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Ballata di Stroszek (La) - Stroszek

Regia:Werner Herzog
Vietato:No
Video:Number One Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Werner Herzog
Sceneggiatura:Werner Herzog
Fotografia:Edward Lachman, Thomas Mauch
Musiche:Chet Atkins, Tom Paxton, Sonny Terry
Montaggio:Beate Manika Jellinghaus
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Bruno S. (Stroszek), Eva Mattes (Eva), Clemens Scheitz (Scheitz), Alfred Edel (direttore carcere), Bob Evans (cliente ristorante), Michael Gahr (carcerato), Scott Mckain (impiegato di banca), Ely Rodriguez (Indiano), Clayton Szlapinski (meccanico), Yucsel Topcugurler (carcerato), Vaclav Vojta (dottore)
Produzione:Werner Herzog Filmproduktion, Monaco - Zdf (Zweites-Deutsches Fernschen)
Distribuzione:Goethe Institut - Zari Film
Origine:Germania
Anno:1977
Durata:

115'

Trama:

Bruno Stroszek, un giovanottone senza arte nè parte che vive strimpellando nei cortili e che ha passato la fanciullezza nel riformatorio, dopo due anni e mezzo di prigione torna nell'ostile città. Ha un appartamento, tenutogli dall'anziano Herr Scheitz, ove dà asilo a Eva, una giovane mondana. Le difficoltà per tirare avanti e le persecuzioni dei protettori della ragazza inducono il terzetto a emigrare a Palinsfield (Wisconsin) ove lavora un nipote dello Scheitz. Eva fa la cameriera presso il ristorante di una stazione di servizio; Bruno tenta di fare il meccanico; il vecchio si dedica a esperimenti sul magnetismo animale. Ma la tranquillità è solo apparente poichè, acquistata una lussuosa roulotte di 21 metri di lunghezza, ben presto iniziano i traumi per il pagamento delle rate che costringono Eva a prostituirsi e, ben presto, a legare con dei camionisti che la portano a Vancouver. Bruno e Scheitz, privati della roulotte, fuggono; tentano una goffa rapina che porta in prigione il vecchietto. Lo Stroszek, rimasto solo, arriva nel North Carolina; spende gli ultimi spiccioli e poi si dirige verso la montagna su di una bidonvia incustodita.

