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Buena Vista Social Club - Buena Vista Social Club

Regia:Wim Wenders
Vietato:No
Video:Elle U L’Unità
DVD:Elleu Multimedia
Genere:Documentario musicale
Tipologia:La musica
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Wim Wenders
Sceneggiatura:Wim Wenders
Fotografia:Jorg Widmer
Musiche:Buena Vista Social Club
Montaggio:Brian Johnson
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Ry Cooder, Ruben Gonzales, Eliades Ochoa, Omara Portuondo, Compay Segundo, Ibrahim Ferrer
Produzione:Road Movies Film Berlino
Distribuzione:Mikado
Origine:Cuba - Francia -Germania - Usa
Anno:1998
Durata:

97'

Trama:

Ry Cooder, musicista americano, ha avvicinato all'Avana un gruppo di cantanti e musicisti cubani di età compresa tra gli 80 e i 92 anni. Li fa parlare, suonare, cantare, e poi, sull'onda dei ricordi e dell'entusiasmo, li convince a partecipare ad una tournée. Ecco due concerti eseguiti davanti ad un pubblico sempre entusiasta: ad Amsterdam, in Olanda, e a New York, alla Carnegie Hall dove molti del gruppo arrivano per la prima volta e si fermano ad osservare con meraviglia i grattacieli e il traffico caotico. Anche Cooder parla del proprio amore per la musica cubana. Poi tutti si ritrovano in sala di registrazione, tra impegni seri e momenti di divertimento.

Critica 1:Servono i nomi nella nostra società del tutto priva della curiosità di affrontare qualsiasi ricerca del tempo perduto? La risposta implicità è che bisogna tenerci cari i 'super abuelos', i super nonni di cui Wim Wenders ci presenta uno splendido campione cubano, il chitarrista/cantante Ibrahim Ferrer. (...) Uno dei più bei film musicali di tutti i tempi, felicemente caratterizzato da una sorta di sparizione della macchina da presa nell'approccio con un'effervescente realtà psicologica, musicale e socioantropologica.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaIl Corriere della Sera
Data critica:

8/5/1999

Critica 2:Cuba rinasce e si riprende l'antica personalità esuberante e malinconica nel film-documentario di Wim Wenders Buena Vista Social Club, presentato alla Berlinale '99 e da ieri sui nostri schermi. E' la storia di un miracolo sulle note delle vecchie glorie cubane, nomi dimenticati per anni, "eroi" che hanno l'età del secolo o quasi. Si chiamano "Super-Abuelos", i super-nonni. Facce perlopiù black, stagliate negli anni. Dai 92 a scendere, ma non di molto, meravigliosi corpi vibranti nel sound caraibico, raccolto nel disco Buena Vista Social Club che ha già venduto tre milioni di copie e vinto il Grammy. Dal disco al film. I due artefici dell'operazione sono il regista tedesco Wim Wenders e il compositore-chitarrista blues Ry Cooder (autore delle colonne sonore di Paris, Texas e The end of violence) che hanno ridipinto una Cuba dalle dimore solenni - colonnati fioriti e decadenti che si affacciano sull'oceano - invase dal bolero e dal cha cha cha. Girato in video, il film si sgrana in colori acidi, super colazione di una Havana che lascia immaginare una matrice in bianco e nero dagli interni poverissimi, dominati da altarini della Santèria, dove, per esempio, c'è un santo africano, San Lazzaro o Babalu-aye, che nasconde sotto il mantello un bicchierino di rum, un profumo aerosol e altri doni propiziatori. Qui i musicisti si raccontano. Sono Company Segundo (nato nel 1907), Rubén Gonzàlez (1919), Manuel "Guajiro" Mirabal Vazquez (1933), Omara Portuondo (1930), Eliades Ochoa (1946), Orlando Lòpez Vergara "Cachaito" (1933), Pio Leyva (1917), Manuel Licea "Punitillita" (1927). E quell'Ibrahim Ferrer (1927), leggendario cantante cubano, che Ry Cooder tornò a trovare nel 1998, dopo il successo del disco, per registare con lui un album da solista. In quell'occasione, Cooder convinse Wenders a seguirlo con una piccola troupe nell'isola di Castro, citato solo per una foto sbiadita dove gioca a golf con Che Guevara ("il Che lo lasciava vincere"). Wenders alterna le immagini dei vecchi musicisti intervistati a Cuba con le riprese dei due concerti trionfali che seguirono, ad Amsterdam e al Carnegie Hall di New York, dove le star dell'Havana vanno alla "scoperta dell'America". E si perdono incantati tra lo svettare dei grattacieli in una Manhattan notturna dalle vetrine scintillanti della quinta strada, e dove stentano, forse per gioco, a riconoscere in forma di statuetta di gesso "quel trombettista famoso...", Louis Armstrong, che ride accanto a Marilyn Monroe. I due mondi blindati - divisi dall'embargo - si parlano e si ascoltano in una fusione di ritmica metropolitana e suoni dell'isola. Poi si torna sul celebre lungomare spumeggiante... Cuba non è più l'inferno turistico dei predatori occidentali, è l'isola dei musicisti del "Buena Vista Social Club", dei vecchietti di un Cocoon tropicale, extraterrestri con la tromba, il basso e il pianoforte, suonato in un immenso regale palazzo, svuotato dal passato e popolato di bambini atleti e ballerini. Il regista del Cielo sopra Berlino è espatriato mentalmente già con Paris, Texas, Lisbon Story, La fine della violenza e Tokyo Ga, e ora con Buena Vista Social Club, che lievita fragrante come un'opera prima, si addentra sempre più in nuovi territori. Il film è un incontro di set, di generi e di temperature. Un omaggio al secolo, che finisce male, ma non tanto, se guardiamo Ibrahim Ferrer, sorridere sornione nel suo scantinato dell'Havana al ricordo della tournée newyorkese, quando, di fronte a centinaia di persone plaudenti, cominciò a intonare il ritmo pilon, basato sul suono prodotto dalla macinazione dei chicci di caffé.
Autore critica:Mariuccia Ciotta
Fonte critica:il Manifesto
Data critica:

