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Storia d'amore -

Regia:Francesco Maselli
Vietato:14
Video:Deltavideo, Video Club Luce
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Disagio giovanile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Francesco Maselli
Sceneggiatura:Francesco Maselli
Fotografia:Maurizio Dellorco
Musiche:Giovanna Salviucci Marini
Montaggio:Carla Simoncelli
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Pierpaolo Benigni, Luigi Diberti, Gabriella Giorgelli, Valeria Golino, Massimiliano Martoriati, Livio Panleri, Teresa Ricci, Blas Roca Rey, Franca Scagnetti
Produzione:Pont Royal Film, Istituto Luce
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Italia
Anno:1986
Durata:

109'

Trama:

Figlia di un magazziniere e orfana di madre, la diciannovenne Bruna vive una durissima vita, divisa fra il lavoro di pulizia negli ambienti di una grande immobiliare e le fatiche supplementari di una impegnativa routine domestica per attendere al padre e ai due fratelli. Non si accorge quasi di non aver tempo per sè, per vivere e amare, e appare allegra, attiva, socievole e attaccatissima ai suoi, pur nello squallore di una remota borgata romana. Una mattina incontra sull'autobus un coetaneo timido e taciturno, Sergio, che lavora come facchino ai mercati generali, e subito sorge fra i due l'intesa, l'amicizia e l'amore. Ma ben presto accade a Bruna di rimanere affascinata da Mario, un meridionale appena adolescente che sfruttato dall'esosa padrona - presta servizio in un bar di periferia. Conosciuta la passione di Bruna per il ragazzo, Sergio l'abbandona. Mario e Bruna si trasferiscono in uno stabile destinato alla demolizione, dentro il quale sono riusciti a ricavare un paio di stanze, dove vivono felici del loro pur modesto lavoro. Ma ecco ricomparire Sergio. Non fa scenate, non è geloso di Mario: vuole solo restar vicino a Bruna. I tre convivono amichevolmente senza problemi e senza scabrosi miscugli. Ma a un certo punto Bruna, sentendosi trascurata ed esclusa a causa dell'intesa sorta fra i due intorno ai comuni problemi di lavoro, si scopre sola e relegata alla dura vita di prima: non resiste più e si lascia cadere nel vuoto dalla terrazza dello squallido alloggio.

