scenografia:Huo Tingxiao
Costumi:Huang Baorong, Zhao Zhibin, Wang Hao, Zhu Meiling, Zheng Yujuan, Huo Feng
Effetti:
Interpreti:Dong Bowen (Fang Qiangqiang), Ning Yuanyuan (Yang Nanyan), Chen Manyuan (Yang Beiyan), Zhao Rui (Ms. Li), Li Xiaofeng (Ms. Tang), Sun Yujia (Dou), Du Ma (Fa), Liu Runqiu (Pang), Wang Ziye (Mao), Zhang Yanghao (Jin), Kang Jiani (Jia), Zhao Jiaheng (Hai), Liu Lian (Qian), Yao Qing (Ning), Li Huacheng (Long)
Produzione:Marco Muller per Downtown Pictures, Citic Culture And Sports Enterprises Ltd, Century Hero Film Investment Ltd., Beijing Century, Good-Tidings Cultural Development Ltd, In Associazione con Rai Cinema e Istituto Luce
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Cina – Italia
Anno:2006
Durata:

92’

Trama:

Nella Cina pre-rivoluzionaria dell'inizio degli anni '50, il piccolo Qiang viene mandato all'asilo a tempo pieno. A soli quattro anni ha già sviluppato un'indole ribelle e fatica ad abituarsi alla vita in comune con gli altri bambini. Nonostante tutto, però, cerca di fare del suo meglio per ottenere i tanto desiderati fiori rossi che le maestre danno in premio agli alunni più meritevoli, anche se lui fallisce in ogni occasione. Qiang comunque ha ottenuto il rispetto dei suoi compagni ed è riuscito a convincerli che la direttrice è un mostro mangia bambini che deve essere assolutamente catturato, ma quando il piano per prendere prigioniera la donna fallisce, Qiang si ritrova solo e abbandonato...

Critica 1:Si può dialogare con una pellicola? Sì, stando a ciò che scrive Mario Sesti nel libro In quel film c' è un segreto (Feltrinelli): «I film non sono persone, ma per molti proviamo affetto e gratitudine come se lo fossero». Metto questa frase come epigrafe alla recensione di La guerra dei fiori rossi perché è appunto uno di quei casi in cui attraverso le immagini qualcuno ti parla, sollecita memorie, chiede risposte. Non ho mai ho creduto allo slogan «la Cina è vicina», l' ho sempre considerata un mondo a parte; ma la condizione mortificante del piccolo Fang in un collegio della Pechino anni 50 mi pare di averla vissuta io stesso sotto altro cielo. Motivo di più per apprezzare la costanza dell' impegno di Marco Müller, che in qualità di produttore associato si è confermato il paladino della sinologia ecumenica, utilizzando artisti italiani quali il montatore Jacopo Quadri e il musicista Carlo Crivelli. Appena il piccolo non-attore Dong Bowen mi ha folgorato dallo schermo con i suoi grandi occhi sgranati, non ho potuto fare a meno di dirmi: quel bambino sono io, intruppato in un campeggio di balilla alla vigilia della seconda guerra. Tante le differenze: Fang, proiezione autobiografica dello scrittore dissidente Wang Shuo, ha meno di quattro anni, io ne avevo undici. Il piccolo cinese è schiaffato di forza nell' ambiente dell' asilo perché la famiglia non può occuparsene, mentre io mi sottrassi al calore del nido per volare volontario verso l' avventura; e più dura fu la caduta in quanto Fang non ha mai nutrito illusioni del genere. I graduati che ci vessavano nel tentativo di formare un' infanzia militarizzata erano solo stupidamente sadici, mentre le maestre cinesi sanno essere trepide e affettuose. E, infine, ciò che veniva instillato dentro le nostre teste era un' ideologia guerrafondaia e retorica mentre nell' asilo pechinese si cerca di ficcare nelle teste dei bimbi la disciplina e le buone maniere. Però i fischietti, l' accento perentorio degli ordini, i comportamenti imposti sono gli stessi: l' igiene personale, l' orario della cacca, l' obbligo di alzare la mano prima di parlare. E uguali le pubbliche umiliazioni per chi fa la pipì a letto, non impara a spogliarsi e vestirsi da solo, fa dispetti ai compagni e risponde ai superiori. Non a caso la scolaresca a passeggio incrocia un drappello di militari che sembrano dei robot, non a caso l' edificio scolastico è contiguo a un ospedale che si configura come un rifugio. Nel mio campeggio per i meritevoli c' era l' albo d' onore, qui ci sono i fiori rossi: ma il primo fiore, quello assegnato d' ufficio, Fang lo respinge con rabbia per poi rimpiangere di non riuscire ad acchiapparne altri. Riconosco perfettamente la frustrazione di voler essere fra gli eletti e finire invece fra i reprobi, condanna che ti cade addosso per un fatto minimo, un' impuntatura, uno spunto di ribellione; e porta alla scoperta di una vocazione eversiva, per cui Fang inventa che la direttrice è un mostro pronto a mangiare i bambini. Dall' osservanza dell' obbedienza coatta si trascorre alla pratica della disobbedienza, dalla schiera degli omologati saltano fuori i ribelli; e meno male. Nel mettere in scena il suo teorema, Zhang Yuan rivela un dono alla De Sica o alla Comencini di ottenere dai bambini il massimo della naturalezza; ma chi ha fatto un po' di cinema sa quali fatiche comporta la gestione dei minorenni. E qui La guerra dei fiori rossi mi sollecita un altro ricordo, di quando al primo incarico sul set come segretario mi fu affidata una banda di monelli da tenere zitti e buoni. Rimembro ancora ciò che mi fecero passare quei 20 diavoletti e non oso pensare alle fatiche dell' intrepido regista che ne ha dovuti tenere a bada ben 135. Onore al merito; ma onore soprattutto al messaggio che un bel film ci contrabbanda da un Paese dove per grandi e piccini la libertà è ancora di là da venire.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaIl Corriere della Sera
Data critica:

14/01/2007

Critica 2:All'asilo come in un campo di concentramento. Senza sevizie, senza privazioni, anzi, se a tavola si vuole qualcosa in più basta alzare la mano. Tutto però costretto entro un ordine prestabilito e meticoloso, orari, gesti, abitudini, dal momento di andare a dormire a quello di andare di corpo, e anche quello a ora fissa, tutti insieme e tutti in fila accovacciati, i bambini di qua le bambine di là e, se non si esegue, via quei fiori rossi di carta che vengono dati a chi, invece, fa tutto come richiesto: per arrivare a un livellamento totale, a una omologazione di ogni personalità, e fin da adesso che non si sono ancora superati i quattro anni... Ci ha raccontato questo «inferno» sotto l'apparenza dell'idillio, uno dei più significativi registi cinesi di oggi, Zhang Yuan, di cui si è già visto qui da noi un altro piccolo inferno familiare, Diciassette anni, su una ragazza che, uscita di prigione perché, in un incidente, aveva ucciso la sorellastra, torna in permesso in casa dei genitori, accolta come si può facilmente immaginare. La vicenda, qui, è corale, ma per mettere bene in evidenza le condizioni di quel carcere infantile, il regista, rifacendosi a un romanzo autobiografico di Wang Shuo, di cui a Locarno, nel 2000, si vide, – anche un film da lui diretto – l'ha fatta rivivere al centro da un bambinetto che, prima quasi distrutto da quei sistemi che gli controllano duramente ogni istante, assume poco per volta atteggiamenti quasi da ribelle, arrivando fino a provocare una specie di fantasiosa rivolta contro una delle due maestre che lì controllano tutti. Risolvendo però alla fine la sua ribellione solo con una piccola fuga che, com'è chiaro, rimarrà senza esiti. Con quel piccolo in mezzo e, via via, il mutamento dei suoi atteggiamenti, il film scorre via limpido e nitido senza aver mai l'aria di assumere scopertamente toni polemici ma in realtà, esibendo, sia pure in modo sommesso (la censura vigila...) l'intransigenza di quei sistemi educativi indirizzati, fin dalla prima infanzia, a far di ciascuno un rappresentante di individui ridotti a una massa di uguali, nei pensieri, negli atti, nelle scarsissime reazioni, arrivando addirittura alla... globalizzazione. Un cinema sostenuto e forte, pur sempre tranquillo in superficie, con la possibilità, a contatto dei bambini, di essere perfino litico e tenero, ma, dall'interno, pronto sempre a graffiare e a esplodere. Suscitando angosce. Il bambinetto al centro è, naturalmente, un piccolo esordiente. Non poteva però essere scelto meglio: gli occhi sempre tristi, il candore affiancato alla collera. Sembra diretto da De Sica.
Autore critica:Gian Ligi Rondi
Fonte critica:Il Tempo
Data critica:

11/1/2007

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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