8/5/1999

Critica 3:Dov'è finito il "peso" della macchina da presa? Dov'è finita la grevità del Wim Wenders di Fino alla fine del mondo (1991), Cosi lontano così vicino (l993), Arisha (1993)? Sembrava che per lui il cinema non potesse avere più occhi: che li avesse persi «nel corso del tempo», e che al massimo gli fosse dato di ritrovarli negando la sua propria storia. Ossia: tornando a una supposta, mitizzata, intellettualistica innocenza delle origini (Lisbon Story, 1995). Sembrava, infine, che ogni suo film annunciasse e purtroppo pretendesse anche da noi una definitiva, radicale, astiosa condanna della insuperabile natura menzognera delle immagini, a vantaggio di non si sa quale valore di verità della parola. E invece, per un miracolo del dio del cinema, è la leggerezza d'uno sguardo incantato quella che ci fa attraversare in volo i circa 100 minuti di Buena Vista Social Club (Usa e Germania, 1999). A guidare questo volo è la musica di Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo (detta la Edith Piaf cubana), Rubén Gonzàles, Pio Leyva, Manuel "Puntillita" Licea, Eliades Ochoa e dei molti altri che l'americano Ry Cooder riunisce quasi per caso nel '97 all'Avana. Dopo che un imprevisto gli impedisce d'organizzare un concerto con musicisti cubani e musicisti dell'Africa occidentale, decide di mettersi alla ricerca di quanto resta degli artisti che, verso la fine degli anni 50, gravitavano attorno al leggendario Buena Vista Social Club. Con molta sorpresa, scopre che sono in gran parte ancora vivi, e che nonostante l'età - tra i settanta e i novant'anni - hanno mantenute intatte la forza e la suggestione della loro arte, oltre che la vivacità delle loro menti e il vigore dei loro corpi. La musica, dice dunque Cooder - che per Wenders ha curato le colonne sonore di Paris, Texas (1984) e The End of Violence (1997) - «è come la ricerca d'un tesoro. Si scava e si scava sempre di più, e qualche volta si trova qualcosa». A Cuba, invece, «la musica scorre come un fiume». In questo fiume, lasciandosi portare dalla sua corrente, s'immerge appunto la macchina da presa di Wenders. Percorre le strade dell'Avana, beandosi d'una umanità povera ma certo non misera. Scopre sui suoi muri sbrecciati scritte che contraddicono il pessimismo della realtà con un ottimismo insieme ingenuo e commovente (su di uno si legge: «Crediamo nei sogni»). Nelle sue vie incontra bambini che inventano giochi poverissimi e grandi. Persino nella ruggine policroma delle sue auto coglie una vitalità felice e creativa, come se si trattasse di quadri astratti di un "autore" che gioca con i suoi colori. In questo paesaggio dell'anima d'un popolo da gran tempo tenuto ai margini del mondo, la musica può essere e di fatto è ovunque, a cominciare dalla sonorità spontanea che tutto riempie di sé. Ora la si vive direttamente e felicemente, ascoltando frammenti d'un concerto organizzato da Cooder ad Amsterdam, o di un altro alla Carnegie Hall di New York, o delle prove per la registrazione di un disco. Ora invece se ne ripercorre la memoria, così come la mantengono viva i protagonisti: la loro infanzia lontana, l'incontro con uno strumento, con il loro strumento, o magari con un grande musicista... Tutto è ancora vicino e presente, benché siano ormai passati quaranta, cinquanta e anche settant'anni. Vicina e presente è anche la cultura africana, che a Cuba da sempre si fonde con quella europea in un meticciato che smentisce qualunque pigro, stupido pregiudizio relativo ai "valori" della purezza etnica o razziale. Suoni e ritmi, ma anche atteggiamenti del corpo e credenze sono il prodotto, il confluire di tradizioni diverse. Se ne sente e ne intuisce la presenza ora negli strumenti e ora negli oggetti: nel laud, per esempio, una specie di liuto arrivato a Cuba dal mondo arabo attraverso la mediazione della Spagna; o anche in una sorta di santino, il Lazaro, che viene direttamente dall'Africa nera. Al Lazaro, appunto, Irahim Ferrer chiede da un'intera vita fortuna e protezione, verosimilmente ottenendole. È questo che, ormai vecchio, tuttavia ancora aspetta dalla fortuna: un po' di tempo, perché - dice - a molti capita, purtroppo, di non averne. Di tempo, a lui e a tutti gli altri, il caso è stato per altro generoso. Dimenticati per decenni, adesso girano per il mondo, ovunque acclamati. Capita così di vederli a New York. Anche qui la macchina da presa di Wenders li segue in volo, leggera, attraverso le sue grandi strade che nulla hanno in comune con quelle di Cuba. Li mostra in cima a un grattacielo, mentre guardano la Statua della Libertà, con la sua corona in testa. Sono felici, ammirati. E si ritrovano a ricordare quando, nel '57, Fidel Castro si fece fotografare a Washington, ai piedi della statua di Abraham Lincoln, un "gigante" cui pareva affidarsi. Ne è passato, di tempo. Ma non per loro, e certo non per la loro musica.
Autore critica:Roberto Escobar
Fonte critica:Sole 24 Ore
Data critica:

16/5/1999

Libro da cui e' stato tratto il film
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