Critica 1:Bruna, ragazza romana di borgata, ha troppe responsabilità sulle spalle: padre vedovo, fratelli, un duro lavoro. E la sua vita sentimentale è in crisi. Per più di un'ora il racconto procede senza intoppi e convince anche per l'esattezza dei gesti quotidiani e della descrizione ambientale, pur con qualche virtuosismo ottico in più e la tendenza a pigiare sul pedale di un timido lirismo. (...) La musica coinvolgente di Giovanna Marini sostituisce spesso vantaggiosamente i dialoghi. Premio speciale della giuria a Venezia 1986 e Coppa Volpi a V. Golino.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Benché sottoposta alla tirannia dell'orologio, la vicenda di Bruna non ha quasi durata. È come rinchiusa in un attimo, nel movimento circolare descritto dal prologo. Il giro poi si allarga inserendo fatti, ma l'impressione di un segno fugace e concluso rimane. Tuttavia questo non significa uniformità di tempo: il segno rapido dei successivi passaggi si riproduce, come sulla superficie dell'acqua suggerendo un'idea di fatale regolarità, ma non nasconde interne variazioni. Intendiamo dire che quella del cerchio e della sua labilità è l'impressione definitiva e sintetica che, come vedremo, può avere una sua pregnanza simbolica non contingente, un tempo unico che si crea dal confronto delle variazioni e ne raccoglie il senso. Questo rapporto di segno circolare e tempo narrativo, possiamo osservarlo nella struttura intercalante dei film, nell'alterna funzione di fasi descrittive (il procedere della storia, i fatti, le voci umane e le parole) e fasi sintetiche (le pause ricorrenti e concentrate, senza parole, assorte nel movimento musicale). In modo affine sembra funzionare la composizione delle immagini che da nitidezze “realistiche”, passano alle sfumature più morbide (quasi all'accostamento astratto dei colori) delle dissolvenze negli interni e sui primi piani. Tutto si ritrova, così, nei modi della ballata: il motivo di Giovanna Marini apre nel film con tempo di andante, ma poi varia in allegro e adagio secondo il colore drammatico della storia. C'è l'andante della consuetudine, dell'azione quotidiana, l'allegro dei momenti di crescita e progetto, l'adagio che guarda all'oscurità, prelude e accompagna la tragedia. Il tempo di cui si conserva l'impressione conclusiva è però, come abbiamo tentato di spiegare, un tempo unico, risolto con la velocità di un segno circolare. Forse il tempo irrecuperabile e decisivo dell'adolescenza e della prima giovinezza, lungo e intenso di per sé, ma breve e perduto quando lo si guarda da lontano. Maselli sembra trovare in ciò, non solo una soluzione stilistica che gli permette di evitare la banalità pseudorealista, ma una costante poetica. Lui guarda adolescenza e prima giovinezza con partecipata distanza, proprio come ha fatto al tempi dell'esordio, quando la sensibilità verso la solitudine dei giovani eroi de Gli sbandati sembrava andare oltre lo stesso giudizio politico (legato all'analisi, pur rigorosa e tagliente, dello scenario sociale), o ancora in seguito con la rinuncia ad ogni moralismo e quindi con la disponibilità verso i giovani sconfitti de Gli indifferenti. Se guardiamo con attenzione tutta la filmografia del regista, il conflitto entro cui anche Storia d'amore va inserito, resta sempre quello fra generazioni come aspetto di quello fra classi o ceti sociali e, in ultima analisi, come trasparenza di un serissimo e profondo dualismo personale. Da un lato troviamo l'abbandono alla forza concreta delle forme realistiche, dall'altro il bisogno di scavare e giudicare nel luoghi della borghesia; da una parte avvertiamo un senso di sfiducia verso le categorie più banali del realismo (la semplicità, i valori collettivi, la nitidezza morale presunta in chi sta dalla parte giusta), dall'altra un vigoroso ricorso all'ideologia.
Insomma sembra emergere periodicamente in Maselli l'esigenza di combinare l'ambiguità e la raffinatezza intellettuale di un'origine da cui si è staccato, con le ragioni altrettanto profonde di una scelta ideologica e politica divenuta fondamentale nella sua vita. Da questo punto di vista la Caterina del lontanissimo Amore in città (un personaggio inventato con Zavattini) assomiglia alla contemporanea Bruna, così come le astrazioni di Storia d'amore possono essere derivate (almeno sul piano della sensibilità, dell'attenzione formale e della soggettività autoriale) dall'esperienza fatta con Antonioni.
Potremmo quindi leggere l'opera di Maselii attraverso quello che una volta si chiamava “tradimento di classe” e forse non sarebbe un eccesso di personalizzazione: il suo “tradimento” ha avuto infatti l'impronta della precocità, lo ha portato a meno di quindici anni nella stessa situazione vissuta dai giovani de Gli sbandati diversi anni dopo (il film uscì nel 1954). Allora aveva solo ventitrè anni e un'esperienza politica già lunga dietro le spalle: poteva, cioè, guardare alla crisi giovanile dei suoi eroi, ma anche a un'intera fase politica, con la distanza e l'ansia che gli riconosciamo anche oggi.