Critica 1:Abbandonata una Berlino deprimente e violenta, un emarginato tedesco va a cercare fortuna nel Wisconsin in compagnia di una prostituta e di un vecchio. Una delle ragioni del fascino del film di Herzog sta nell'impossibilità di separare l'interprete dal personaggio. Momenti di poesia struggente sono sia nella parte berlinese sia nella descrizione traslucida, visionaria del Nordamerica.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:La ballata di Stroszek vuole essere la testimonianza, in chiave di racconto popolare, cioè svolta con personaggi e ambienti quotidiani, di un'impossibilità di trovare ragioni positive di vivere di fronte all'orrore della società, alle sue strutture di oppressione, ora palesi ora mistificate, e alla fatica, alla solitudine e alla miseria dell'uomo. Per il protagonista non c'è conforto possibile se non la morte, individuata come quiete e rifugio cui approdare, con una seggiovia sospesa tra gli alberi, la neve e le nuvole. È, quella di Herzog, una lezione sul confronto-scontro dell'uomo con le cose, con la secca, brulla, essenziale realtà, verso la quale il regista rivendica la dura necessità del giudizio.
Tuttavia ci sembra che questa Ballata di Stroszek si configuri più come metafora spiritualista del rapporto dell'uomo con il mondo che come analisi di una mera condizione mondana. Il film ripropone infatti, sebbene, come vedremo, in maniera contraddittoria,il ritorno di Herzog al discorso metafisico e astratto del suo primo lungometraggio, Lebenszeichen, dove un soldato tedesco, che non a caso presta il suo nome al protagonista di quest'ultima opera, impazzisce in un isolotto greco, prigioniero dell'assurda irrazionalità che lo circonda. Un discorso metafisico che con Aguirre e Jeder für Sich sembrava definitivamente superato. Nel primo perchè la follia del conquistador don Lope de Aguirre era messa a confronto con la razionalità di Pedro de Ursua; nel secondo perchè la diversità di Kaspar Hauser era raffrontata alla pretesa normalità dei filantropi Dammer e Florian, del professore di logica, del prete intransigente.
Ai fini della denuncia che si propone, ci sembra improduttivo che Herzog impoverisca l'impianto dialettico del film limitando il confronto tra la (non) normalità di Stroszek e la (non) normalità di una condizione di vita (a Berlino Ovest come negli USA), senza che alcun personaggio si incarichi di documentare I'(in)esperibilità di un'alternativa. Le figure minori del film vivono infatti in una dimensione deformata. Scheitz è un imprevedibile vecchietto che cerca un sistema per misurare il magnetismo animale (cosa non riuscita a Mesmer a Schopenhauer) e che consuma una ridicolissima rapina. Eva è la prevedibilissima prostituta che riesce a liberarsi dai suoi magnaccia berlinesi solo per esercitare liberamente lo stesso mestiere negli Stati Uniti e che perfino nel nome richiama la sua condizione di prima e unica donna di Stroszek, destinata a tradirlo. Il direttore del carcere e il medico, sebbene relegati ai margini del film, sono presentati in maniera troppo riduttiva: il primo mostrando di credere che la debolezza di Stroszek è effetto dei suoi cedimenti all'alcool e non già del bando che gli ha inflitto la società, il secondo pronunciando evanescenti sentenze sull'uomo e il suo destino. Infine tutte le altre figure (esemplari quelle dei protettori) sono presentate in chiave espressionista, quindi manichea. Resta dunque il protagonista, l'emarginato, il subnormale, il deviante come unico demistificatore di verità codificate, testimone a carico di una società e di un sistema. Herzog è così tentato di attribuire al suo protagonista ruoli contraddittori. Alla base c'è la consapevolezza che la non normalità di Stroszek è il frutto dell'oppressione e della violenza di un mondo anormale. A questa si sovrappone il tentativo, obbligato nella misura in cui il regista esclude tutti gli altri personaggi, di conferire a Stroszek una consapevolezza critica delle propria passione, violentando il dato secondo cui la scoperta del senso d'una devianza permette il recupero della normalità. (E questo il momento più falso del film: Stroszek spiega a Eva l'affinità esistente fra le varie situazioni da lui sperimentate - la violenza dei nazisti, dei carcerieri, dei protettori e degli agenti delle banche americane - indicando con il braccio teso il proprio destino di vittima). Infine c'è la sublimazione del calvario del protagonista, ovvero la presentazione di Stroszek come povero in spirito, mansueto e afflitto al quale si rivolge un inidentificato messaggio messianico. Ecco dunque come dall'iniziale dimensione di reperto e cronaca di una vicenda umana si giunge a una metafora del rapporto dell'uomo con il mondo. Una metafora che la parossistica esibizione finale delle galline, mosse dai riflessi condizionati, conferma senza appello. Dal difficile e doloroso interrogarsi sulla storia Herzog approda dunque al tragico pessimismo esistenziale.