Storia d'amore è dalla parte dei padri, non nel senso di una difesa tradizionale, ma piuttosto per esplicita ammissione. È noto che lo spunto per il film è venuto al regista dall'esperienza fatta nella grande manifestazione sindacale dei 24 marzo '84: “..Sono state le decine e decine di interviste girate da tanti registi (..) che mi hanno dato d'im-provviso e fino in fondo il senso di come il cine-ma italiano abbia finito per tenere "fuori campo" quei milioni e milioni di italiani che vivono fatico-samente del loro lavoro salariato senza drogarsi, prostituirsi, andare a rubare. In particolare mi aveva colpito l'intelligenza, la mancanza di ritua- lità, la limpidezza del giovani e dei giovanissimi, le donne in particolare, come sempre (..) Quei giovani che vivono spesso malissimo, di un lavo-ro massacrante e mal pagato..”; ecco, già questo che potrebbe apparire in una luce soltanto popu-lista, serve ad orientarci sull'atteggiamento di Maselli. Prendiamo ad esempio la scena della riu-nione familiare in cui Bruna espone al padre e ai fratelli i propri progetti dopo l'incontro con Ser-gio: il padre si dispone come fosse a una riunione di partito, dà e prende la parola, si sforza di usare un linguaggio strutturato. Ovviamente finisce per apparire con ironia, se non addirittura grottesco, ancor prima che la sua contraddizione esploda con vioIenza (non è disposto a spingersi molto in là nel tollerare un menage extramatrimoniale fra la figlia e il ragazzo), il suo eloquio lo ha già sensi-biImente spostato rispetto ai figli. Trova modo, è vero, di esprimere alcune sincere posizioni (è davvero il caso di usare questa parola) democrati-che e libertarie, ma la sua presenza è fatalmente rigida, involontariamente comica e, se vista come personificazione dell'autore, autocritica. Se te-niamo presenti il linguaggio della ballata già ri-chiamato e questa ironia che investe la figura del padre, potremmo decidere che il regista, non vo-lendo rimanere impigliato nella trappola neorealista, ha scelto l'innalzamento di tono, o meglio una intensificazione drammatica e simbolica la cui scrittura forza l'oggettività del dato e del documento; l'ìmmaginario neorealista classico, in ultima analisi, riconosciuto come carente a cogliere i segni della contemporaneità. C'è riuscito? Ha saputo cioè soddisfare l'ambizione di mantener vivi i lati taglienti della frattura generazionale (e politica, insistiamo, linguistica) componendoli poi in chiave di stile? Contrariamente a chi pensa che l'ideologia del film sia soltanto una specie di residuo passivo, se non una malcelata protervia veteromarxista del vecchio militante (“Compagno valoroso!” lo definiva il deputato comunista impersonato da Gassman in La terrazza), noi siamo convinti che nella contraddizione Maselli si sia calato senza risparmio. Storia d'amore è anche un urto di luoghi e di scenari, un'esplicita ricerca in quella che potrebbe essere una mimesi involontaria; la borgata e le strade umide nella luce notturna delle periferie, proprio quando ci appaiono come un deposito dell'immaginario vengono in evidenza come credibili per l'oggi. II neorealista è insomma una forma memoriale che funziona per assurdo, contro la quale il regista tenta di mostrare una diversa e contemporanea cultura della povertà. Quando Bruna si ritrova finalmente con Mario e Sergio nella stessa casa, la mdp si sposta frontalmente sui giovani in primo piano, lasciando il “gasometro” immobile sullo sfondo. Il legame fra scenario e personaggi si definisce quindi in una sorta di stacco, nel rilievo che i personaggi stessi assumono gradualmente nell'inquadratura. Anche qui, potremmo dire, si confrontano le parti dei padri e dei figli: della prima sono la borgata, il dettaglio sociologico e la denuncia, lo scenario immutato; della seconda l'aspirazione al desiderio come conquista, l'ideologia vissuta nel quotidiano, il rifiuto di un'astratta e tirannica prospettiva. Come dire che il neorealismo può essere anche visto dai padri, cioè da Maselli, non solo in chiave di denuncia verso chi (il potere politico) è responsabile di un'assurda immutabilità, ma anche con autocritica: il peso delle “nuove povertà” che si abbattono oggi su molti giovani, sarebbe aggravato dall'indifferenza della sinistra (anche dei PCI, così rapidamente invecchiato con le sconfitte recenti) e, insieme, da una cultura ossificata, tradizionale, moralista e ideologica nel senso peggiore. Questa ambiguità verso l'immaginario del dopoguerra, al quale il regista romano è pur sempre gelosamente legato, ci offre un altro aspetto dell'intimo conflitto che egli ha tentato di tradurre in Storia d'amore e che all'inizio abbiamo voluto considerare.
Detto ciò, torniamo all'interrogativo: è riuscito Maselli a mantenere viva nell'opera l'aspra contraddizione in cui s'era calato? No. Non completamente. L'equilibrio nello stile e nell'opera compiuta non viene raggiunto perché le parti della contraddizione non rimangono distinte. Un'ansia di spiegare con le parole, forse un'eccesso di onestà e di pudore generazionale, spingono Maselli a una sorta di involontaria rivincita ideologica. Il linguaggio parlato dei ragazzi finisce così per essere troppo simile a quello degli adulti, precipitando anch'esso nella forzatura, non più ironica ma pedante. E il risultato ci sembra l'annullamento degli effetti stilistici cercati coi sovratoni: dove la verosimiglianza neorealista era scavalcata dall'andamento della ballata o dall'ibrido fra lingua e dialetto, l'eccesso descrittivo nelle parole dei personaggi diventa, oltre che ideologico, letterario; per cui, paradossalmente, la verosimiglianza torna ad essere un'esigenza. Vogliamo dire che un conto è indovinare la vocazione creativa di un giovane lavoratore (pensiamo a Sergio quando descrive l'officina di elettrauto o quando parla del fascino dei termini difficili), un altro è fargliela spiegare per filo e per segno nella sua qualità di personaggio. Insomma, c'è in Storia d'amore un sovratono plausibile e necessario (quello del padre) al quale se ne contrappone uno involontario, sempre insidiato dall'eccesso: il giusto realismo dell'ideologia (da non confondere coi neorealismo stratificato, ortodosso e tradizionale) non si combina con l'astrazione della lingua poetica che pure il regista aveva felicemente indovinata. Perciò la contraddizione che non voleva risolvere, non resta neppure aperta nell'equilibrio di un'essenziale ambiguità.
Mario appare per la prima volta in una luce visionaria, scenica. La lampada accende il bianco pulviscolo nel locale appena ripulito e il ragazzo posa seminudo. Un giovane apollo o, chissà, la ripresa sublimata di uno stilema guttusiano; magari Visconti, per la plastica bellezza di un corpo che riunisce la seduzione meridionale e popolaresca a quella nordica di Andersen-Tadzio. Un po' nello sguardo di Bruna e un po' in quello del regista, Mario si mostra in una sintesi intensissima. Ciò che poteva essere un semplice accorgimento narrativo, ossia il modo di inserire il personaggio, diventa un'occasione simbolica decisiva per astrazione poetica. Poco dopo, a un ritmo completamente diverso, la stessa felicità inventiva possiamo trovarla nella scena dell'inaugurazione: il nuovo locale borgataro si trasforma per un attimo in palcoscenico e la scena, abbandonando i suoni plebei degli avventori, lievita come per danza col giro del vassoio. Prima abbiamo un'immagine quasi fissa che esalta, anche in chiave simbolicamente retrospettiva, l'incanto della visione; dopo, un delicato omaggio al musical.
Nella sequenza finale del suicidio di Bruna c'è uno stacco affine; qualcosa che funziona in urto con l'immaginario neorealista pur recuperandone in parte i segnali statici. A dire il vero l'eroina alla quale Bruna rimanda, l'Adriana di Pietrangeli anch'essa precipitata al cospetto del leggendario gasometro, già si staccava dal neorealismo e anche questo potrebbe avere un suo valore. La sequenza porta Bruna in bilico fra due suoni: è sdraiata sul bordo mentre da una parte arrivano le voci di Sergio e Mario, e dall'altra insistono i colpi di martello di un operaio su un tetto poco lontano. Robbe-Grillet, presidente della Giuria a Venezia, ha giustificato con questa scena la propria preferenza per Maselli al quale avrebbe volentieri assegnato il Leone d'oro: “ ... Agli inizi ho pensato: mamma mia, ci risiamo con i film neorealisti. Invece a poco a poco Maselli è entrato in una sfera quasi metafisica. La scena finale con la ragazza tra il richiamo delle risa degli amici e il tocco funereo del fabbro, è una delle più belle che abbia mai visto”. Come gli altri che abbiamo richiamato, il brano finale dei film ha una sua interna bellezza, ma allo stesso tempo ci pare approfondisca una lacuna. Mentre quelli entrano pienamente nella contraddizione linguistica già spiegata, quest'ultimo segna uno scarto che non ha sufficienti giustificazioni drammaturgiche. L'oscurità nella quale cresce la morte immatura di Bruna è come percepibile a posteriori e non assume adeguato peso espressivo lungo la storia. I momenti in cui si prepara, sembrano anzi soffrire di freddezza e marginalità. Valga l'esempio della scenata di gelosia, quasi un'esibizione da un palco improvvisato che, dovendo anticipare i segni di una nascosta “follia”, precipita nell'eccesso e mette a dura prova le risorse (preziose, ma ancora deboli) di Valeria Golino. E valgano i tratti di separazione dell'ultimissima fase: il bagno dei tre a Ostia, alcuni rapidi passaggi nella casa, che non sembrano raggiungere la forza necessaria.
Abbiamo l'impressione che il regista, giunto come in ritardo alla svolta drammatica del film dopo aver perso troppo tempo affidandosi all'ideologia della lingua parlata, abbia improvvisamente concentrato e rarefatto il clima: alcuni brevi segnali, poi una lunga dilatazione nella scena finale. Ancora una forzatura, si potrebbe pensare, ma stavolta sul rapporto fra verità della cronaca (fredda e oggettiva nel registrare tragedie senza motivi apparenti) e insondabile verità individuale. Ma il senso dell'assurdo che Maselli cercava, e anche il legame fra vitalità e pulsione di morte che Robbe - Grillet riconosce, sembra troppo arretrato dalle soglie di un'ambiguità potente o anche da languori (sfumati, ma necessariamente avvertibili) dell'inespresso. Tutto ciò non può che portare, secondo la via analitica che abbiamo scelto, all'idea di un film malriuscito. Solo che il termine va sempre misurato sulle ambizioni e sulle possibilità che il film stesso sa offrire per riconoscerlo. Se il film di Maselli possiamo vederlo in questo modo, allora dobbiamo concludere che malriuscito non è lo stesso di brutto o mediocre, perché, se invece avesse risposto in pieno alle ambizioni, non avremmo avuto solo un film bello ma, come si diceva una volta, un film giusto.
Autore critica:Tullio Masoni
Fonte critica:Cineforum n. 259
Data critica:

11/1986

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



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