La contraddittorietà dei propositi del regista spiega, almeno in parte, la infelice riproposizione di una tesi, almeno superflua nella sua ovvietà: che non basta varcare un oceano per evadere dalla prigione di una condizione umana subalterna. Dal Chaplin di The Immigrant (L'emigrante, 1917) ai serials sull'America amara dell'ultimo decennio, passando per il Kazan di America, America (id, 1963), Herzog si ritrova nell'imbarazzante compagnia di registi assolutamente più agguerriti nel dimostrare che il mito della libertà è appunto un mito. Nè, con la sua programmatica tragicità, sarebbe capace di far ricredere i pochi Frank Capra che, seppur disoccupati, sopravvivono.
Resta, e non è poco, perchè più affine alla sensibilità del regista, la vibrante rappresentazione del rapporto tra la fragilità dei semplici e l'arroganza omicida della società. Herzog ha ragione di ritrarre il calvario di Stroszek attraverso due sole stazioni: Berlino Ovest e gli USA. Il Nuovo Mondo (capitalista) è effettivamente la proiezione delle tensioni e della violenza del Vecchio (capitalista). In Stroszek il paesaggio è al tempo stesso realistico e visionario, segnato da autentici squarci di cronaca, ma rivissuto in chiave fantastica. La Berlino di Herzog è anonima, vuota nelle sue strade, nelle sue piazze, perfino nei suoi cortili. E una città spenta, un universo di sbarre che ha fatto di Stroszek un recluso anche fuori dalle prigioni o dai riformatori. Solo nel cortile dove il protagonista canta la sua felicità di non essere più solo, pochi volti sconosciuti di ragazzi offrono segni di riscontro.
All'opposto di una Berlino vissuta, interiormente, New York appare nel suo turistico splendore di danaro e grattacieli. Sembra una grande Disneyland, nata per divertire gli adulti, ma non per contenere, tra le sue quinte di cemento armato, la loro vita. Appare infatti o attraverso il diaframma delle grate della terrazza panoramica dell'Empire State Building o attraverso i finestrini di un automobile, sì da suggerire l'idea di una merce esposta in vetrina, una merce da contemplare, non da possedere. Ancora più amaro è il ritratto che Hergog ci offre della pianura agricola, degli sconfinati spazi del Middle-West. E questo il palcoscenico dell'alienazione ultima. La casa di Stroszek ed Eva non è una villa nè un appartamento, ma la caricatura grottesca di quelli: una trailer lunga 21 metri e arredata come in un depliant. La terra, a dispetto della sua vastità, è controllata, armi alla mano, da due contadini che si sfiorano con i loro trattori come se guidassero dei carri armati. Il lago racchiude, sotto la superficie ghiacciata, un cadavere mai scoperto dalla polizia. L'autogrill, anzichè l'abitazione, la piazza o il parco, è il luogo degli incontri, di contatti umani sempre più mercificati. La riserva Cherokee, infine, è un grottesco lunapark dai nomi cinematografici.
La fotografia di Thomas Mauch sottolinea compiutamente l'inquietudine di questo paesaggio. Tranquilla, dimessa, aderente alla cronaca, ma anche, improvvisamente, livida, provocatoria, allucinante nell'inatteso impiego dei teleobiettivi. Il colore, nella parte berlinese, è livido, verde, percorso da ombre e sfondi neri; in quella statunitense è più mobile, come per riflettere l'itinerario del protagonista. All'inizio si accende con i colori della bandiera a stelle e strisce, quindi sviluppa tinte bluastre, sempre più tetre e nebbiose.
In quest'ambiente risulta vana la ricerca dell'equilibrio uomo paesaggio. Il nipote di Scheitz impiega il suo tempo libero a ricercare il cadavere. Il pellerossa, compagno di lavoro di Stroszek, è distaccato nella periferia della società industriale. I clienti dell'autogrill sembrano uscire da un quadro iperrealista. Il funzionario di banca sottrae a Stroszek l'abitazione con una vendita all'asta che sembra giunta, nella sua frenesia, alla milionesima rappresentazione.
La metafora degli animali non offre solo un epilogo alla vicenda, ma riassume le premesse poste lungo tutto il film. Dalla ricerca della misurazione del magnetismo degli animali,condotta da Scheitz per documentare quantitativamente la loro libertà, si approda alla visione degli stessi animali prigionieri tra le quinte e le luci del lunapark, costretti a ripetere ciò che più li estranea dalla loro natura (l'attività,Iudica o utile, dell'uomo), attraverso le successive tappe della disumanizzazione della persona: Eva torna a vendere il suo corpo, Scheitz ruba e si fa arrestare, Stroszek si suicida. Attraverso la tranquilla anormalità di un emarginato, emigrato da Berlino, Herzog fa esplodere la folle normalità della vita quotidiana del Nuovo Mondo. Chiede alla fine il tutore dell'ordine di fronte al caos introdotto da Stroszek: "C'è un uomo sulla seggiovia; una gallina che balla. Non riusciamo a fermare i congegni. Mandateci un elettricista". Intanto l'indiano della riserva, inconsapevole del dramma che la storia antica e la cronaca più recente hanno allestito sul palcoscenico della sua terra, con la sua estraneità fornisce l'ultima prova di una degradazione inconsapevole e quindi inarrestabile.
Autore critica:Giorgio Rinaldi
Fonte critica:Cineforum n. 171
Data critica:

1-2/1978

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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